Visto il disaccordo degli Usa e dell'Onu
Il crociato imperialista Gentiloni tiene sullo sfondo la possibilità dell'intervento militare dell'Italia in Libia
Il rinnegato guerrafondaio Napolitano cavalca l'interventismo e rivendica la giustezza dell'intervento dell'Italia in Libia nel 2011
Il nuovo Berlusconi punta a dare all'Italia un “ruolo guida” nell'iniziativa politica dell'Onu in Libia

Dopo la frenata imposta dagli Usa e dall'Onu alle smanie interventiste dell'Italia in Libia, con il ministro degli Esteri Gentiloni e la ministra della Difesa Pinotti che erano arrivati a dare per imminente l'invio sul terreno di un contingente militare di migliaia di uomini sotto l'egida dell'Onu e comando italiano, il governo Renzi ha dovuto operare un aggiustamento tattico parlando di intervento per adesso solo diplomatico e politico, ma senza rinunciare comunque alla possibilità di un intervento militare, tenuto sullo sfondo come una decisione sempre pronta in caso di “minaccia” alla sicurezza del Paese da parte dello Stato islamico. E' questa in sintesi la posizione che si è andata delineando questi giorni e che Gentiloni – definito dallo Stato islamico (Is) “il ministro degli Esteri dell'Italia crociata” per le sue bellicose dichiarazioni – è andato a spiegare in parlamento rispondendo alle interpellanze e interrogazioni presentate dai gruppi di opposizione.
La correzione di rotta era stata imposta dalle reazioni fredde degli altri governi europei ad un'altra campagna militare piena di incognite in Libia mentre è in pieno svolgimento la crisi in Ucraina, ma soprattutto dall'ostilità degli Usa e della Francia, e di conseguenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu da essi influenzato, che sono tra i paesi imperialisti più ingeriti nella crisi libica, sia a livello economico che militare. Essi preferiscono agire militarmente in Libia tramite il loro braccio armato egiziano, che foraggiano e armano come il loro gendarme in quella regione, e politicamente tramite il loro governo “amico” insediato a Tobruk, e non vedono di buon occhio un intervento militare di un altro concorrente quale sarebbe l'imperialismo italiano, che erano riusciti a scalzare dal posto di potenza regionale più influente in Libia dopo l'intervento del 2011 e l'uccisione di Gheddafi.
Le pressioni di Usa e Francia avevano portato infatti a un documento congiunto dei paesi imperialisti occidentali della sedicente “comunità internazionale” coinvolti in prima fila nella crisi libica (Usa, Francia, Italia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), in cui nel condannare “fermamente tutti gli atti di terrorismo in Libia”, si poneva tuttavia l'accento sulla “impellente necessità di una soluzione politica del conflitto”, affermando che “la comunità internazionale è pronta a sostenere pienamente un governo di unità nazionale per affrontare le sfide attuali della Libia”.

Diplomazia e preparativi di guerra
Da qui la frenata di Renzi, dettata dall'obbligo di coprire le ambizioni italiane sotto l'ombrello politico e diplomatico dell'Onu, e di conseguenza degli stessi Gentiloni e Pinotti, che hanno dovuto innestare precipitosamente la retromarcia virando dal piano militare a quello diplomatico. Ma non senza qualche ritorno di fiamma, come dimostra l'intervista della Pinotti a “Repubblica tv”, che pur sostenendo l'iniziativa di Francia ed Egitto per convocare il Consiglio di sicurezza dell'Onu, e ammettendo che “senza un quadro di legittimità internazionale, intervenire in Libia non è possibile”, non rinunciava a sgomitare per rivendicare più spazio all'Italia, proponendo di sostituire l'attuale mediatore Onu tra le fazioni libiche, Bernardino Leòn, con Romano Prodi. Salvo poche ore dopo, bacchettata probabilmente da Renzi, affrettarsi a smentire tutto su Twitter dichiarando che “Prodi figura importante ma governo si muove con efficacia e autorevolezza sul piano internazionale”.
Questa stessa linea ambigua, della partecipazione all'iniziativa diplomatica dell'Onu ma senza rinunciare ai preparativi di un intervento militare qualora la “sicurezza” dell'Italia lo richiedesse, è stata esposta da Gentiloni il 18 febbraio in Parlamento, quando ha assicurato che “l'Italia ha deciso, sin dal primo momento, di sostenere senza sosta lo sforzo di mediazione delle Nazioni Unite condotto dall'inviato Bernardino Leòn, tenendo ben presente che l'unica soluzione alla crisi nel Paese è quella politica”. Ma avvertendo anche che “il tempo a disposizione non è infinito e rischia anzi di scadere presto, pregiudicando i fragili risultati raggiunti”.
Come dire che l'opzione militare non è affatto esclusa e resta anzi sempre pronta sullo sfondo. Tanto più che secondo il ministro l'Italia la sta già esercitando contro lo Stato islamico in altre zone di guerra, senza che nessuno, nemmeno dai banchi dell'opposizione parlamentare, ci trovi nulla da ridire o la consideri una guerra di religione contro l'Islam: “Di fronte alle minacce del terrorismo la nostra forza è la nostra unità”, ha aggiunto infatti Gentiloni, e “dire che siamo in prima fila contro il terrorismo non è l'annuncio di avventure, tanto meno di crociate: è semplicemente quello che stiamo già facendo nella coalizione militare anti-Daesh (nome dello Stato islamico, ndr) in Siria e in Iraq”.
Per cui l'Italia, aspettando che la missione Onu “venga dotata di un mandato, di mezzi e di risorse in grado di accelerare il processo di dialogo politico per arrivare a un nuovo Governo di unità nazionale”, è pronta al tempo stesso “ad assumersi le sue responsabilità ed è pronta ad assumere responsabilità di primo piano. Siamo pronti, come Italia, a contribuire al monitoraggio del cessate il fuoco. Siamo pronti a contribuire al mantenimento della pace. Siamo pronti a contribuire alla riabilitazione delle infrastrutture, all'addestramento militare in un quadro di integrazione delle milizie nell'esercito regolare, a curare e a sanare le ferite della guerra”.

