Svenduto un altro pezzo pregiato dell'industria nazionale
La Cina compra la Pirelli
Palazzo Chigi tace e acconsente

Il 22 marzo il consiglio di amministrazione di Camfin, la finanziaria che con il 26,2% controlla la Pirelli, ha approvato l'accordo con China National Chemical Corporation (ChemChina) per la cessione della maggioranza azionaria alla sua controllata China National Tyre & Rubber Co. (Cnrc): in pratica la vendita della Pirelli ai cinesi, che al termine di una lunga e complessa operazione finanziaria e societaria che partirà in estate, arriveranno a detenere una quota variabile tra il 51 e il 65 % dell'industria italiana di pneumatici presieduta e diretta da Marco Tronchetti Provera.
ChemChina è un gigante industriale a controllo statale con 140 mila dipendenti e un fatturato da 36 miliardi di euro, che opera in sei diversi settori, dalla chimica alla gomma, ed è già presente in 140 paesi. Ultimamente ha comprato la francese Adisseo, l'autraliana Quenos, la norvegese Elkem e l'israeliana Makteshim Akam, ma con la fusione della branca di Pirelli che produce gli pneumatici per veicoli industriali con la propria controllata Aeolus Tyre, punta a un netto salto di dimensioni e a salire dall'attuale 28° posto al 4° o 5° posto tra i produttori mondiali in questo settore.
Questo accordo - ha dichiarato con toni ottimistici Tronchetti Provera assicurando che la sede, la direzione e la ricerca della nuova società resteranno in Italia - “rappresenta una grande opportunità per Pirelli. L'approccio al business e la visione strategica di Cnrc garantiscono lo sviluppo e la stabilità di Pirelli”. Toni altrettanto ottimistici e soddisfatti sono stati espressi dal suo nuovo socio cinese, Jianxin Ren, presidente di ChemChina, che si è detto lieto di “diventare partner di Marco Tronchetti Provera e del suo team per continuare a costruire insieme un gruppo di portata mondiale e un leader del mercato nell'industria globale dello pneumatico”. Ma per il futuro dei lavoratori della Pirelli e dell'industria nazionale, le prospettive non appaiono affatto così ottimistiche e rassicuranti come i due contraenti mirano a far credere.
La vendita della Pirelli ai cinesi, infatti, assomiglia per certi aspetti alla vicenda della Fiat, sempre governata dalla stessa famiglia e mai riuscita ad acquisire dimensioni internazionali per mancanza di investimenti e per non voler dividere la proprietà e il controllo con altri soggetti; per finire poi di fatto in mano ai fondi di investimento americani, anche se formalmente è stata la Fiat ad acquistare la Chrysler. Anche Leopoldo Pirelli aveva tentato in passato di acquisire dimensioni internazionali, o quantomeno europee, con i tentativi di acquisto dell'inglese Dunlop prima, e della tedesca Continental poi, entrambi falliti per gli stessi motivi di fondo per cui erano falliti i tentativi degli Agnelli. Dopo il disastroso tentativo speculativo di Tronchetti Provera di scalare la Telecom, negli ultimi anni la Pirelli si era risollevata ma a prezzo di pesanti ristrutturazioni e la cessione di importanti settori come quello dei cavi; e soprattutto con la vendita di quote consistenti del capitale azionario, come il 50% di Camfin ceduto ai russi di Rosneft, il più grosso gruppo petrolifero controllato direttamente dal governo di Mosca, il cui amministratore delegato Igor Sechin è amico e consigliere, nonché ex collega nel Kgb, di Vladimir Putin.

Chiusa la storia della Pirelli come industria italiana
L'attuale assetto proprietario vede infatti la Camfin che controlla Pirelli divisa a metà tra Rosneft e Coinv, una finanziaria controllata a sua volta per il 76% da Tronchetti Provera e altri soggetti, tra cui l'industriale genovese Malacalza col 7%, più un 12% ciascuno a Intesa Sanpaolo e Unicredit. Da circa un anno, quindi, la Pirelli era già per metà in mani straniere, e l'accordo di oggi con i cinesi chiude definitivamente la storia centenaria di questa azienda in quanto industria italiana: come per la Fiat la sua internazionalizzazione non è avvenuta infatti attraverso una crescita interna e una conseguente espansione sovranazionale, ma molto semplicemente perché comprata da un soggetto estero finanziariamente ed industrialmente più forte. O due, se si includono anche i russi, che però rispetto ai cinesi sono in posizione nettamente minoritaria, e per di più indeboliti nella loro capacità di manovra dalle sanzioni da cui sono stati colpiti per via dell'Ucraina.
In cambio del 51% Tronchetti Provera sarebbe riuscito a strappare ai cinesi dei patti parasociali che fornirebbero ampie garanzie al mantenimento della “italianità” della Pirelli. Come la permanenza in Italia della direzione e del centro di ricerca e sviluppo, con la clausola che un loro eventuale trasferimento deve essere approvato da una maggioranza qualificata del 90%. La Bidco, ossia la holding che controllerà Pirelli, avrà un consiglio di amministrazione di 16 membri eletti per metà dai cinesi (che nomineranno anche il presidente, il cui voto vale doppio) e per metà dai soci italiani e russi, e Tronchetti Provera ne sarà il vicepresidente e amministratore delegato per i prossimi 5 anni. Ciò che gli consente di dichiarare che almeno di qui al 2012 il management di Pirelli resterà in mani italiane.

