La Banca europea stampa una valanga di euro per aiutare il capitalismo a uscire dalla crisi

 
Secondo l'ultima rilevazione, i prezzi al consumo nella zona euro sono scesi a gennaio dello 0,6%, una diminuzione che segue quella dello 0,2% registrata nel dicembre scorso; persino la locomotiva europea, la Germania, ha registrato un dato ancora più negativo con i prezzi al consumo calati dell’1,3% sul mese precedente. Con un livello di inflazione al momento negativa ma stimata allo 0,3% per il 2015 si prospetta per l'Europa il pericolo concreto della deflazione, un indice della profonda crisi economica che continua a stringere in una morsa il Vecchio continente. Questi dati hanno fornito acqua al mulino delle ragioni di quella parte della borghesia europea che spingeva per tentare altre soluzioni che non fossero solo quelle di una politica economica ancorata alle rigide regole di bilancio che hanno dettato legge finora. Se ne è fatta interprete la Banca centrale europea (Bce) che nel direttivo del 22 gennaio ha deciso di lanciare un piano da 60 miliardi di euro al mese di acquisti di titoli pubblici, inclusi i titoli di Stato con scadenze fra 2 e 20 anni. Il piano partirà il prossimo marzo e proseguirà “almeno fino a settembre 2016” e comunque fino a quando l'inflazione si riporterà a un livello di circa il 2%.
Il piano annunciato dal presidente della Banca centrale europea, l'italiano Mario Draghi, nella conferenza stampa al termine del Consiglio direttivo prevede complessivamente acquisti per 1.140 miliardi nell’arco di 19 mesi. Una valanga di euro che la Bce stamperà per aiutare il capitalismo europeo a uscire dalla crisi. Si tratta di un tentativo certamente superiore a quello del ridicolo Piano Juncker da 21 miliardi di euro diluiti in tre anni messo in cantiere dalla nuova Commissione europea. Ma non è detto che funzioni.
Gli acquisti dei titoli di Stato saranno effettuati sulla base delle quote che ogni banca centrale nazionale detiene nel capitale della Bce. Vale a dire che il 17,9% saranno Bund tedeschi, il 14,1% Oat francesi, il 12,3% Btp italiani, l’8,8% Bonos spagnoli e così via. Detto in altre parole i maggiori utilizzatori dello strumento finanziario della Bce sarà la Germania, che non ne avrebbe bisogno, o quantomeno molto meno bisogno di molti altri paesi in difficoltà. La Bce potrà acquistare per un importo massimo che non superi il 33% del debito di ciascun Paese. Inoltre per ogni emissione non potrà acquistare più del 25% dei titoli sul mercato.
La Bce comunque non si accollerà completamente il rischio dell'operazione finanziaria ma solo del 20% della cifra impegnata. La “solidarietà” concessa dai cosiddetti “falchi”, guidati dal capo della Bundesbank Jens Weidmann, non è andata oltre. Saranno le banche centrali dei Paesi interessati a garantire la restante quota dell’80%. Una linea di compromesso definita nel direttivo della Bce per avere l'assenso all'operazione da una parte dei 19 governatori delle banche nazionali e dei sei membri del Comitato esecutivo che erano contrari, dal tedesco Weidmann, all’olandese Klaas Knot ai rappresentanti di Lettonia, Lituania, Lussemburgo e Slovacchia.
Nella conferenza stampa di presentazione del piano, Draghi ha sorvolato sulle contraddizioni interne alla Bce, definendole secondarie rispetto la possibile efficacia del progetto, e ha affermato che il consiglio ha deciso “a larga maggioranza” di lanciare “adesso” il cosiddetto “quantitative easing”. Ha tenuto a precisare che “sarebbe un grande errore pensare che questo piano sia un incentivo all’espansione dei bilanci degli Stati (cioè a continuare a aumentare il proprio debito, ndr): non è assolutamente un finanziamento del debito ed anzi è stato costruito perché si evitasse questo”. Fra gli obiettivi del piano rimane un punto fermo, ha precisato Draghi, “che le riforme strutturali siano attuate dai singoli Stati in modo credibile ed efficace”.
In gergo si chiama quantitative easing (allentamento quantitativo, ndr) quell'azione che compie una banca centrale andando sul mercato per comprare titoli di cui sono pieni i bilanci delle banche commerciali e per pagarli stampa moneta che immette nel sistema. La prima conseguenza dovrebbe essere quella che il prezzo dei titoli sale perché c’è più domanda e il loro rendimento, cioè il tasso di interesse che ogni Stato paga per finanziare il proprio debito, scende. E di conseguenza scendono gli interessi sul debito, la zavorra che affossa i bilanci di Paesi come l’Italia.
Fra le conseguenze attese dell'operazione vi sarebbe una diminuzione dei tassi di interesse su mutui e prestiti fatti dalle banche; con il tasso principale di rifinanziamento già al minimo storico dello 0,05% chiesto dalla Bce quando dà i soldi alle banche non ci sarebbe più spazio per una ulteriore riduzione. Altro effetto è il deprezzamento dell'euro rispetto alle altre monete, soprattutto al dollaro, che dovrebbe favorire le esportazioni. Infine le banche, alleggerite dai titoli di Stato, avrebbero più liquidità per fare prestiti o investimenti a meno che non siano bloccate dal rispetto delle norme bancarie comunitarie definite negli accordi di Basilea e dai requisiti della stessa Bce.
Il termine quantitative easing è salito agli onori della cronaca dei non addetti nel 2009, quando la Federal Reserve americana varò il primo programma di acquisto di titoli del Tesoro e di titoli immobiliari americani dopo il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers nel settembre del 2008. L'evento che segnò l'avvio della devastante crisi finanziaria e in seguito economica soprattutto dei paesi capitalisti occidentali che continua ancora. Il programma applicato negli Usa di Obama sembra cominci ora a dare risultati anche se a beneficio delle grandi aziende capitaliste e della finanza mentre il reddito medio delle masse popolari resta ancora basso. Non ha invece funzionato in Giappone che nonostante la valanga di yen stampati e immessi nel mercato non ha minimamente intaccato l'andamento della crisi economica.
 

4 febbraio 2015