L'arringa difensiva e interventista di Napolitano
Insomma, sia pure in modo mascherato dietro operazioni di “peacekeeping” come in Afghanistan, il crociato imperialista Gentiloni non rinuncia a rivendicare il diritto ad un intervento militare in Libia e ad un ruolo guida dell'Italia in questo possibile scenario. Uno scenario caldeggiato fra l'altro a spada tratta dal rinnegato guerrafondaio Napolitano, che dal suo scranno di senatore a vita non ha rinunciato a invocare una nuova avventura imperialista in Libia, ribattendo anche puntigliosamente a quanti, tra cui Berlusconi, lo accusano di aver trascinato l'Italia in guerra contro Gheddafi nel 2011 a fianco della Francia, della Gran Bretagna e degli Usa, guerra che è all'origine del disastro attuale e dell'avanzata dell'Is in quel paese: “Vale la pena di ricordare – ha puntualizzato infatti l'ex inquilino del Quirinale - che fu un'azione decisa in comune, fu una comune assunzione di responsabilità, incentrata su chi nel nostro sistema costituzionale aveva ed ha la responsabilità delle decisioni in materia di politica estera e di difesa, cioè il Governo della Repubblica” (guidato allora da Berlusconi, ndr). E ha ricordato altresì “che ci fu un amplissimo consenso parlamentare con la risoluzione approvata il giorno 18 marzo dalle Commissioni Esteri e Difesa di Senato e Camera, che fu qualcosa di molto significativo e importante”.
Se egli fu responsabile dell'intervento in Libia, insomma, lo fu tanto quanto l'allora premier Berlusconi e l'intero parlamento nero, che non possono sfuggire alla loro parte di responsabilità: questo è il succo dell'arringa del rinnegato Napolitano. Il quale non per nulla ha concluso il suo intervento battendo proprio su questo tasto: e cioè che anche oggi, come allora, “noi non possiamo tirarci indietro, come non ci tirammo indietro nel 2011, rispetto a quello che accadde in Libia e a tutte le ricadute della situazione libica sull'Italia”. E ha bacchettato, con tutto il suo non ancora dismesso stile quirinalizio, i “cari colleghi” senatori ammonendoli che “da questo mondo così gravido di pericoli quello che è certo è che non possiamo evadere, non possiamo scappare, ma ci tocca fare il nostro dovere”.

“Siamo in grado di intervenire”
Del resto, a parte quelli del Movimento 5 stelle, contrari a ogni coinvolgimento dell'Italia nella crisi libica, tutti gli interventi degli altri partiti dell'opposizione parlamentare sono stati sostanzialmente interventisti, salvo le diverse interpretazioni dell'interventismo dettate dai rispettivi interessi di bottega: Forza Italia, mettendo l'accento sull'intervento del 2011 contro Gheddafi che si è dimostrato “un errore come aveva predetto Berlusconi”; la Lega, invocando interventi militari ma solo finalizzati a bloccare il flusso di migranti; e SEL, condividendo la stessa visione strategica del governo sul pericolo rappresentato dallo Stato islamico e sulla necessità di combatterlo, sia pure solo nell'ambito delle iniziative diplomatiche e politiche dell'Onu.
Iniziative che per adesso occupano tutta la scena internazionale, per cui è in queste che il governo italiano cerca di farsi spazio per avere comunque quel “ruolo guida” sulla Libia a cui ambisce, come dimostra anche il vertice del 17 febbraio a Palazzo Chigi presieduto da Renzi: un vero e proprio “gabinetto di guerra” con i ministri di Esteri, Difesa e Interno e il sottosegretario con delega ai servizi segreti, Minniti; vertice che al termine della riunione ha “ribadito l'impegno italiano per una forte azione diplomatica in ambito Onu e il sostegno per una iniziativa urgente al Consiglio di Sicurezza che promuova stabilità e pace in Libia”.
Ma l'opzione interventista del governo Renzi è sempre sul tavolo, come lo stesso premier ha fatto capire domenica 22 gennaio in tv alla giornalista Lucia Annunziata, in cui a proposito dell'avanzata dell'Is in Libia ha ribadito che “la minaccia è forte e noi comunque siamo pronti”: “L'Italia ha un servizio di intelligence che non è forte come la Cia – si è vantato il nuovo Berlusconi - ma in Libia siamo il numero uno. Noi conosciamo come stanno le cose in quel paese. Siamo in grado di intervenire. Io non vengo in trasmissione a farle vedere i piani, però le dico: siamo in grado di intervenire”.

25 febbraio 2015