Documento dell'Ufficio politico del PMLI del 15 dicembre 1997
La Costituzione italiana è una Costituzione antiproletaria contro la rivoluzione e il socialismo
Studiare, difendere e propagandare la linea anticostituzionale del PMLI
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Studiare, difendere e propagandare la linea anticostituzionale del PMLI
Tutti i partiti parlamentari, da LeU a M5S, da Insieme per il futuro a Lega e Fratelli d'Italia, si rifanno alla Costituzione borghese italiana. I partiti che in tutto o in parte si riconoscono nella storia del PCI revisionista (PC, PCI, PRC, ecc.), al pari dei democratici borghesi Antonio Ingroia di Azione civile e De Magistris, sono i più attivi nella propaganda e nella difesa della Costituzione. Non è il caso del PMLI che fin dalla fondazione, e anche prima attraverso l'Organizzazione che gli ha dato vita, ne ha smascherato la natura e gli scopi di classe, anticomunisti e antirivoluzionari.
A più riprese, in scritti e discorsi, nei Congressi nazionali del PMLI e in alcune Commemorazioni di Mao, come l'ultima del 12 settembre dell'anno scorso, ne ha parlato il compagno Scuderi, Segretario generale del PMLI. Nel dibattito elettorale del 13 aprile 1996 a Napoli promosso dalla Cellula “Vesuvio Rosso”, di cui l'11 luglio ricorre il 30° Anniversario della fondazione, ha detto: “La Costituzione è fondata sul diritto borghese che nega agli sfruttati e agli oppressi di andare al potere e realizzare il socialismo attraverso le elezioni, attraverso il parlamento, attraverso il governo.”
Siamo quindi nettamente all'opposizione da sinistra della Costituzione, ma ciò non ci impedisce di appellarci a certi suoi articoli -come per esempio l'11 (L'Italia ripudia la guerra) e il 21 (Diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero)- che ci servono nella lotta di classe e nella difesa degli interessi e dei diritti delle masse.
Un importantissimo Documento è stato adottato il 15 dicembre 1997 dall'Ufficio politico del PMLI in occasione del cinquantenario della Costituzione italiana. Lo ripubblichiamo qui di seguito per chiarire le idee sulla Costituzione alle anticapitaliste e agli anticapitalisti e per spronare i membri e i simpatizzanti attivi del PMLI a studiare difendere e propagandare la linea anticostituzionale del PMLI.
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Sono passati cinquant'anni da
quel 1° gennaio 1948 in cui entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana,
cinquant'anni di schiavitù e oppressione per il proletariato, cinquant'anni costati
miseria, indicibili privazioni e
ti alle masse popolari mentre la borghesia ha
spadroneggiato saldamente al potere appropriandosi di incalcolabili ricchezze e privilegi
di ogni tipo. Fin dal suo Congresso di fondazione il PMLI ha ripetutamente denunciato il
carattere di classe e i contenuti borghesi della Costituzione del '48: se ``la si pone
a base della propria politica, - avvertiva il compagno Giovanni Scuderi nel Rapporto
al 2° Congresso nazionale del PMLI - più che essere una garanzia di libertà e
democrazia finirebbe con l'essere una prigione invalicabile per il proletariato''(1).
Quest'anniversario è l'occasione buona per un bilancio che aiuti il proletariato, forte
anche dell'esperienza storica maturata nel secondo dopoguerra, le masse popolari e le
nuove generazioni a prendere coscienza della sua natura borghese e antiproletaria.
La Costituzione del '48 ha consacrato attraverso principi essenziali, norme giuridiche
fondamentali e ordinamento statale il sistema economico, politico e sociale capitalistico
e lo Stato repubblicano a dittatura della borghesia, contribuendo a evitare che
l'abbattimento del regime fascista conquistato dalla vittoriosa Resistenza armata contro
il nazifascismo potesse in qualche modo compromettere la sopravvivenza e favorire la
disgregazione e rovina dello Stato borghese. Ecco qual è il suo carattere di classe e
quale il suo significato storico.
Quantunque sia stata oggetto di un vero e proprio culto da parte dei revisionisti
togliattiani e della corrente più a sinistra dei costituzionalisti borghesi, e sia
tuttora venerata dal PRC, battezzatosi ``popolo della Costituzione'', come una divinità
taumaturgica capace di produrre democrazia, la Costituzione del '48 non ha fondato nessuno
Stato nuovo ma ha semplicemente riorganizzato sulle basi nuove della repubblica
democratico-borghese la forma di dominio e la struttura dello Stato capitalistico
configurate e attuate dal regime fascista mussoliniano. Senza ledere in alcun modo il
dominio della borghesia, senza cioè toccare l'essenza dello Stato capitalistico, ha
semplicemente introdotto quelle modifiche, anche profonde, indispensabili dopo la caduta
del fascismo e ha realizzato in Italia quanto non era accaduto prima, accomunandola nel
suo percoso storico a tanti paesi capitalisti che si erano già trasformati con tempi e
modalità diversificati da monarchie assolute a monarchie costituzionali, a repubbliche, a
repubbliche parlamentari. Si ripeteva così in Italia quanto aveva modo di osservare
acutamente Marx nel corso delle rivoluzioni borghesi ottocentesche: ``Il dominio
borghese come emanazione e risultato del suffragio universale, come espressione della
volontà popolare sovrana, questo è il significato della Costituzione''(2). La ``repubblica
borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi''(3) e
rappresenta per le diverse frazioni della borghesia la ``forma più solida e più
completa del loro dominio di classe''(4).
Che cos'è una Costituzione e come la
concepiva Togliatti
Ancor prima di addentrarci in una qualsiasi analisi marxista-leninista della
Costituzione italiana occorre rispondere alla domanda cruciale: che cos'è una
Costituzione? Non possiamo cioè definire i caratteri di classe e le peculiarità della
Carta costituzionale del '48 senza aver chiarito che cosa dobbiamo intendere per
Costituzione in generale. Altrimenti quest'ambiguità finirà per spuntare come un
folletto, complicare inspiegabilmente anche la più chiara delle materie e vanificare ogni
nostra critica.
Come spiega bene Mao: ``Un'organizzazione deve avere le sue regole e così uno Stato.
La Costituzione è un insieme di regole generali, è la legge fondamentale''(5).
``La Costituzione - secondo la precisa definizione data da Stalin che peraltro ci
aiuterà moltissimo nel trovare una risposta completa a questa domanda prioritaria - è
la legge fondamentale, e null'altro che la legge fondamentale''(6) di uno Stato. Nulla
di più e nulla di meno della legge fondamentale. Il che significa, com'ebbe a spiegare
bene Stalin, che non le si può attribuire fantasiosi e inconsistenti poteri programmatici
né svilirla al rango di un codice legislativo. Soggettivamente potremmo anche contraddire
questo assunto, poi ci penserebbe la realtà stessa delle cose a imporsi, a dimostrare
l'inconsistenza di ogni nostra ipotesi velleitaria e fantasiosa. E se guardiamo al nostro
secondo dopoguerra, la storia ha finito sempre per prendersi la rivincita.
``La Costituzione - aggiunge Stalin - non deve essere confusa con un programma.
Ciò vuol dire che tra un programma e la Costituzione vi è una differenza sostanziale.
Mentre il programma parla di ciò che non esiste ancora, che deve essere ottenuto e
conquistato nell'avvenire, la Costituzione, al contrario, deve parlare di ciò che esiste
già, che è già stato ottenuto e conquistato, adesso, nel momento presente''(7). ``La
Costituzione non esclude, ma presuppone il lavoro legislativo corrente e di futuri organi
legislativi. La Costituzione dà una base giuridica alla futura attività legislativa di
questi organi''(8).
Per quanto possa informare l'attività legislativa futura la Costituzione non disegna uno
Stato futuribile o auspicabile ma lo presuppone, è espressione di quello Stato
storicamente determinato sia esso capitalista che socialista e non può in alcun modo
sovvertirlo. Non è lo Stato a poggiare sulla Costituzione bensì è la Costituzione a
poggiare sullo Stato. ``La Costituzione è la registrazione e la sanzione legislativa
della conquista già ottenuta e garantita''(9). Queste illuminanti definizioni date da
Stalin circa il carattere, il ruolo e il valore delle costituzioni sono state
esplicitamente negate e contestate da Togliatti in sede di prima sottocommissione
dell'Assemblea Costituente. Illustrando le proposte del PCI, questa volpe revisionista si
arrampica sugli specchi per dimostrare che nel caso italiano si vede costretto ``a
distaccarsi da questa norma''(10). E le ragioni risiederebbero nella peculiarità
della caduta del fascismo e dal momento che, a suo dire, ``non è avvenuta, tra di noi
una rivoluzione la quale abbia violentemente distrutto tutto un ordinamento sociale
gettando le basi di un ordinamento nuovo''(11).
