In appello il senatore a vita era stato condannato a 24 anni
Scandaloso: Andreotti assolto per il delitto di Pecorelli
Scagionato anche il boss Badalamenti
Il 30 ottobre la Cassazione a sezioni unite, primo presidente Nicola Marvulli, ha annullato la condanna a 24 anni inflitta al senatore a vita Giulio Andreotti dalla Corte d'Assise d'appello di Perugia il 17 novembre 2002 e con una scandalosa sentenza lo ha assolto senza rinvio dall'accusa di essere il mandante dell'omicidio di Mino Pecorelli, il direttore del settimanale "Op'' assassinato il 20 marzo 1979.
Accogliendo la richiesta di assoluzione formulata dal procuratore generale della Suprema Corte nelle sue conclusioni del giorno precedente, Marvulli e gli altri otto consiglieri hanno assolto con formula piena anche il boss Tano Badalamenti ribaltando di 180 gradi la sentenza di appello che l'anno scorso li aveva condannati entrambi a 24 anni come mandanti del delitto. La Cassazione ha altresì respinto il ricorso della procura di Perugia contro le assoluzioni dell'ex magistrato e senatore DC Claudio Vitalone e dell'ex cassiere della mafia Pippo Calò e ha mandato assolti anche il neofascista legato alla banda della Magliana Massimo Carminati e il boss Michelangelo La Barbera accusati di essere gli esecutori materiali del delitto.
Per capire meglio su che basi le sezioni unite della Cassazione hanno cancellato con un colpo di spugna dieci anni di indagini e di processi basati non su "anomalie, illogicità e irregolarità procedurali'' come sostengono Andreotti e i suoi avvocati Franco Coppi e Giulia Buongiorno, ma su fatti "oggettivamente riscontrati oltre ogni ragionevole dubbio'' dalla procura di Perugia, bisogna attendere le motivazioni della sentenza. I giudici di Perugia e di Palermo, dove Andreotti è stato assolto in appello solo grazie alla prescrizione del reato di associazione mafiosa per i fatti commessi fino al 1980, e la storia politica e personale del "Belzebù'' della politica italiana, il cui nome compare in tutte le più inquietanti inchieste della storia giudiziaria italiana, dimostrano che, attraverso il suoi "proconsoli'' in Sicilia, a cominciare da Ciancimino e Salvo Lima, quest'ultimo assassinato dalla mafia proprio per mandare un segnale a Andreotti, e poi i cugini Nino e Ignazio Salvo, la corrente andreottiana ha effettivamente avuto rapporti stretti e continuativi con la mafia.
Ma per la Cassazione tutto ciò non ha alcuna importanza. Per i giudici della Suprema Corte Andreotti "è innocente'', "non è stato il mandante'' dell'omicidio Pecorelli e perciò va "assolto per non aver commesso il fatto'' nonostante che in più di un'occasione il sette volte presidente del Consiglio ha spudoratamente mentito ai giudici di Palermo e di Perugia.
In particolare, secondo quanto sostenuto dai giudici di Perugia, Pecorelli è stato ucciso perché era in possesso già dal 1978 della parte inedita del memoriale Moro e inoltre avrebbe potuto pubblicare sul suo settimanale "Op'' un compromettente articolo già in fase di stampa intitolato "gli assegni del presidente'', dove veniva descritto il torbido scandalo Italcasse e venivano rese pubbliche le rivelazioni fatte da Moro ai suoi carcerieri brigatisti "sugli ignobili retroscena delle nomine ai vertici bancari'' e sui "legami finanziari con il grande debitore Italcasse Nino Rovelli''.
Pecorelli dunque è stato assassinato "nell'interesse'' di Andreotti che insieme a Claudio Vitalone e tramite i cugini Salvo avrebbero fatto presente ai boss Pippo Calò, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti l'esigenza di eliminare il direttore di "Op''.
