Con l'intervento in parlamento sulla fiducia al governo
Letta taglia la democrazia e il parlamento borghesi e rilancia il capitalismo
Privatizzazioni, tagli alla spesa, attacco ai diritti dei lavoratori
Non c'è altra alternativa che il socialismo

L'11 dicembre Enrico Letta si è presentato alle Camere per chiedere la fiducia al suo governo, e l'ha ottenuta con un ampio margine alla Camera e per una ventina di voti al Senato. Lo aveva già fatto appena due mesi fa, ma in questo frattempo c'erano stati tre grossi avvenimenti che avevano reso di nuovo molto precaria la sopravvivenza del suo governo e delle stesse “larghe intese”: la scissione nel PDL in due partiti, uno di minoranza, il Nuovo centro democratico (NCD) di Alfano, e Forza Italia (FI), in cui è rimasta la maggioranza Berlusconiana; la decadenza di Berlusconi dal Senato e il contemporaneo passaggio, per ritorsione, di FI all'opposizione del governo, che a questo punto da Letta-Berlusconi diventava ufficialmente un governo Letta-Alfano; le primarie del Partito democratico, che incoronando nuovo segretario il democristiano Renzi, rimettono in campo anche l'incognita delle elezioni anticipate a primavera, essendo noto che il neopodestà fiorentino scalpita per candidarsi premier al posto di Letta.
Ancorché imposto di fatto dagli eventi, il nuovo passaggio alle Camere era stato chiesto formalmente da Forza Italia a Napolitano, immediatamente dopo la votazione sulla decadenza di Berlusconi da senatore. L'obiettivo del neoduce era quello di certificare la fine della maggioranza delle “larghe intese” e provocare così una crisi di governo che avrebbe portato alle elezioni anticipate. Inizialmente contrario perché le vede come il fumo negli occhi, l'inquilino del Quirinale ha finito per concedergli questo pur rischioso passaggio parlamentare, dopo averlo concordato con Letta che lo ha rassicurato sulla tenuta della nuova maggioranza con il NCD di Alfano. Una maggioranza, a detta del premier, “meno numerosa ma più coesa”, che avrebbe permesso anzi al suo governo di uscire rafforzato dal nuovo voto di fiducia, e in grado di rilanciarsi almeno fino alla fine del semestre di presidenza italiana della UE attraverso un “patto di legislatura” concordato con Alfano, anche lui interessato a guadagnare tempo per consolidare il suo nuovo partito prima di sottoporsi al test elettorale.
É con questa strategia in mente, una strategia di “attacco” e non di difesa, che Letta si è quindi presentato alle Camere, non senza prima aver incontrato Renzi, non appena costui è sceso a Roma a prendere possesso delle chiavi del PD, per avere rassicurazioni che non lo avrebbe pugnalato alle spalle, e per rassicurare Alfano che le elezioni anticipate non fossero già scritte in cima alla sua agenda. Cosa che il neo segretario ha fatto, ma ponendo precise condizioni. Come sulla nuova legge elettorale, che deve essere fatta al più presto e deve essere maggioritaria, preferibilmente a doppio turno con ballottaggio per la scelta del premier, secondo il suo modello presidenzialista del “sindaco d'Italia”, sul quale ha aperto ultimamente anche Alfano. Legge sulla quale vuol tenersi le mani libere per trattare anche con Grillo e Berlusconi, pur concedendo a Letta e Alfano una “priorità” per una soluzione nell'ambito della maggioranza di governo.
Oltre a ciò Renzi ha chiesto a Letta di andare avanti con le “riforme istituzionali”, in particolare l'abolizione del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari, l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e un patto di governo “alla tedesca”, con un elenco preciso di punti da realizzare e senza accettare veti da nessuno.