Confondendo ad arte rivoluzione socialista e lotta antifascista, che per forza di cose si
era limitata all'abbattimento della dittatura mussoliniana e aveva visto il concorso di
correnti e partiti per questo obiettivo comune, Togliatti si appella all'unità
antifascista per accomunare partiti che viceversa dovrebbero avere programmi politici
diversi e antagonistici, come del resto le vicende successive dimostreranno amaramente:
riguardo ``alle trasformazioni sociali, si può dire che è in corso nel nostro paese
un processo rivoluzionario profondo, il quale, però, per comune orientamento delle forze
progressive, si svolge senza che sia abbandonato il terreno della legalità democratica...
Per questo parliamo... Di una `democrazia progressiva'''(12). Il processo
rivoluzionario a cui pensa è evidentemente tanto profondo da risultare indefinibile e
impercettibile, tanto ambiguo dal punto di vista di classe da presupporre l'abbandono del
terreno della lotta di classe, il solo terreno su cui la rivoluzione avanza e non si
impantana nel volgare riformismo borghese.
Insomma questo rinnegato cerca di giustificare il tradimento della rivoluzione socialista,
che avrebbe dovuto dirigere il PCI dopo la vittoria della Resistenza, attribuendo
surrettiziamente alla Costituzione una funzione propulsiva che essa non avrebbe mai potuto
intrinsecamente possedere. Anzi ne fa una sorta di surrogato della lotta per il
socialismo, la sostituisce alla lotta di classe e vede nella Costituzione il quadro
legislativo elastico e aperto entro cui avrebbe dovuto dipanarsi la sua ``via italiana
al socialismo'', prestando molta attenzione a non allarmare la borghesia e ad
assicurarla sul senso generale delle pretese avanzate dal suo partito in sede di
definizione della carta Costituzionale: ``è per questo che le proposte che io faccio,
pure muovendosi nella direzione di una trasformazione economica socialista, mi sembra
possano essere accettate da tutte le correnti democratiche e progressive dell'assemblea e
del paese, poiché del socialismo esse esprimono quello che oramai è entrato nella
coscienza comune di tutte queste correnti, e veramente può diventare elemento di
orientamento e guida per tutta la nazione''(13).
Se il socialismo a cui pensa Togliatti può essere accettato tranquillamente da tutti i
partiti borghesi esistenti, come la DC di De Gasperi, il PSI di Nenni, il PSLI di Saragat,
il presidenzialista Partito d'Azione, e divenire spontaneamente ``orientamento e guida
per tutta la nazione'', allora quel socialismo è niente di più di una generica e
innocua adesione ad altrettanto generici principi che non hanno niente a che vedere col
socialismo autentico per cui hanno combattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao. E del
resto, paralizzati dalla camicia di forza della legalità democratico-borghese, non si
potrebbe andare al di là del pretesco socialismo solidaristico e filantropico vagheggiato
come messianico futuro da chi vuol semplicemente stemperare le asprezze del capitalismo,
imbellettarlo e renderlo meno inviso agli sfruttati.
Il socialismo, quello vero, non può coesistere ed è inconciliabile col capitalismo: è
il frutto della rottura rivoluzionaria ossia della distruzione della macchina statale
borghese e della sua sostituzione con la dittatura del proletariato. E come non esistono
in Occidente Stati non più borghesi e non ancora socialisti, così è pure fantasia
concepire, come fa Togliatti, una Costituzione in grado di compiere quella miracolosa
metamorfosi. Tant'è che a cinquant'anni di distanza l'unica metamorfosi che è stata in
grado di ispirare e avviare è la restaurazione sotto nuove forme del regime mussoliniano.
Solo se si fa piazza pulita di ogni fumosa ambiguità sul carattere di classe borghese
della Costituzione italiana, se ne possono evidenziare le particolarità essenziali.
Chiamarla, come fa Togliatti, ``progressiva'' poiché non si limita
all'enunciazione dei diritti civili e politici, ma prevede un presunto programma di
trasformazione dei rapporti sociali, è invece un modo per aggiungere ambiguità ad
ambiguità e si risolve in un opportunistico artificio per evitarne una esplicita
definizione di classe.
Una Costituzione borghese da cima a fondo
La Costituzione italiana è una Costituzione borghese da cima a fondo, dall'articolo 1,
che la apre e ne elenca i primi ``Principi fondamentali'', fino all'articolo 139,
che la chiude prima delle ``Disposizioni transitorie e finali''. E ciò lo
evidenziano ogni suo passaggio e formulazione.
Ma esistono due ragioni fondamentali che precedono ogn'altra considerazione: la prima è
il carattere capitalistico del sistema economico da essa presupposto, sancito e tutelato,
un carattere ritenuto tanto scontato dai costituenti da indurli a non trattarlo in modo
organico e completo in un solo articolo ma a lasciarlo trasparire come una legge
indiscutibile, naturale e assoluta che non suscita perplessità e quindi non necessita di
essere affermata e sottolineata. Tale scelta fu senz'altro suggerita da opportunità di
carattere contingente, come la necessità di coprire il PCI di Togliatti che avrebbe
solennemente sottoscritto quella carta costituzionale e l'avrebbe persino elevata a stella
polare del suo programma politico; tuttavia, se ci riflettiamo, risponde a un'altra e più
ambiziosa necessità che accomuna tutte le costituzioni borghesi, cioè quella di
sacralizzare i principi borghesi come se fossero principi naturali, inviolabili, eterni e
universali. La proprietà privata capitalistica è considerata dai costituenti come un
assioma, una proposizione primitiva accettata per vera ed evidente, e come tale non si
discute, un fondamento entrato a far parte del Dna della società borghese a cui
evidentemente pensano. Per far affiorare il primo comandamento borghese che la proprietà
privata capitalistica è sacra, occorre passare in rassegna i tredici articoli dedicati ai
``Rapporti economici'' e cogliere quei passaggi da cui risulta il suo carattere
prioritario.
Due sono in particolare gli articoli significativi, il 41 e il 42, che recitano
rispettivamente: ``L'iniziativa economica privata è libera''; ``la proprietà privata
è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto''. A
evidenziare il conflitto tra capitale e lavoro salariato che contraddistingue il sistema
economico capitalistico ci pensano poi gli articoli 36 e 37, che fissano le regole di
quello che definiscono senza imbarazzo ``lavoro salariato''. E le fissano
capovolgendo le modalità che legittimano e consacrano la proprietà privata. Mentre
l'articolo 41 sanziona l'illimitata libertà del capitale, il 36 disciplina le questioni
essenziali relative alla produzione e riproduzione della forza-lavoro.
La seconda ragione fondamentale a rendere la Costituzione italiana una Costituzione
borghese è il cordone ombelicale che la lega allo Stato capitalistico, da essa
sanzionato, riorganizzato e ridisegnato. Pur senza addentrarci nell'esame dell'``Ordinamento
della Repubblica'' che costituisce la Parte seconda della Costituzione, appare
indubitabile che, al di là delle nuove forme, della riorganizzazione statale, delle nuove
norme giuridiche fondamentali dell'intero ordinamento statale rispetto al precedente Stato
fascista, essa non sostituisce ma perpetua lo Stato capitalistico, non instaura un
fantomatico Stato di tutto il popolo, democratico e al di sopra delle classi, ma impone la
dittatura della borghesia nella forma più evoluta e aggiornata. ``Il tipo più
perfetto e progredito di Stato borghese - spiegava Lenin - è la repubblica
democratica parlamentare: il potere appartiene al parlamento; la macchina
statale, l'apparato amministrativo e l'organo di direzione sono quelli di sempre: esercito
permanente, polizia, burocrazia praticamente irremovibile, privilegiata, posta al di
sopra del popolo''(14).
Per quanto possa apparire profondo ed esteso il cambiamento prodottosi con l'avvento della
Repubblica si tratta pur sempre di un cambiamento che tocca le forme del dominio di classe
e non l'essenza della macchina statale capitalistica. Tant'è che per decenni è
proseguita la polemica sulla continuità sostanziale e persino formale tra Stato fascista
e Stato repubblicano che del precedente manteneva la vecchia legislazione, il codice
Rocco, i vecchi apparati polizieschi e burocratici, e istituti di controllo governativo
sul potere locale e sul territorio, come il sistema prefettizio.
Lo Stato riorganizzato dalla Costituzione repubblicana rimane lo Stato capitalistico anche
se il suo nuovo volto può apparire esteriormente quasi irriconoscibile, ove si dimentichi
che essa fu il prodotto della vittoria della Resistenza, di quella lotta armata di popolo
che racchiuse in sé il duplice carattere di rivoluzione antifascista e di guerra civile.
