Ottavo incontro di Renzi col suo maestro piduista e neofascista
Il vecchio e il nuovo Berlusconi confermano il patto per cancellare ciò che rimane della Costituzione del '48
Il leader del PD snobba la Direzione del partito: “Non mi serve un mandato”. La sinistra del PD non ci sta ma si adegua

“L'impianto di questo accordo è oggi più solido che mai”, recita il comunicato congiunto emesso il 12 novembre al termine dell'ottavo incontro tra Renzi e Berlusconi, in cui hanno riconfermato il patto per cambiare la legge elettorale e la Costituzione. Una formula che ricorda e suona altrettanto perentoria di quella “piena sintonia” di cui Renzi parlò il 18 gennaio scorso, dopo il primo incontro nella sede romana del PD di Largo del Nazareno, in cui i due diedero vita al patto omonimo incentrato ufficialmente sulla nuova legge elettorale super maggioritaria Italicum e sulla controriforma costituzionale del Senato, più altri accordi innominabili su materie come la controriforma della giustizia, lo scudo politico alle pendenze giudiziarie del pregiudicato, l'intangibilità del suo impero mediatico, la spartizione delle cariche istituzionali e l'elezione del successore di Napolitano.
L'accordo che riconferma il patto ha concluso il braccio di ferro iniziato con l'incontro precedente del 5 novembre, in cui Renzi voleva una risposta definitiva da Berlusconi sulla legge elettorale già approvata in prima lettura alla Camera, essendo deciso a presentarla subito al Senato e a farla approvare entro fine anno. Forse sollecitato dallo stesso Napolitano, che dice di essere prossimo a lasciare il Quirinale e vorrebbe farlo avendo vista realizzata almeno questa tra le “riforme” a cui aveva legato l'accettazione del secondo mandato a tempo. Ma anche perché il Berlusconi democristiano voleva portare a casa qualcosa per parare le critiche sui tanti interventi solo annunciati e i dati economici sempre più negativi, e soprattutto per dotarsi di una pistola carica da puntare contro i suoi oppositori interni minacciandoli con le elezioni anticipate se continueranno ad ostacolare i suoi provvedimenti in parlamento, a cominciare dal Jobs Act e dalla controriforma del Senato.
Renzi era affiancato dal vicesegretario del PD Lorenzo Guerini e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti, mentre Berlusconi dai soliti Gianni Letta e Denis Verdini, nonostante che quest'ultimo sia stato colpito di recente da un altro rinvio a giudizio, quello per il caso “loggia P3”. Del resto il premier non si sente minimamente in imbarazzo a trattare le più importanti questioni politiche e istituzionali del Paese con un pregiudicato come Berlusconi e un plurinquisito come Verdini, come ha confermato alla vigilia dell'incontro dichiarandolo sfacciatamente in tv a Ballarò : “E' giusto fare le riforme con Berlusconi. Il fatto che Berlusconi sia stato condannato e Verdini rinviato a giudizio attiene alla loro vicenda personale, ma finché ci sono italiani che li votano sono interlocutori per le riforme”.
Renzi aveva avanzato a Berlusconi le sue ultime proposte di modifica per andare a stringere sull'Italicum: premio di maggioranza al 40% da assegnare alla lista (cioè sostanzialmente al partito) anziché alla coalizione di partiti vincente; sbarramento al 3% per i partiti minori e una certa quota minoritaria, anche se da concordare insieme, di capilista bloccati e il resto dei candidati da eleggere con le preferenze. Berlusconi non aveva detto né sì né no, ma aveva chiesto alcuni giorni per pensarci, pur non nascondendo la sua contrarietà, soprattutto alla soglia di sbarramento troppo bassa (che favorirebbe Alfano) e sulle preferenze, che non vorrebbe assolutamente o almeno in misura nettamente inferiore ai nominati.