Avanti con le “riforme istituzionali”
Forte di questo accordo, quantunque precario, che ha avuto il via libera anche da Napolitano dopo che Renzi è salito anche al Quirinale, Letta ha potuto esordire chiedendo la fiducia del parlamento a una “maggioranza meno larga nei numeri, più coesa negli intenti”, già verificata nel voto di fiducia sulla Legge di stabilità, “per un nuovo inizio, con obiettivi realizzabili e tempi certi”, e non per tirare a campare fino alle elezioni anticipate a primavera, ma “entro il quadro temporale dei 18 mesi” già prefissato nel crono-programma per le “riforme istituzionali”. Almeno quelle possibili e su cui c'è una larga convergenza dei partiti, giacché la grande controriforma della Costituzione, a cominciare da quella dell'articolo 138, è finita su un binario morto in parlamento per il defilarsi di Forza Italia.
Per questo il premier, d'accordo con Napolitano, Renzi e Alfano, vuole andare avanti lo stesso con la procedura attuale dell'articolo 138, per portarne a casa almeno quattro, prima di lasciare il campo allo scioglimento delle Camere e ad elezioni anticipate: la riduzione del numero dei parlamentari, l'abolizione delle Province, la fine del bicameralismo perfetto, la riforma del titolo V della Costituzione per il riaccentramento nelle mani del governo di tutta una serie di materie e competenze che erano state devolute alle Regioni. Contemporaneamente verrà messo mano alla riforma elettorale del “porcellum”, nel frattempo dichiarato incostituzionale dalla Consulta e ridotto in pratica ad un proporzionale con scheda bloccata. Ciò attraverso una legge elettorale che, ha sottolineato Letta, “deve evitare il frazionamento della rappresentanza che ci condannerebbe all'ingovernabilità”, perché “come ha ammonito il Presidente Napolitano, la democrazia dell'alternanza è un obiettivo irrinunciabile e ci impone di orientarci verso meccanismi maggioritari”.

Nella direzione del presidenzialismo
Nonostante cioè il ridimensionamento delle “larghe intese” per lo sfilarsi di Berlusconi, e l'allontananarsi nel tempo della controriforma presidenzialista della Costituzione, Letta propone e annuncia lo stesso un drastico taglio alla democrazia e al parlamento borghesi che va comunque nella direzione voluta dal neoduce e avallata dal nuovo Vittorio Emanuele III, Napolitano, perché la riduzione del numero dei parlamentari diminuisce sia la capacità di rappresentanza sia i poteri del parlamento rispetto al potere del governo. E l'abolizione del bicameralismo perfetto, con una sola Camera che legifera e che può dare la fiducia al governo, riduce drasticamente le garanzie di controllo sull'approvazione delle leggi e dei decreti.
Anche l'abolizione delle Province, giustificata col pretesto di abolire gli sprechi e gli enti inutili, in realtà riduce di fatto la rappresentanza dei cittadini, dando per converso ai governatori di Regione e ai sindaci delle città metropolitane poteri ancor più ampi e meno controllabili di adesso. Quanto alla legge elettorale, è evidente che se dovrà essere maggioritaria ed evitare la frammentazione dei partiti, indipendentemente dal meccanismo adottato non potrà che penalizzare i piccoli partiti e avvantaggiare i più grandi e più foraggiati, traducendosi in una ulteriore riduzione della rappresentanza e della democrazia borghese.
Tutte queste misure nel loro insieme costituiscono una forma di presidenzialismo, anche se formalmente non cambiano da parlamentare a presidenziale la natura dello Stato borghese. Eppure su di esse, come è stato confermato dagli interventi, almeno sui principi e sulle linee fondamentali c'è una totale unanimità di tutti i partiti parlamentari, senza distinzioni di sostanza tra maggioranza e “opposizioni”. Compreso il partito falso comunista del trotzkista narcisista Vendola, che pur annunciando voto contrario, è arrivato a dichiarare per bocca del suo capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore: “Sulla legge elettorale e sulle riforme istituzionali bisogna agire subito e, quando diciamo agire subito, significa che, quando si dice 'superamento del bicameralismo paritario' bisogna dire che ci vuole un monocameralismo nel quale si discuta la politica e di una Camera delle autonomie per le regioni perché, altrimenti, anche questa sarebbe una storpiatura di quelle che sono le nostre richieste di crescita della nostra dimensione istituzionale”. Anche SEL, insomma, è immersa fino al collo nella corrente presidenzialista dominante.
Insieme alle “riforme istituzionali”, l'altro punto su cui il premier ha imperniato il rilancio del suo governo è stato quello della ripresa dell'economia per il rilancio del capitalismo italiano, dichiarando invertita la caduta del Pil e che “il Paese oggi può ripartire” per raggiungere una crescita del 1% nel 2014 e del 2% nel 2015, riuscendo contemporaneamente a far scendere “il debito, il deficit, le spese di parte corrente e le tasse su famiglie e imprese”.
A questo scopo Letta ha snocciolato tutta una serie di interventi che il governo avrebbe in programma di fare, tra cui molti non sono altro che dei titoli enunciati a scopo puramente propagandistico e senza impegni concreti, come quelli dedicati ai giovani, all'istruzione, alla ricerca, alla cultura, al Mezzogiorno e così via. Ma su altri merita invece focalizzare l'attenzione, per capire quale sia la direzione in cui si sta andando, che è sempre quella liberistica del rilancio del capitalismo ad ogni costo, a spese dei diritti e delle condizioni dei lavoratori e delle masse popolari.