Il rivolgimento sociale e politico da essa provocato era stato il frutto di un'alleanza
tra svariate classi come il proletariato, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia
democratica e repubblicana. Un'alleanza che i dirigenti revisionisti togliattiani
lasciarono egemonizzare alla borghesia democratica e repubblicana che finì per conferire
a quell'evento il carattere di un ``secondo risorgimento'', ossia si limitò a dare uno
sbocco positivo e compiuto a quella rivoluzione democratico-borghese che l'Italia aveva
conosciuto in maniera parziale e monca, soffocata, com'era, da rapporti economici angusti
e arretrati, poco evoluti dal punto di vista capitalistico, e da una borghesia pavida e
gretta, più incline al vile compromesso con la feudalità e la monarchia che a slanci
politici per vedere integralmente realizzati i suoi ideali e i suoi modelli giuridici e
istituzionali.
Quando si esamina una qualsiasi legge e a maggior ragione la ``legge fondamentale della
Repubblica'' non si può non considerare in quale contesto storico politico nazionale e
internazionale e con quale concorso di classi e partiti politici essa vede la luce. La
classe dominante borghese italiana viveva nel timore che il crollo del fascismo
trascinasse con sé il sistema capitalistico e l'intero Stato borghese; d'altra parte il
proletariato, forte del successo ottenuto quale classe più numerosa e decisiva della
lotta di liberazione contro il nazifascismo, occupava la scena politica con sempre
maggiore fiducia in sé e confidava di dare in prospettiva un futuro socialista
all'Italia.
I rapporti di forza tra le classi e i relativi partiti all'interno del fronte unito
antifascista non erano certo favorevoli alla borghesia, ecco perché essa si vide
costretta a venire incontro alle aspettative e rivendicazioni della piccola e media
borghesia per non perdere e salvaguardare la sua egemonia politica.
La Costituzione del '48 sanzionò la repubblica democratico-borghese perché la Resistenza
non poteva avere alcuno sbocco diverso. Erano quelle caratteristiche storiche e sociali a
imporlo. Anche un autentico partito del proletariato avrebbe stipulato un compromesso
nella situazione che si era venuta a creare, ma non certo con i contenuti che si ritrovano
nella Costituzione vigente e purché non rinunciasse alla sua indipendenza di classe,
ribadisse la sua libertà d'azione e riaffermasse che il suo programma politico non si
fermava al regime democratico e repubblicano borghese, la cui conquista schiudeva la fase
della lotta per il socialismo.
Un
compromesso tra DC e PCI indirizzato contro la rivoluzione e il socialismo
Al contrario il compromesso stipulato dal PCI di Togliatti, dalla DC di De Gasperi, dal
PSI di Nenni e dal Partito socialdemocratico di Saragat era unicamente indirizzato contro
il proletariato e la rivoluzione. Fu lo stesso Togliatti ad ammettere gli intenti
controrivoluzionari della partecipazione del PCI alla Costituente: ``Questo è dovuto
al fatto che i comunisti, nel 1946, respinsero la via della rottura della legalità per
disperatamente tentare di affermare il potere e scelsero la via della partecipazione ai
lavori della Costituente''(15). E in questo senso la Costituzione fu tacitamente vista
come lo strumento che doveva disinnescare la mina della rivoluzione piuttosto che
rappresentare una grande conquista sulla strada dell'emancipazione. Infatti così fu
concepita dai costituenti, tra i quali non c'era nessuno, neppure i costituenti
revisionisti, a considerarla semplicemente una tappa, un compromesso temporaneo prima che
si creassero tutte le condizioni per la conquista del socialismo. Lo stesso presidente
dell'Assemblea Costituente, quell'Umberto Terracini che non aveva mai nascosto
polemicamente le sue simpatie per il ``socialismo liberale'' di Gobetti, per i rinnegati
scissionisti trotzkisti e per una politica di destra e di copertura verso la
socialdemocrazia che pure aveva ceduto e aperto la strada al fascismo, pur essendo uno dei
massimi esponenti del CC del PCI, ebbe a ribadire che ``l'unica democrazia che si
poteva creare era la democrazia borghese''(16).
Da qui bisogna partire per comprendere appieno il tipo di compromesso deteriore e
controrivoluzionario sottoscritto da Togliatti. Costui vendette l'anima, cioè rinunciò a
tutto in cambio di vuote promesse e di formule tanto generiche e retoriche quanto
inefficaci e prive di vincoli ed obblighi concreti. Rinunciò al socialismo col miraggio
che la Costituzione avrebbe dato vita a ``un regime, uno Stato nuovo''(17) né
capitalista né socialista che ponesse le premesse, per la prima volta nella storia, per
l'avvicendamento al potere tra la vecchia classe sfruttatrice e la nuova classe oppressa
in forme indolori, senza conflitti e spargimenti di sangue.
Com'ebbe modo di spiegare Togliatti l'11 marzo '47 nel dibattito che precedette l'esame
del primo progetto di Costituzione davanti all'Assemblea Costituente, si trattava
finalmente di dare soluzione al: ``problema dell'avvento di una nuova classe dirigente
alla testa della vita nazionale. La nuova Costituzione deve essere tale che per lo meno
apra la via alla soluzione di questo problema''(18). Dunque la vera preoccupazione di
Togliatti non è quella di strappare nella Costituzione borghese le condizioni più
favorevoli alla lotta del proletariato, non è quella di conquistare, attraverso un
onorevole e vantaggioso compromesso, l'ultima tappa storica prima di spalancare le porte
alla lotta rivoluzionaria per il socialismo, ma piuttosto garantirsi un impianto
costituzionale che fosse visto come un traguardo storico e lo mettesse al riparo dalle
critiche e dagli attacchi di tradimento che gli sarebbero piovuti da sinistra e che
potesse giustificare in qualche modo la ``svolta'' di Salerno compiuta al suo rientro in
Italia nel '44 e la sua riformistica ``via italiana al socialismo''. Così si
capiscono le ragioni delle defatiganti trattative su certi articoli e della rinuncia a
sollevare obiezioni pregiudiziali su altri. Lui rinuncia alla rivoluzione e la borghesia
è disposta a fargli qualche concessione formale purché non siano in alcun modo toccati
il carattere borghese dello Stato e il carattere capitalistico del sistema economico.
Quando gli apologeti della Costituzione, presenti soprattutto nelle file della sinistra
borghese e dei rinnegati del comunismo, ne hanno esaltato il carattere innovativo e
persino rivoluzionario rispetto ai precedenti storici e l'hanno additata a modello di una
democrazia avanzata, frutto di un accordo di alto profilo tra le tre componenti principali
dell'antifascismo: l'operaia, la cattolica e la liberaldemocratica raggruppate
rispettivamente nel PCI e nel PSI, nella DC e nel Partito d'Azione nonché intorno a
prestigiose personalità borghesi quali Orlando, Nitti, Croce, Einaudi, Calamandrei;
ebbene costoro si guardano bene dal dire due questioni fondamentali e chiarificatrici.
Anzitutto che le ``novità'' della Carta del '48 si fermano essenzialmente
all'enunciazione dei principi fondamentali e alla Prima parte e non riguardano che
marginalmente l'ordinamento della Repubblica e inoltre che certe formulazioni
costituzionali furono il frutto di un compromesso che doveva rendere credibile la
controrivoluzionaria operazione togliattiana agli occhi del proletariato e davanti
all'allora movimento comunista internazionale. Un compromesso costato un certo prezzo alla
borghesia ma che non ha paragone con quello pagato dal proletariato. Si è trattato di una
condotta della borghesia non nuova nella storia della lotta di classe.
Ogni volta che si è sentita minacciata da rivolgimenti rivoluzionari e incapace di
governarli e vincerli col solo uso della repressione, la borghesia ha tentato il tutto per
tutto arrivando a concedere anche le riforme più radicali pur di non perdere
l'essenziale, cioè il potere. Ed è appunto quanto si è verificato durante i lavori
preparatori della Costituzione. Può apparire incomprensibile che mentre si precostituiva
tutte le condizioni interne e internazionali per il colpo di Stato sferrato con
l'estromissione il 13 maggio 1947 del PCI e del PSI dal governo e mentre si assicurava il
saldo controllo degli organi polizieschi, militari e giudiziari e già pensava alla Gladio
anticomunista e magari alla ``legge truffa'', De Gasperi non avesse difficoltà a fare
delle concessioni a Togliatti in tema di ``eguaglianza'' (comma 2 dell'art. 3), diritto al
lavoro (art. 4) e diritti dei lavoratori (art. 35 e seguenti), governo pubblico
dell'economia e limitazioni al monopolio (art. 41, 42, 43).