La fronda di Fitto e le sapienti minacce di Renzi
Il leader di Forza Italia aveva fatto capire di essere in difficoltà a controllare il suo campo, sia dall'esterno per l'offensiva di Salvini che è in crescita nei sondaggi e lancia la sua candidatura a nuovo leder del “centro-destra”, anche imbarcando i fascisti di Fratelli d'Italia e di Casapound, sia per la fronda interna al suo stesso partito, quella capeggiata da Raffaele Fitto che controlla già una quarantina di parlamentari, e che gli rimprovera di essere troppo arrendevole col premier: in particolare accusa Berlusconi di consegnare a Renzi un'arma carica per andare alle elezioni anticipate e vincerle grazie al doppio turno, mentre Forza Italia potrebbe arrivare terza o addirittura quarta, dopo M5S e Lega. Inoltre la fronda di Fitto mal digerisce le liste bloccate, che ovviamente Berlusconi userebbe per sbarazzarsi dei suoi oppositori interni. Così come farebbe Renzi, del resto, che non a caso non aveva insistito più di tanto sulla precedenza alle preferenze rispetto alle liste bloccate, come invece gli chiedeva a gran voce la minoranza interna al suo partito per votare l'Italicum.
Da parte sua Renzi aveva cercato di rassicurare Berlusconi che non cerca le elezioni anticipate: “Si voterà nel 2018 – gli aveva ribadito – ti do la mia parola d'onore. Ma un Paese normale deve avere una legge pronta per andare a votare in qualsiasi momento. É una clausola democratica”. Quanto possa contare la parola d'onore di uno che fino al giorno prima di silurarlo ripeteva a Letta di stare “sereno” il neoduce di Arcore lo sa benissimo, e anche perché come bugiardo di professione non deve certo prendere lezioni dal suo allievo Renzi. Fosse stato per lui avrebbe accettato subito le proposte di Renzi, non certo perché si fidi di lui, ma perché non ha alternative e sa di dipendere da lui e dal suo governo per salvare la pelle dai processi, difendere le proprie aziende e sperare un domani di riacquistare la piena agibilità politica. Anzi aveva approfittato dell'occasione per chiedere a Renzi che il PD modifichi appositamente la legge Severino per ridargliela subito. Ma sapeva anche di dover fare prima i conti con i suoi oppositori interni.
D'altra parte il tono ultimativo con cui Renzi si era rivolto a Berlusconi, chiedendogli di decidere subito “altrimenti andremo avanti da soli con chi ci sta”, non riguardava tanto le modifiche proposte, su cui era disposto a trattare, quanto i tempi di approvazione della legge, su cui non vuole più aspettare. E non era rivolta tanto al suo sodale del Nazareno quanto alla sua fronda interna dei vari Fitto e Brunetta. La minaccia ventilata di cercare altrove i voti in parlamento era riferita chiaramente al movimento di Grillo, col quale il PD aveva appena trovato l'accordo per far eleggere uno dei due giudici costituzionali, la candidata del PD Sciarra al posto del trombato Violante, in cambio di un candidato del M5S al Csm, Zaccaria, a sostituire un membro del PD che non aveva i titoli. Senza contare l'altra minaccia sottintesa, forse ancor più temibile per il delinquente di Arcore, di perdere il diritto di veto sulla scelta dei candidati alla presidenza della Repubblica che il patto del Nazareno gli riconosce.