Liberismo economico e taglio dei diritti
Così vanno interpretate per esempio certe affermazioni di Letta, come quella sulla necessità di rilanciare gli investimenti pubblici eliminando i “colli di bottiglia” nell'attuazione “delle decisioni prese su infrastrutture e opere, grandi e piccole”, chiaramente diretta ad abbattere ogni resistenza alla Tav e alla libera cementificazione del territorio, come la legge sulla costruzione di nuovi stadi inserita nella Legge di stabilità. O come quando propone di creare “un clima più favorevole agli investimenti” con il piano “Destinazione Italia”, attraverso “sburocratizzazioni” e “semplificazioni”, tra cui guarda caso “in particolare dei codici del lavoro”. O, ancora, quando annuncia il completamento della “riforma degli ammortizzatori sociali” (già intaccati pesantemente dalla legge Fornero), per andare “verso un sistema che privilegi il lavoratore rispetto al solo posto di lavoro”: da intendersi come liquidare l'articolo 18 e liberalizzare i licenziamenti secondo la ricetta Marchionne-Ichino fatta propria anche dal programma di Renzi.
C'è poi tutto un capitolo dedicato al condono per il rientro dei capitali esportati illegalmente, alle dismissioni, privatizzazioni e liberalizzazioni, nonché alla famigerata spending review per ulteriori e più pesanti tagli alla spesa sociale e la torchiatura dei lavoratori statali; capitolo presentato come il piatto forte del governo per fare cassa, “risanare” i conti dello Stato e rilanciare l'economia capitalistica, in barba alla giustizia fiscale e facendone pagare le spese al patrimonio di aziende e beni immobili pubblici, ai lavoratori del pubblico impiego, ai servizi sanitari, sociali e assistenziali.
Insomma, nonostante la maggioranza si sia ristretta per lo sfilarsi di Berlusconi, e nella quale adesso il PD del democristiano Renzi ha una posizione nettamente dominante, il programma liberista, presidenzialista e di massacro sociale del governo Letta-Alfano è sempre lo stesso di quando a dettargli l'agenda era il neoduce di Arcore. E sempre la stessa è la sua sordità verso le drammatiche condizioni degli operai, dei contadini, dei disoccupati, dei precari, dei pensionati, dei dipendenti pubblici, degli studenti, dei piccoli imprenditori e artigiani rovinati e del Mezzogiorno abbandonato, nonostante che fuori del Palazzo si faccia sempre più forte il rumore delle rivolte popolari.
Contro questo governo non c'è dunque che intensificare le lotte di massa e di piazza, proclamando anche lo sciopero generale nazionale di 8 ore con manifestazione a Roma per farlo cadere il più presto possibile. E non c'è altra alternativa che il socialismo, se vogliamo farla finita col capitalismo e cambiare veramente l'Italia.
 

18 dicembre 2013