Enunciare dei principi che in molti casi non troveranno alcuna applicazione
nell'ordinamento e nella vita concreta non costa nulla e in ciò la borghesia è maestra.
Del resto la DC aveva modo di apporre il suo marchio ideologico nell'ispirazione
solidaristica e personalistica (art. 2) nell'attribuzione della tutela della pace a
organizzazioni internazionali (art. 11), nell'imposizione dei Patti Lateranensi (art. 7),
nel riconoscimento del ruolo della famiglia e della maternità (art. 29, 30, 31) e della
scuola privata (art. 33), nella promozione del collaborazionismo di classe cogestionario
(art. 46) e nella tutela della piccola e media proprietà contadina (art. 44 e 47).
Non è strana la loro condotta. Il compromesso fu raggiunto più attraverso convergenze
che contrasti, attraverso complicità talvolta clamorose, come fu il caso dell'art. 7, il
più delle volte naturali e raggiunte senza sforzo, visto che il solidarismo cattolico ben
si coniuga all'interclassismo revisionista ed esisteva una solida convergenza
politico-ideale tra la DC di De Gasperi e il PCI di Togliatti di carattere strategico che
fu interrotta sul piano governativo non per loro autonoma iniziativa ma perché vi furono
indotti, costretti dall'inizio della ``guerra fredda'' e dalla politica di accerchiamento
e di aggressione che l'imperialismo Usa e occidentale inaugurarono contro l'Urss
socialista di Stalin, uscita dalla guerra con un rinnovato patrimonio di autorevolezza e
simpatie tra il proletariato e i popoli del mondo, e diventata pertanto più temibile e da
arginare. L'utilità era reciproca.
La DC travasava organicamente le ispirazioni ideali cattoliche nella carta Costituzionale
e le dava connotazioni corrispondenti alla sua concezione del mondo, come mai era accaduto
prima in età liberale e nel regime fascista.
Il PCI conquistava un quadro istituzionale e costituzionale entro il quale Togliatti aveva
buon gioco per contrabbandare il carattere né capitalista né socialista dello Stato
italiano e la via delle ``riforme di struttura'' quale alternativa alla via
rivoluzionaria per conquistare il socialismo. Quanto fosse sciagurato, truffaldino e
canagliesco il revisionismo togliattiano è sotto gli occhi di tutti: la sola ``riforma
di struttura'' di questi cinquant'anni è quella neofascista varata dalla Bicamerale
golpista di D'Alema, alla quale hanno partecipato anche Bertinotti e Cossutta, ora
all'esame delle Camere.
Preclusa al
proletariato la conquista del potere per via elettorale
La complicità non impediva la concorrenza: sia DC sia PCI puntavano all'egemonia
parlamentare e governativa. Ciò alimentava reciproci sospetti e diffidenze, che avrebbero
indotto i costituenti, per questa ragione ma anche per i comprensibili timori dettati
dalla fragilità repubblicana e dalla pesante eredità fascista che era stata liquidata
solo superficialmente e in piccolissima parte, a scegliere una Costituzione di tipo
rigido. Quella del '48 infatti è una Costituzione rigida, e non flessibile come era stato
un secolo prima lo Statuto Albertino, che poteva essere modificato e persino soppresso dal
parlamento nell'esercizio della sua normale attività legislativa. E di fatti fu emendato
e piegato dal parlamento fascista alle esigenze del regime mussoliniano senza mai essere
formalmente abrogato. La rigidità le deriva dalla superiore efficacia giudirica delle
leggi costituzionali rispetto alle leggi ordinarie, giacché le prime pretendono di essere
modificate attraverso la particolare procedura fissata dall'art. 138 mentre le seconde
sono sempre soggette al controllo di costituzionalità da parte della Corte
Costituzionale, secondo quanto detta il Titolo VI, Garanzie costituzionali.
Oggi, guardando alla facilità con cui è stato aggirato e calpestato l'art. 138 dalla
legge istitutiva della Bicamerale golpista, tale rigidità può apparire di cartone, ma
allora era vista come una sorta di assicurazione per il futuro, una garanzia, appunto
com'è scritto nello stesso Titolo VI, affinché nessuno partito o governo la travalicasse
a destra o a sinistra.
Assicuratasi l'integrità dello Stato e del sistema capitalistici, la borghesia ergeva
costituzionalmente una diga contro la minaccia della conquista del potere politico da
parte del partito del proletariato attraverso le elezioni e la conquista della maggioranza
all'interno delle istituzioni. E che questa diga fosse eretta a senso unico, rivolta più
contro il socialismo che contro il fascismo lo conferma peraltro la discussione in aula
della proposta dell'art. 50 poi diventato 54 formulata dalla Commissione dei 75, il cui
secondo comma suonava così: ``Quando i poteri pubblici violino le libertà
fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è
diritto e dovere del cittadino''. Non siamo al celebre motto di Engels: ``Il
diritto alla rivoluzione è del resto il solo VERO `diritto storico';
l'unico su cui riposano tutti gli Stati moderni''(19); ma è pur sempre vero che esso
suscitò vivacissime polemiche e incontrò l'opposizione dei settori più reazionari della
Costituente che lo giudicarono una sorta di riconoscimento di un diritto quasi
rivoluzionario e segnalarono le minacce che ne sarebbero potute scaturire anche in
conseguenza del mancato rispetto di diritti come quello al lavoro da parte dello Stato.
Quantunque, come spiega Engels, il diritto alla rivoluzione avesse accompagnato la nascita
degli Stati borghesi al punto di essere diventato un loro carattere fondamentale e ``incontrollabilmente
penetrato nella coscienza universale''(20), la votazione finale della Costituente
respinse quel principio e a nulla valsero le assicurazioni del relatore della commissione
dei 75 che ``l'articolo non favorisce né autorizza rivoluzioni e rivolte''(21) e
aveva precedenti storici persino nel codice Zanardelli.
Altro che Costituzione avanzatissima e diversissima rispetto ai classici modelli di
costituzioni di età liberale, quella italiana, a cominciare dal suo primo articolo, è
maestra di un colossale inganno ai danni del proletariato. L'impianto e il modo in cui
sono formulati i suoi articoli hanno una forte carica di demagogia oltreché retorica. Che
significa la definizione di esordio: ``L'Italia è una Repubblica democratica fondata
sul lavoro''? Certo non ha nessun valore e senso classista, se è vero che la propose
durante i lavori alla Costituente il democristiano Fanfani in alternativa alla già
interclassista e rassicurante formula preferita dal PCI e dal PSI: ``L'Italia è una
Repubblica democratica di lavoratori''.
Tuttavia non può sfuggire che mentre sancisce semplicemente il principio borghese che non
esistono alcun genere di privilegi nobiliari ereditari, essa confonde e trae in inganno il
proletariato, gli lascia credere di essere il fondamento della Repubblica. Basta
aggiungere l'aggettivo sottinteso: ``fondata sul lavoro salariato'', ed ecco svelato il
trucco, la formula svanisce come vuota enunciazione ed appare nel suo nudo e crudo
significato che ben contraddistingue il capitalismo.
Essendo una repubblica democratico-borghese la sovranità formalmente appartiene al popolo
ma nella realtà esso potrà esercitarla solo ``nelle forme e nei limiti della
Costituzione'', ossia entro le forche caudine del parlamentarismo borghese e nel
quadro del sistema e dell'ordinamento capitalistico.
Solidarismo cattolico e
interclassismo revisionista
Per non lasciarci frastornare da siffatte altisonanti formulazioni, abbiamo già
spiegato che mai si deve dimenticare quando e come nacque la Costituzione, cioè non
appena si era stabilizzato il processo che aveva portato al rovesciamento del regime
mussoliniano e alla successiva cacciata della monarchia e si trattava di sanzionare il
compromesso tra le diverse componenti antifasciste, anzitutto DC e PCI, intorno alla
repubblica democratico-borghese. Cionondimeno non deve sfuggire che le contraddittorie
ispirazioni di carattere liberale, revisionista e cattolico trovarono l'accordo
nell'ambito di un disegno complessivo improntato al solidarismo cattolico.
Il solidarismo cattolico è il cemento costituzionale, il terreno di incontro tra le
istanze che spingono a privilegiare rispettivamente o l'individuo o l'aspetto sociale o la
persona umana. A ciò aveva del resto esplicitamente puntato la DC come testimoniano le
parole del costituente Dossetti: le ``possibili impostazioni sistematiche'' da
adottare devono prescindere da una ``visione soltanto individualistica'',
riconoscere la ``precedenza sostanziale della persona umana... Rispetto allo Stato e la
destinazione di questo a servizio di quella'' con la ``necessaria solidarietà di
tutte le persone''(22).