Le prime indagini sull'omicidio Pecorelli le conduce la procura di Roma che apre un'inchiesta contro ignoti in cui vengono coinvolti il capo della P2 Licio Gelli, il tenente colonnello Antonio Viezzer anch'egli iscritto alla P2, il boss della banda della Magliana Massimo Carminati e i neofascisti Cristiano e Valerio Fioravanti.
Il 15 novembre del 1991 il giudice istruttore Francesco Monastero proscioglie tutti gli indagati per non avere commesso il fatto.
Un anno dopo, novembre 1992, Tommaso Buscetta riferisce ai pm di Palermo di avere appreso da Stefano Bontade, nel 1980, e da Gaetano Badalamenti, nel 1982, che l'omicidio Pecorelli era stato eseguito da loro due su richiesta dei cugini Salvo.
Nell'aprile del 1993, in Florida, sempre davanti ai giudici di Palermo, Buscetta conferma di aver saputo da Gaetano Badalamenti che i delitti "Moro e Pecorelli erano cose collegate fra loro'' e che il mandante era Andreotti. Il verbale del pentito viene inviato dai pm siciliani a quelli di Roma che il 14 aprile iscrivono Andreotti nel registro delle notizie di reato.
Il 29 luglio 1993 il Senato concede l'autorizzazione a procedere per Andreotti. Nel registro degli indagati finiscono anche Gaetano Badalamenti e Pippo Calò.
Nell'agosto '93 le dichiarazioni dei pentiti di alcuni esponenti della banda della Magliana, in particolare quelle di Vittorio Carnovale, coinvolgono anche l'allora pm romano Claudio Vitalone e l'inchiesta viene trasferita per competenza alla procura di Perugia che insieme a Vitalone iscrive nel registro degli indagati anche il boss Michelangelo La Barbera e il neofascista Carminati.
Il 20 luglio 1995 l'allora procuratore capo Nicola Restivo e i sostituti Fausto Cardella e Alessandro Cannevale depositano la richiesta di rinvio a giudizio, con l'accusa di omicidio, per Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera e Carminati.
Quest'ultimo chiede e ottiene di essere processato con il rito immediato, saltando così l'udienza preliminare.
Il 5 novembre '95 il gip Sergio Materia rinvia a giudizio gli altri cinque imputati.
L'11 aprile del 1996 comincia formalmente il processo.
Il 30 aprile '99 i pm chiedono l'ergastolo per tutti gli imputati.
Il 24 settembre '99 tutti gli imputati vengono "assolti per non avere commesso il fatto''. Il primo agosto del 2000 vengono depositate le motivazioni di quella sentenza.
Il 2 dicembre la procura di Perugia presenta appello contro tutte la assoluzioni.
Il 13 maggio 2002 comincia il processo d'appello.
Il 19 settembre i pm Alessandro Cannevale e Sergio Matteini Chiari chiedono la condanna di tutti gli imputati a 24 anni di reclusione.
Il 17 novembre la Corte emette la sua sentenza. I giudici riformano parzialmente la decisione di primo grado condannando a 24 anni di reclusione Andreotti e Badalamenti. Ma confermano le assoluzioni di Vitalone, Calò, La Barbera e Carminati.
Il 26 marzo i difensori di Andreotti presentano ricorso in Cassazione contro la condanna e lo stesso fanno il giorno dopo i legali di Badalamenti. Il primo aprile è invece la procura generale di Perugia a rivolgersi ai supremi giudici contro l'assoluzione di Vitalone, Calò, La Barbera e Carminati.
Il 29 ottobre comincia l'udienza davanti alle Sezioni unite della Cassazione e il pg chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per Andreotti e Badalamenti, cioè la loro assoluzione definitiva, nonché il rigetto del ricorso della procura generale di Perugia contro il proscioglimento degli altri quattro imputati.
Il 30 ottobre la Cassazione emette la sua sentenza di assoluzione e Andreotti soddisfatto di averla fatta franca ancora una volta commenta beffardo: "sapevo che finiva così''.