Un bluff dal finale scontato
Per rafforzare le sue minacce Renzi aveva dichiarato per la prima volta che il patto del Nazareno “scricchiola”, e proclamato che “noi andiamo avanti anche a costo di sentirci dire avete rotto il patto”. E aveva convocato per la prima volta una riunione con il NCD di Alfano e gli altri partitini della sua maggioranza, in cui venivano ribadite le modifiche all'Italicum presentate a Berlusconi. Ma al di là dei proclami mediatici, anche quello di Renzi era più che altro un bluff, perché anche lui sa che non può fare a meno dei voti del suo compare di Arcore per andare avanti coi suoi provvedimenti, in questo parlamento di eletti quando ancora alla testa del PD c'era il fallito Bersani. Non per nulla i tirapiedi di Berlusconi gli ricordano a ogni piè sospinto che tutti i provvedimenti più importanti del governo sono passati con l'aiuto diretto o indiretto di Forza Italia.
Sicché il finale di questa pantomima era già scritto in partenza: per i due amiconi si trattava soltanto di mettere a tacere le rispettive fronde interne, prima di tornare a essere d'amore e d'accordo. Cosa che Berlusconi ha fatto trattando con Fitto e ottenendo da lui il via libera a un “mandato pieno” a trattare con Renzi da parte dell'Ufficio di presidenza di Forza Italia, in cambio della concessione all'ex governatore pugliese di maggiori poteri sulla nomina dei coordinatori di Puglia, Campania e Calabria, sulla formazione delle liste per le prossime Regionali e la convocazione di un congresso per “rilanciare il partito”.
A Renzi la cosa è costata molto meno, perché ha addirittura snobbato la Direzione del suo partito, convocandola non prima ma dopo il nuovo incontro del 12 fissato con Berlusconi per chiudere la partita, proclamando con la consueta supponenza di non aver “bisogno di un nuovo mandato” della Direzione per trattare sull'Italicum, dal momento che glielo aveva già dato a suo tempo. In ogni caso in Direzione è riuscito ancora una volta ad isolare la sinistra di Fassina, Cuperlo e Civati facendo asse con gli ascari di Orfini e Speranza e buttando ai “riformisti” di Bersani, Damiano ed Epifani l'osso di un infimo ritocco al Jobs Act sul mantenimento dell'articolo 18 per alcuni casi di licenziamenti disciplinari, da loro rivendicato come un “passo indietro” fatto fare a Renzi. Persa anche questa occasione la sinistra annuncia che la battaglia si sposterà in parlamento, sia sull'Italicum (essenzialmente sulle preferenze) che sull'articolo 18. Ma intanto Bersani, che ne capeggia lo spezzone più grosso, ha già reso le armi in anticipo, dichiarando al convegno dei “riformisti” a Milano che “la fiducia si vota e basta”.

“Lunga vita al Nazareno”
Intanto qualche ora prima della Direzione, Renzi aveva incontrato di nuovo Berlusconi per riconfermare il patto del Nazareno, ottenendo da lui l'impegno ad approvare l'Italicum al Senato entro dicembre e la controriforma costituzionale entro gennaio 2015. E il suo consenso al premio di maggioranza al di sopra del 40% e a 100 capolista bloccati in altrettanti collegi: il che garantirebbe a Berlusconi almeno una settantina di parlamentari da lui nominati, ma porterebbe anche la quota complessiva di nominati in parlamento al 60%, contro il 25-30% massimo chiesto dalla sinistra PD.
Per permettere a Berlusconi di salvare la faccia con i suoi sono stati lasciati in sospeso i due punti più controversi, e cioè il premio di maggioranza di lista invece che di coalizione e la soglia di sbarramento al 3%; ma con la formula che “le differenze registrate” non impediranno l'approvazione del provvedimento nei tempi concordati: ossia che un'intesa si troverà più avanti, o quantomeno Forza Italia non si metterà di traverso al momento dell'approvazione in parlamento.
In compenso Berlusconi, che non a caso ha dichiarato soddisfatto che il patto del Nazareno “durerà a lungo”, ha ottenuto di rientrare pienamente in gioco nell'ormai imminente partita del Quirinale, visto che il comunicato congiunto si conclude espressamente con la dichiarazione che “anche su fronti opposti, maggioranza e opposizioni potranno lavorare insieme nell'interesse del Paese e nel rispetto condiviso di tutte le istituzioni”. Nonché l'assicurazione che non ci saranno le elezioni anticipate, visto l'impegno scritto a proseguire la legislatura “fino alla scadenza naturale del 2018” che “costituisce una grande opportunità per modernizzare l'Italia”: un tempo sufficiente al vecchio e al nuovo Berlusconi per cancellare definitivamente quel che resta della Costituzione del '48, secondo il piano della P2.

19 novembre 2014