Le classi sembrano non esistere e la lotta di classe è trasfigurata e convertita nella
rassicurante conciliazione e solidarietà tra le classi. Fin dall'art. 2 l'``uomo, sia
come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità'' viene
anteposto non solo all'uomo concreto in quanto appartenente a questa o a quella classe
sociale ma persino alla figura del cittadino di ispirazione liberale. Una preminenza
evidente nella stessa struttura formale del testo costituzionale: la ``persona umana''
compare già tra i ``Principi fondamentali'' che precedono ``Diritti e doveri
dei cittadini''. E laddove l'art. 3 chiama lo Stato a ``rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono lo sviluppo della persona umana'', subito conclude con
l'invocazione al collaborazionismo interclassista togliattiano, ossia alla ``effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese''.
La sconfessione e l'infinita falsità di quest'articolo sono sotto gli occhi di tutti in
questi cinquant'anni di regno della diseguaglianza sociale, dove gli illimitati privilegi
della borghesia sono alimentati dalla negazione dei diritti più elementari per il
proletariato e le masse popolari. Solo così si misura la bontà di un principio: andando
a verificarlo nella costituzione materiale e nella vita di tutti i giorni per esaminare
come esso nella realtà sia salvaguardato nei fatti dalla legislazione applicativa. Il
resto sono parole, affermazioni, tanto altisonanti quanto vuote.
Tutte le costituzioni borghesi partono di solito dall'assunto dell'assolutezza del sistema
capitalistico e dei suoi sacri e indiscutibili capisaldi quali la proprietà privata
capitalistica, il mercato, il lavoro sa-lariato e quindi danno per scontata l'esistenza di
sfruttati e sfruttatori. Non hanno bisogno di gridarli ma di sussurrarli, presupporli,
suggerirli ora in questa ora in quella formula. Se nel passato potevano prevalere testi
che negavano e riducevano drasticamente lo stesso elenco dei principi
democratico-borghesi, col tempo hanno finito col prevalere quelle che danno pieno
riconoscimento, ostentandoli, ai principi democratici civili, politici e sociali, salvo
poi mutilarne l'esercizio in diversa misura tramite le limitazioni di vario genere della
legislazione applicativa.
La
continuità dello Stato borghese
Secondo la consuetudine del diritto borghese, nella nostra carta Costituzionale il
riconoscimento solenne dei principi democratici non viene soltanto vanificato
dall'esistenza delle classi e della diseguaglianza sociale ma persino sfrontatamente
contraddetto dalle leggi chiamate a regolarli. Come in tutte le altre costituzioni
borghesi, in essa esiste una parte di articoli vuoti e menzogneri, senza alcuna
corrispondenza con la realtà, e un'altra parte di articoli vincolanti e prescrittivi.
E'
quanto accade, per esempio, al tanto osannato art. 21 secondo il quale: ``Tutti hanno
diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione''. Eppure il proletariato e le masse popolari non possono
esercitarlo per lo stato di oppressione e di miseria e per lo stato di soggezione
materiale e mentale in cui versano mentre la proprietà privata dei più importanti mezzi
di comunicazione come la stampa e la televisione lo ha ridotto a privilegio esclusivo di
un ristrettissimo numero di gruppi monopolistici che hanno modo di orientare, manipolare e
omologare l'opinione pubblica piegandola ai propri disegni. Eppure l'opposizione di classe
è imbavagliata e repressa, com'è accaduto ripetutamente al PMLI, al suo Segretario
generale Giovanni Scuderi e al suo organo di stampa ``Il Bolscevico'', da un codice penale
elaborato da Rocco in epoca fascista tra i cui numerosi articoli più famigerati contro i
delitti di opinione annovera il 270 e 272, ideati esplicitamente per reprimere
pesantemente la lotta per il socialismo e i marxisti-leninisti che fanno ``propaganda
per la instaurazione della dittatura di una classe sociale sull'altra, o per la
soppressione violenta di una classe''.
Altrettanto si può dire a proposito dell'art. 11 che pur escludendo a priori
qualsiasi coinvolgimento e intervento imperialista dell'Italia all'estero non impedisce la
sua partecipazione alle spedizioni militari ai danni di paesi storicamente vittime del
colonialismo italiano né ha impedito l'incriminazione del compagno Scuderi e de ``Il
Bolscevico'' per averli osteggiati con l'accusa di incitamento alla diserzione.
Aveva ragione Marx a osservare: ``Qui, e in tutto il testo, si osservi come la
Costituzione francese garantisce la libertà, ma sempre con la riserva delle eccezioni
previste dalla legge o che la legge deve ancora stabilire (...) Essa è, dal principio
alla fine, un insieme di belle parole che nascondono un'intenzione quanto mai fallace.
Già nel modo stesso in cui è formulata, infrangerla è impossibile, poiché ogni sua
norma contiene in sé la propria antitesi - si annulla da sé (...) Le eterne
contraddizioni di questa parodia di Costituzione mostrano con sufficiente chiarezza che la
borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti, essa potrà ben riconoscere
le verità di un principio ma non lo metterà mai in pratica - e la vera `Costituzione'
della Francia non sta nella Carta di cui abbiamo riferito, ma nelle leggi organiche
emanate sulla base di questa''(23).
All'emanazione di nuove leggi che finiscono per mutilarla e contraddirla, si aggiunge nel
nostro Paese la sopravvivenza in ogni campo della legislazione fascista. L'assenza nella
Costituzione del '48 di un'esplicita norma analoga all'art. 81 dello Statuto albertino,
secondo cui ``è abrogata'' ``ogni legge contraria'' a esso, svela i caratteri
della sua rigidità, rivolti più a impedire in futuro la fuoriuscita di una maggioranza
elettorale di sinistra dall'ordinamento vigente che a rompere in modo netto col passato
fascista.
Sono ben note le generalizzate denunce di continuità tra fascismo e repubblica levatesi
nel Paese negli anni cinquanta e sessanta per stigmatizzare la politica reazionaria e
anticomunista della DC e dei suoi governi. Una continuità che fece scrivere polemicamente
al costituzionalista Carlo Esposito: ``nella repubblica italiana sopravvive il regno
d'Italia''(24). E così l'assenza di una attiva norma abrogativa ha consentito ai
codici e ai numerosi testi unici fascisti, in mancanza di espliciti pronunciamenti di
illegittimità da parte della Corte costituzionale (entrata in funzione solo nel 1956) di
continuare a regolare la vita politica e i rapporti civili, economici e sociali e a essere
massicciamente applicati dai tribunali.
Nella prima parte più che altrove risalta la vera novità della Costituzione italiana
rispetto ai modelli liberali. Il solidarismo cattolico si presenta come l'involucro, il
motivo ispiratore e, insieme, la chiave in grado di assemblare i quattro titoli che la
suddividono e si susseguono in quest'ordine: rapporti civili, etico-sociali, economici,
politici. Al titolo secondo dei rapporti etico-sociali fortemente voluto dalla DC segue
quello dei rapporti economici, di chiara matrice revisionista togliattiana; ma
l'equilibrio complessivo prevede che norme più sbilanciate in una direzione convivano con
altre di segno uguale e contrario. Ne è un esempio eclatante l'art. 33 che da una parte
si dilunga nel conferire, in netto contrasto col principio risorgimentale del monopolio
statale dell'istruzione pubblica, alla scuola privata (leggi confessionale) pari dignità
e funzioni di quella statale, una parità tutelata nei principi e nella riaffermazione
delle sue prerogative, e poi dall'altra avverte seccamente per controbilanciarlo in
qualche modo, ``senza oneri per lo Stato''. Una formulazione compromissoria e
ambigua che si presta a un'interpretazione e alla sua negazione in quanto è il risultato
dell'estenuante braccio di ferro tra la DC e i partiti non confessionali. La prima non
strappava semplicemente il diritto costituzionale di istituire scuole confessionali ma
assicurava loro un ruolo fondamentale e persino ``la parità'' con le scuole statali e ai
suoi alunni trattamenti scolastici ``equipollenti''. In cambio della vile rinuncia a
questi elementari principi liberaldemocratici, i secondi ottenevano soltanto, attraverso
le parole ``senza oneri per lo Stato'', che fosse escluso il finanziamento pubblico
delle scuole private. Ciononostante i governi a guida DC negli ultimi cinquant'anni hanno
trovato il modo per dirottare un fiume di finanziamenti statali alle scuole private e il
governo Prodi-D'Alema-Bertinotti si è spinto impunemente a farne scempio approvando nel
luglio scorso il disegno di legge sulla parità e finanziamento delle scuole private.