Un'operazione complessa e piena di incognite
Ma le cose non sono così certe. L'operazione che prenderà il via tra pochi mesi è molto delicata e il suo esito tutt'altro che scontato. Intanto c'è la questione dei soldi: l'operazione vale complessivamente 7 miliardi, ma i cinesi ne metteranno solo 2,3 e italiani e russi altri 1,1; gli altri 4 li metteranno le banche, tra cui in parte gli attuali soci Unicredit e Sanpaolo, ma soprattutto l'americana JP Morgan, già ben nota per le sue ricette ultraliberiste: a che condizioni, e con quali garanzie in cambio, anche dal punto di vista occupazionale e sindacale?
Inizialmente i cinesi acquisteranno il 100% di Camfin, che sarà incorporata da una newco (new company, nella fattispecie la Bidco) in cui riconfluiranno anche una parte dei capitali realizzati dai soci italiani e russi della stessa Camfin. Questa newco lancerà poi un'Opa (offerta pubblica di acquisto) per il 100% di Pirelli, diviso per il 65% ai cinesi e per il 35% tra i soci della vecchia Camfin. Con la possibilità per questi ultimi di salire fino al 49%, e i cinesi scendere conseguentemente al 51%. In una terza fase Pirelli uscirebbe dalla Borsa (possibile se un solo soggetto possiede almeno il 90% delle azioni), così da facilitare lo scorporo degli pneumatici industriali che si fonderebbero con la cinese Aeolus. Mentre il comparto gomme per auto e moto, quello a più alta redditività, sarà fatto rientrare in Borsa al termine dell'operazione, senza rischi di scalate da parte di soggetti terzi, tipo fondi di investimento americani o simili.
E' chiaro che un'operazione così lunga e complessa può andare incontro a molti rischi e imprevisti. Se un azionista importante, come per esempio Malacalza, si rifiutasse di vendere, come sembra intenzionato a fare, si aprirebbe subito un problema per il buon esito dell'Opa. Inoltre l'Opa è stata fissata al valore di 15 euro ad azione, ma sul mercato questo valore appare già superato nei fatti. Insomma, le variabili in gioco sono tante e si aprono grandi incognite sul cammino di tutta l'operazione. E la cosa ancor più grave è che in tutta questa assai opaca vicenda neanche una parola è venuta da Palazzo Chigi, che pure è stato costantemente informato da Tronchetti Provera durante la fase finale delle trattative. Come se considerasse tutta la vicenda un affare strettamente privato e non riguardasse il destino di uno degli ultimi pezzi pregiati dell'industria nazionale e di decine di migliaia di famiglie di lavoratori.

Italia terreno di conquista
E' quello che hanno denunciato immediatamente le organizzazioni sindacali, a cominciare dalla Filctem-Cgil, che con una nota della Segreteria nazionale ha detto che con la vendita della Pirelli “un altro importante pezzo del tessuto industriale del nostro Paese passa di mano”, sottolineando che “siamo terreno di conquista”, e che “a scorrere l'elenco delle grandi società che negli ultimi anni sono passate sotto il controllo di gruppi non italiani vengono i brividi”. Ma soprattutto denunciando che “sono decenni che in questo Paese non si discute di politica industriale e l'atteggiamento dell'attuale governo in questa vicenda è quello di fare da spettatore senza che nessuna voce si levi, neanche per chiedere chiarimenti, né per chiedere garanzie circa l'assetto industriale e produttivo futuro del gruppo Pirelli”.
Il fatto è che la dottrina del Berlusconi democristiano Renzi, con la parola d'ordine liberista che bisogna a tutti i costi attirare gli investimenti in Italia, è proprio quella di favorire al massimo la penetrazione dei grandi gruppi stranieri e la svendita delle industrie nazionali pubbliche e private, e quindi per lui la vendita della Pirelli ai cinesi non rappresenta un problema per il quale mettere almeno dei paletti ed esigere garanzie, ma semmai un successo di cui vantarsi e ascrivere al “clima di fiducia” che egli avrebbe riportato nel Paese: “L'operazione Pirelli-ChemChina va letta comunque in senso positivo rispetto alla scelta di investire in Italia”, ha detto infatti il sottosegretario all'Economia Zanetti, sottolineando il fatto che “fino a qualche anno fa non eravamo neanche tra i primi 10 Paesi di riferimento per gli investimenti cinesi, ora siamo sesti”.
E' vero che l'Italia nel 2014 è diventata il secondo Paese della UE ad attrarre gli investimenti cinesi nel capitale azionario di importanti società private, con punte del 100% di Krizia e del gruppo oleario Sagra e Berio. Ma soprattutto con le acquisizioni della Banca Centrale di Pechino nei grandi gruppi pubblici, tra cui il 40% di Ansaldo Energia e il 35% di Cassa Depositi e Prestiti Reti per 2,1 miliardi, con i quali si è assicurata la partecipazione alle reti strategiche del gas e dell'elettricità del nostro Paese. A cui si sono aggiunte piccole (il 2% per ora) ma significative partecipazioni in altre aziende strategiche come Eni, Enel, Generali, Telecom, Fiat-Chrysler, Mediobanca, Saipem, Prysmian e Terna.
Con la Pirelli, però, non si tratta solo di un investimento, ma di un vero e proprio passaggio di proprietà e conseguente cambio di nazionalità di una delle industrie più importanti e storiche del Paese, ed è questo che il governo Renzi finge di non vedere. Mentre il socialimperialismo cinese continua a espandersi e ad acquisire un ruolo sempre più egemonico nei confronti della superpotenza americana ed europea.

1 aprile 2015