La
Costituzione economica
Il PCI di Togliatti dà mano libera alla DC di De Gasperi nell'ancorare i diritti
etico-sociali intorno alla famiglia borghese, definita dall'art. 29 ``una società
naturale fondata sul matrimonio'', appunto in contrapposizione alla famiglia naturale
e di fatto, e intorno alla tutela della vocazione alla maternità e dell'infanzia, senza
che si avverta alcun richiamo né si ponga rimedio allo stato di schiavitù domestica
della donna.
La DC contraccambia accontentando i revisionisti affinché ai rapporti economici risulti
dedicato un corpo di ben 13 articoli, così innovativi da essere salutati da alcuni di
loro come l'introduzione di elementi di socialismo nell'Italia repubblicana. In realtà
quest'innovazione aveva riguardato in diversa misura tutte le costituzioni borghesi
europee più recenti, successive a quella della Germania di Weimar, votata l'11 agosto
1919 all'indomani della feroce e sanguinosa repressione anticomunista scatenata dal
governo socialdemocratico. Fu allora che si tentò per la prima volta la conciliazione dei
principi liberalborghesi con quelli di vaga ispirazione socialista e infatti è
riconosciuta come il ``passaggio dalle Costituzioni di tipo ottocentesco ... a quelle
del Novecento, caratterizzate dall'interventismo statale al fine di attuare ideali di
solidarietà e giustizia sociale''(25).
In realtà quei 13 articoli non sono niente di più di un surrogato di socialismo per
accontentare i revisionisti togliattiani, peraltro rispondente alle esigenze economiche
capitalistiche del dopoguerra. Al loro interno ci sono affermazioni di principio
demagogiche, innocue e inconcludenti, tanto da essere riconosciute in numerose sentenze
come meramente propagandistiche e non immediatamente precettive e vincolanti, e ci sono
norme che ben si adattano a quella congiuntura economica del tutto straordinaria, dove il
mercato abbisognava di dirigismo e del massiccio intervento dello Stato in qualità di
capitalista collettivo. Su questo terreno non era difficile far incontrare la tradizionale
critica cattolica del capitalismo selvaggio e dei suoi aspetti più inaccettabili con la
politica revisionista togliattiana, per dar vita a un capitalismo di Stato in salsa
socialcristiana. Non vi è nulla di rivoluzionario né di vagamente socialista nel
disciplinare le modalità entro cui si deve svolgere la produzione capitalistica e nel
fissare le regole a cui sono soggetti capitale e lavoro. Si tratta di quella costituzione
economica oggi apertamente contestata dai più sfegatati neoliberisti non perché quelle
modalità e regole risultino conflittuali col capitalismo, prova ne è il cinquantennio
trascorso, ma piuttosto perché cambiando il contesto economico e politico sono di
intralcio invece di essere di aiuto. Il primato del mercato e le massicce e inedite
concentrazioni e centralizzazioni di capitali non ammettono lacci e lacciuoli.
Allora, dal punto di vista politico, il mondo era dominato dall'alternativa perentoria tra
sistema capitalistico e sistema socialista e, dal punto di vista economico, prevaleva in
occidente la politica keynesiana dei massicci investimenti statali e dell'aumento della
spesa pubblica per aumentare la domanda, mentre l'Italia, come del resto gli altri paesi
europei, non aveva altra strada per risollevarsi dalle distruzioni belliche e
dall'arretratezza del suo sistema economico assai poco industrializzato che affidarsi allo
Stato favorendo la nascita di monopoli statali, come aveva già iniziato Mussolini
favorendo la nascita dell'Iri. Al punto che il liberale Einaudi propose, alla Costituente,
senza successo, che i monopoli privati fossero osteggiati dalla legge e sottoposti ``al
pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta''. Non
appare strano, dunque, che l'Assemblea abbia approvato senza contrasti e quasi senza
discussione il primo e il secondo comma dell'art. 41: ``L'iniziativa economica privata
è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana''. Quel che colpisce in
questo articolo è la dichiarazione solenne e assoluta come se si trattasse di un
comandamento divino: la proprietà privata è libera. Questo è prioritario, il resto,
ossia le limitazioni stanno uno a due gradini più sotto e non possono sostanzialmente
scalfirla, non potranno mai mettere in discussione la libertà primordiale del capitale.
Ben diverso è il trattamento che la Costituzione riserva all'altro soggetto del
conflitto, il lavoro salariato, quando affronta un suo diritto sacro e inviolabile come il
diritto di sciopero. Recita l'art. 40: ``Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito
delle leggi che lo regolano''. Si guarda bene dal definirlo libero, preferisce
circoscriverne l'esercizio nell'ambito delle leggi, quelle leggi che per lungo tempo non
furono varate grazie all'opposizione sindacale e dei partiti di origine operaia e che ora
lo hanno regolamentato nei servizi pubblici e nei settori definiti essenziali finendo per
comprometterlo, mutilarlo e svuotarlo, e magari un domani potrebbero finire per limitarlo
ulteriormente.
Sul tema del diritto di sciopero il PCI avrebbe dovuto dare battaglia intransigente per
vederlo riconosciuto senza alcuna limitazione per tutti i lavoratori invece vi rinunciò,
lasciò cadere il testo originario proposto dai 75 che suonava: ``Tutti i lavoratori
hanno diritto di sciopero'' e votò a favore della vigente formulazione assicurando
per bocca di Di Vittorio: ``però non vogliamo chiuderci in una intransigenza assoluta
e cieca... ricerchiamo l'accordo con gli altri''(26).
Ciò facendo ha ridotto lo sciopero a un diritto a sovranità limitata, comprimibile sia
nelle modalità e portata sia nei soggetti che vi possono ricorrere, e ha prestato il
fianco all'introduzione di leggi che ne cancellano la carica conflittuale e le forme più
avanzate com'è accaduto coi tentativi inaugurati dal progetto Rubinacci del '51 e
proseguiti fino ai nostri giorni con i risultati che ben sappiamo. Ad analoga sovranità
limitata sono sottoposti i sindacati dall'art. 39 che attraverso la registrazione
finiscono per subire i controlli politici sulla democraticità degli statuti e ordinamenti
e i controlli amministrativi sulle modalità di rappresentanza. Insomma, per finire, ``la
proprietà è pubblica o privata'' (art. 42) ma gli operai vengono a tutti gli effetti
considerati degli schiavi salariati che hanno il diritto, in base all'art. 36, a un
salario ``sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia'' la produzione e la
riproduzione della forza-lavoro, a una giornata lavorativa di durata massima stabilita
dalla legge e al riposo settimanale e alle ferie, e possono ambire tutt'al più ``a
collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende'' (art.
46).
Carattere antifascista e
ordinamento dello Stato
Dopo aver dimostrato ampiamente che lo Stato ricostruito nel secondo dopoguerra è lo
Stato borghese e che la democrazia introdotta per la prima volta in Italia non è di
``tipo nuovo'', non ci rimane che rispondere a un'ultima domanda: la seconda parte della
Costituzione del '48 disegna una repubblica democratico-borghese di tipo avanzato?
C'è chi ne ha riconosciuto il peculiare carattere avanzato nel primato attribuito al
parlamento e nel delicato, e per certi versi inedito, equilibrio dei poteri da essa
garantito. In realtà l'unico aspetto avanzato di quella Costituzione sta
nell'antifascismo. Se l'antifascismo fu il massimo comune denominatore dei costituenti,
per forza di cose la carta si fonda sull'antifascismo, che traspare e la attraversa come
motivo ricorrente e in polemica dichiarata verso la dittatura mussoliniana. Verso la
quale, innumerevoli sono le norme implicitamente conflittuali. E tuttavia la sola norma
esplicitamente antifascista, la XII disposizione transitoria e finale, denuncia una
concezione ristretta che nel vietare la ricostruzione di quel ``disciolto partito
fascista'', guarda al passato e a quell'esperienza storicamente conclusa piuttosto che
a impedire la rinascita del fascismo sotto qualsiasi forma.
Per il resto il nuovo assetto istituzionale è tutt'altro che avanzato. E alla domanda
possiamo rispondere anzitutto che la repubblica parlamentare fu una scelta obbligata
dall'esito della lotta antifascista e dalla necessità di rompere, nelle forme che
apparissero le più nette e inconciliabili, col regime mussoliniano e la sua estrema
centralizzazione e concentrazione del potere affinché il nuovo regime ne guadagnasse in
credibilità e autorità tra la popolazione; e in secondo luogo, che il garantismo è
stato dettato da un'unica preoccupazione: impedire con ogni mezzo il sovvertimento
dall'interno del quadro costituzionale borghese. Come hanno concordemente notato tanti
costituzionalisti e storici: ``Il motivo determinante dell'intera attività della
Costituente'' è dato dalla ``necessità di garantire in primo luogo la
democraticità del sistema da ogni pericolo di sovvertirlo dall'interno''(27). Insomma
si trattava di impedire al PCI di prendere il potere, ove avesse conquistato nelle
elezioni la maggioranza parlamentare, evitando che potesse mettere in discussione la
scelta di campo operata con la ``svolta'' di Salerno.
In questa chiave vanno interpretati l'istituzione del Senato, quale garanzia di
conservazione e di freno verso repentini e indesiderati capovolgimenti delle maggioranze
parlamentari, l'equilibrio fra gli organi costituzionali senza che nessuno abbia modo di
prevalere ed esautorare gli altri, le competenze e i poteri ampi e numerosi attribuiti al
presidente della repubblica e infine la rigidità del testo costituzionale, di cui abbiamo
già detto.
Le alchimie della divisione dei poteri e il complesso assetto di pesi e contrappesi
avevano ragione di esistere allora che si fronteggiavano partiti con storie e patrimoni
antitetici e conflittuali e per di più occorreva dare un segno visibile e
incontrovertibile della rottura netta col regime fascista e della svolta e novità
rispetto al passato attraverso un impianto costituzionale conforme al modello classico e
rimodernato di repubblica democratico-borghese. Ma oggi, a cinquant'anni di distanza, che
i partiti come il PDS e il PRC sono pienamente omologati al capitalismo e allo Stato
borghese, l'ordinamento disegnato dalla Costituzione del '48 diventa un intralcio
inammissibile al decisionismo e alla governabilità e viene gettato a mare per essere
sostituito da un nuovo assetto istituzionale dove siano garantiti col presidenzialismo la
massima concentrazione dei poteri, decisioni rapide ed esecutive imposte senza essere
sottoposte a estenuanti trattative e siano necessariamente frutto di laboriosi compromessi
tra i diversi partiti, settori e bande della borghesia.
Il bicameralismo introdotto nel '48 è stato uno strumento reazionario e antidemocratico,
analogamente a come era concepito dallo Statuto Albertino che bilanciava l'esistenza della
Camera elettiva con un Senato di nomina regia. Diversamente da quello non rappresentò il
compromesso tra aristocratici e borghesi, ossia tra vecchie e nuove classi dominanti, e
tuttavia nacque dalla stessa preoccupazione politica: frenare e impedire improvvise,
eccessive e indesiderate iniziative parlamentari. E nacque come un'ulteriore garanzia di
conservazione per la classe dominante borghese, un prezzo a imprevisti salti generazionali
e capovolgimenti politici che potessero stravolgere i preesistenti rapporti di forza tra i
partiti in campo. Fu concepito per attenuare e controllare l'operato della Camera in
virtù di un diverso sistema elettorale, tendenzialmente e sia pure solo in linea di
principio maggioritario e non proporzionalistico, e di un elettorato attivo e passivo più
anziano e in piccola parte di nomina presidenziale.
Se dal punto di vista del marxismo-leninismo-pensiero di Mao la divisione e indipendenza
dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario è una fandonia bell'e buona inventata e
propugnata storicamente dalla borghesia per contestare, disgregare e sostituire il potere
assoluto della monarchia e non comporta l'esistenza di tre poteri autonomi e al di sopra
delle classi ma semplicemente una forma di organizzazione statale che esclude il
predominio assoluto di un potere sull'altro in quanto tutti sono dipendenti dallo Stato
borghese nel suo complesso, dal punto di vista costituzionale l'equilibrio fra gli organi
costituzionali introdotto nel '48 non ha niente di innovativo e di rivoluzionario ma
risponde unicamente alla preoccupazione dei costituenti di evitare come abbiamo già
chiarito in precedenza, che un partito o coalizione parlamentare maggioritari potessero
accentrare un controllo diretto su ogn'altro potere. Insomma la borghesia si assicurava la
garanzia che mai, neppure nella per lei più malaugurata delle ipotesi, la conquista della
maggioranza parlamentare da parte di un partito a lei ostile potesse in qualche modo
scalzarla dal potere giacché lo avrebbe impedito la sua macchina statale, con il suo
consolidato e sperimentato sistema di leggi, il fidato e sicuro potere poliziesco e
giudiziario e la burocrazia nel suo complesso. Quando si richiama l'art. 101 (``I
giudici sono soggetti soltanto alla legge'') per dimostrare che la Costituzione tutela
ed esalta il principio di indipendenza del potere giudiziario nei confronti del
parlamento, del governo e di qualsiasi altro potere, si nasconde che l'autonomia dei
giudici non va mai al di là né delle leggi borghesi che essi sono obbligati ad applicare
né delle condizioni materiali di vita e formazione ideologica e giuridica borghesi in cui
essi vivono. Insomma la loro fedeltà assoluta alla borghesia non è in discussione
perchè essi stessi sono dei borghesi nella vita e nelle idee. è semmai in discussione
quali meccanismi debbano regolare l'autonomia dell'ordine giudiziario nei confronti delle
diverse fazioni e cosche borghesi, come regolare la sua indipendenza formale affinché sia
salvaguardata la sua dipendenza sostanziale.
Quantunque nella discussione sul tipo di repubblica fosse prevalsa allora la tesi della
repubblica parlamentare rispetto a quella della repubblica presidenziale, appare evidente
che il modello parlamentare realizzato è stato caricato di fortissimi connotati
presidenziali ove si considerino gli eccessivi e anomali poteri attribuiti al governo e
soprattutto al presidente della Repubblica. Il quale, è bene ricordare, ha il potere di
sciogliere le Camere anche senza proposta governativa, il potere di esternare su ogni
materia indipendentemente dalla controfirma ministeriale, il diritto di veto sulle leggi
con la restituzione al parlamento con un messaggio, il potere di nomina libera di cinque
giudici sui quindici della Corte Costituzionale, il potere di nomina dei senatori a vita e
infine ha la presidenza di due organi cruciali come il Consiglio superiore della
magistratura e il Consiglio supremo di difesa. ``Sono tutti poteri - ha osservato
Paolo Barile, costituzionalista di area pidiessina - che caratterizzano il nostro
presidente della Repubblica, quindi la nostra Repubblica, in senso presidenziale''(28).
Per lungo tempo intorno alla Costituzione borghese si è registrato il consenso unanime di
un ampio schieramento parlamentare, il cosiddetto arco costituzionale appunto, che
escludeva soltanto i seguaci di Mussolini rappresentati dal MSI. Alla Costituzione si
richiamava, ciascuno a modo suo, sia la destra DC e i partiti più reazionari e
anticomunisti sia i dirigenti revisionisti di destra e di ``sinistra'' trotzkisti del PCI
e quelle correnti della borghesia favorevoli alla loro integrazione e ascesa governativa.
E ciascuno poteva rivendicare la sua fedeltà al dettato costituzionale enfatizzando
questo piuttosto che quell'altro articolo. I contrasti semmai vertevano
sull'interpretazione da dare a norme formulate in modo volutamente contraddittorio,
ambiguo, retorico, tanto da prestarsi a dimostrare tutto e il contrario di tutto. Non fu
certo la Costituzione ma la lotta di classe e la mobilitazione popolare a impedire alla DC
dell'anticomunista De Gasperi di assicurarsi nel '53, dopo che col colpo di Stato del 13
maggio 1947 aveva estromesso i partiti di origine operaia dal governo, il potere assoluto
con la famigerata ``legge truffa''; a impedire di riportare al governo i fascisti come
voleva Tambroni nel 1960.
Assicuratasi la continuità dello Stato borghese e una volta conquistata l'egemonia
governativa, alla DC non rimaneva che evitare ulteriori sommovimenti e assicurare la
massima gradualità alla trasformazione dello Stato fascista in Stato repubblicano. Ecco
perché congelava la Costituzione, ne allungava i tempi di attuazione e ne diluiva i
contenuti mentre i revisionisti togliattiani si esaurivano nel gridare al tradimento e
nell'invocarne l'applicazione integrale e rigorosa.
La
nuova Costituzione neofascista
Questa Costituzione avrebbe dovuto avviare, a detta di Togliatti, ``alcune riforme
fondamentali che...sono improntate di socialismo''(29) e invece a cinquant'anni dalla
sua entrata in vigore è stata prima sostanzialmente svuotata, poi calpestata, infine
ripudiata e stracciata anche dal punto di vista formale dalla controriforma costituzionale
che ridà vita al mostro del fascismo in forme nuove, attraverso l'instaurazione del
regime neofascista, presidenzialista e federalista. Gli apologeti di ieri si sono
trasformati nei suoi più accaniti affossatori e liquidatori. Dopo averla mitizzata in
funzione antirivoluzionaria, averla definita come la più avanzata in occidente e averne
invocata l'attuazione piena e conseguente, seminando a piene mani mortali illusioni
costituzionali, elettorali e parlamentari nella classe operaia, gli antichi revisionisti,
oggi ribattezzatisi liberali e socialisti, capeggiano con D'Alema la Bicamerale golpista,
istituita in flagrante violazione dell'articolo 138 e delle procedure di revisione
costituzionale, che cancella, con la riscrittura di 84 dei suoi 139 articoli, lo Stato e
la Costituzione della prima Repubblica per dar vita alla seconda repubblica neofascista.
Colpiscono a morte la Costituzione del '48 sparandogli al cuore, ossia sovvertendone la
seconda parte che non si limita a declamare principi astratti ma riguarda l'essenziale,
l'organizzazione e l'ordinamento dello Stato, i suoi istituti principali, i loro poteri e
le loro funzioni. Si sono assicurati, anche grazie alla caduta della pregiudiziale
antifascista, l'unanimismo parlamentare sulla prima parte della Costituzione che comprende
anche i fascisti storici di AN di Fini; ora, ha avvertito il presidente della Bicamerale
D'Alema il 10 dicembre scorso a Palazzo Giustiniani: ``Noi stiamo rinnovando gli
strumenti, ma i valori fondamentali restano quelli stabiliti nella Costituzione approvata
50 anni fa''.
Dopo tanti tentativi parlamentari andati falliti, dopo tanti progetti neofascisti
rimasti sulla carta, è significativo che sia proprio il segretario del PDS a raccogliere
dalle mani del capo della P2 Gelli e di Craxi - poiché è di costoro il progetto della
repubblica presidenziale in via di realizzazione - questo nero testimone per tagliare per
primo il traguardo, in ciò benedetto e fortemente sostenuto dal governo dell'Ulivo e in
prima persona dal presidente del Consiglio Romano Prodi, nonché dal capo dello Stato
Oscar Luigi Scalfaro. Come e peggio di Turati che favorì invece di impedire l'ascesa di
Mussolini, Massimo D'Alema, spalleggiato da Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e non
ostacolato seriamente dai cacasotto revisionisti e trotzkisti Fausto Bertinotti e Armando
Cossutta, è il primo responsabile dell'instaurazione del fascismo sotto nuove forme.
Con la nuova Costituzione la repubblica presidenziale prende il posto della repubblica
parlamentare attraverso il trasferimento dei poteri, delle competenze e dell'autorità sin
qui posseduti dal parlamento e dai partiti parlamentari al presidente della repubblica,
consacrato dall'elezione diretta e dall'investitura plebiscitaria come un nuovo monarca e
duce al tempo stesso: ``Egli è l'eletto della nazione - metteva a nudo Marx - (...)
L'Assemblea nazionale eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisico, il
presidente eletto è unito alla nazione da un rapporto personale. è ben vero che
l'Assemblea nazionale esprime nei suoi rappresentanti i molteplici aspetti dello spirito
nazionale; ma nel presidente questo spirito si incarna. Egli possiede rispetto
all'Assemblea una specie di diritto divino; egli è per grazia del popolo''(30).
In nome della governabilità neofascista si fa scempio della rappresentatività
democratico-borghese e così la nuova ``legge truffa'' maggioritaria soppianta
gradualmente ogni residuo di legge elettorale proporzionalistica e finisce per rendere
indistinti e per omologare i partiti e le coalizioni fra loro.
La magistratura vede assottigliarsi i margini della sua indipendenza e autonomia
istituzionale e viene irreggimentata e assoggettata definitivamente al potere esecutivo.
La sovranità e l'unità nazionale risultano menomate e ridimensionate dall'attacco
congiunto della costituzionalizzazione del potere sovranazionale dell'Unione europea
imperialista e del trasferimento di poteri e competenze ai comuni, province e regioni che
prefigura una forma di Stato di tipo federalista ai limiti del separatismo e del
secessionismo.
Una tale sovversione dell'ordinamento e dell'organizzazione dello Stato non può non
ripercuotersi direttamente e indirettamente sui principi esposti nella prima parte della
Costituzione, che solo formalmente e per ora non risulta cambiata mentre nella sostanza
finisce per essere stravolta. Si pensi, solo per fare un esempio, al principio di
``sussidarietà'' che cancella l'obbligo per lo Stato di assicurare a tutti l'assistenza
sociale, lo spoglia delle funzioni che gli sono proprie nell'amministrazione, nei servizi,
nell'assistenza, nella previdenza, nella sanità, dando il primato alle imprese private e
al mercato.
Da questa situazione - come abbiamo denunciato nel nostro Documento del 23 gennaio 1997,
all'indomani della costituzione della Bicamerale golpista, - non si esce difendendo le
vecchie istituzioni e la vecchia Costituzione, ormai divenuta carta straccia, bensì
combattendo la seconda repubblica, il capitalismo e il governo anticomunista del DC Prodi
che li sorregge, e sviluppando la lotta di classe per dischiudere le porte al socialismo.
Noi siamo per l'Italia unita, rossa e socialista. Solo nel socialismo, infatti, la classe
operaia potrà esercitare il potere politico e realizzare un sistema economico, uno Stato
e una Costituzione che siano in grado di liberare veramente se stessa e le masse dallo
sfruttamento, dall'oppressione, dalla disoccupazione, dalla miseria, dalla disparità
territoriale e di sesso, dal razzismo e dal fascismo che derivano dal capitalismo.
Coi maestri vinceremo!
Firenze, 15 Dicembre 1997
L'Ufficio politico del
PMLI
NOTE
1) II Congresso nazionale del Partito marxista-leninista italiano, Documenti, Firenze,
6-7-8 novembre 1982, p. 114, Firenze, 1983.
2) Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, sta in
Marx-Engels, Opere complete, vol. X, p. 130, Editori Riuniti, Roma, 1977.
3) Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, 1851-1852, sta in
Marx-Engels, Opere complete, op. cit., vol XI, p. 115.
4) Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, op. cit., p. 131.
5) Mao Zedong, Sulla bozza di Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, 14
giugno 1954, sta in Mao Zedong, Rivoluzione e Costruzione, p. 167, Einaudi, Torino, 1979.
6) Stalin, Sul progetto di Costituzione dell'Urss, 25 novembre 1936, sta in Stalin,
Questioni del leninismo, p. 569, Edizioni in lingue estere di Mosca.
7) Stalin, Ibidem, p. 559.
8) Stalin, Ibidem, p. 569-570.
9) Stalin, Ibidem, p. 570.
10) Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, marzo 1947, Editori Riuniti,
Roma, 1973, p.36.
11) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 36.
12) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 36.
13) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 37.
14) Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, 10 aprile 1917, sta
in Lenin, Opere complete, vol. 24, p. 61, Editori Riuniti, Roma, 1966.
15) Palmiro Togliatti, Rapporto alla Sessione plenaria del CC del PCI, marzo 1956.
16) Umberto Terracini, Come nacque la Costituzione (Intervista a cura di Pasquale
Balsamo), Editori Riuniti, Roma, 1977.
17) Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, op. cit., p. 9.
18) Palmiro Togliatti, Ibidem, p. 7.
19) Friedrich Engels, Introduzione a ``Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850''
(ediz. 1895) di K. Marx, sta in Marx-Engels, Opere complete, cit., vol. X, p. 656.
20) Friedrich Engels, Ibidem, p. 656.
21) A cura di Falzone, Palermo, Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana, pp.
172-173, Mondadori, Vicenza, 1976.
22) Giuseppe Armani, La Costituzione italiana, p. 79, Garzanti, Milano, 1988.
23) Karl Marx, La Costituzione della Repubblica francese approvata il 4 novembre 1848,
14 giugno 1851, sta in Marx-Engels, Opere complete, cit., vol. X, pp. 583-592.
24) Giuseppe Armani, op. cit., p. 131.
25) C. Mortati, La Costituzione di Weimar, p. 18 e segg., Firenze, 1946.
26) A cura di Falzone..., op. cit., p. 139.
27) Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1849-1948, p. 429, Editori
Laterza, 1974.
28) Paolo Barile, Lineamenti generali, sta in 1945-1975 Italia. Fascismo
antifascismo. Resistenza rinnovamenti, p. 364, Feltrinelli, Milano, 1975.
29) Palmiro Togliatti, Rapporto alla Sessione plenaria del CC del PCI, marzo 1956.
30) Karl Marx, Il diciotto brumaio..., op. cit., p. 121.
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