Come dimostra anche l'inchiesta “Aemilia”
La mafia mette radici in Emilia-Romagna
La giunta regionale guidata da Bonaccini (PD) finge di non saperne nulla e consolida “l'Osservatorio regionale”

Dal nostro corrispondente dell'Emilia-Romagna
Come dimostra anche l’inchiesta “Aemilia”, durata diversi anni e culminata alla fine di gennaio con centinaia di arresti e di denunce (“Il Bolscevico” n.15/2015), da molti anni la mafia non è più un fenomeno circoscritto al solo Sud Italia, ma ha allungato i suoi tentacoli anche al Nord, e in particolare in Emilia-Romagna (al centro dell’indagine) dove vede sempre più spazi d’azione grazie ai molteplici settori economici ed imprenditoriali e comunque ovunque ci siano molti soldi in ballo e politicanti corruttibili, investendo soprattutto nel gioco d’azzardo e nell’edilizia e approfittando della ricostruzione post-terremoto del 2012 in Emilia, ma non tralasciando ovviamente il traffico di sostanze stupefacenti, il riciclaggio, l’estorsione, l’usura.
L’inchiesta ha fatto emergere casi eclatanti come quello di Finale Emilia (comune modenese a guida PD), dove il tecnico dell’ufficio Lavori Pubblici ha affidato incarichi alla ditta Bianchini (i cui titolari sono ora in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sempre nell’ambito dell’inchiesta Aemilia) anche quando quest’azienda era già stata estromessa dalla “White list”, l’elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, introdotta con il decreto legge 174/2012 per stabilire chi può accedere alle gare d’appalto pubbliche e private nei territori interessati da eventi calamitosi, e chi no.
Oppure come a Brescello (Reggio Emilia) dove il sindaco Marcello Coffrini (anche lui PD) diversi mesi fa definì “una persona educata” il boss Francesco Grande Aracri, negando che in città ci fosse un problema di ‘ndrangheta.
Nel corso delle indagini furono interrogati vari politicanti di Reggio Emilia, e nel 2012 anche l’allora sindaco di Reggio Emilia (in carica dal 2004 al 2013) Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio fino al 2 aprile quando è poi stato nominato da Renzi ministro delle infrastrutture e dei trasporti sostituendo Lupi (Ncd) costretto a dimettersi in seguito al coinvolgimento nell’operazione “Sistema” sulla nuova tangentopoli delle “grandi opere”.
Delrio (non indagato), che era sentito "come persona informata sui fatti" per “capire in che tipo di considerazione la società di Reggio Emilia teneva la comunità calabrese", era tra i promotori (in pieno periodo elettorale) del gemellaggio con Cutro (Crotone), la città del clan della ‘ndrangheta Grande Aracri, di cui numerosi membri sono stati arrestati in seguito all’inchiesta “Aemilia”.
Il terremoto in Emilia è stato dunque, e continua ad essere, un affare per la mafia che ha messo le mani prima sullo smaltimento delle macerie, poi sugli appalti milionari per la realizzazione d’urgenza delle nuove opere pubbliche e ora nella ricostruzione privata.
A ben vedere quindi la “White list” delle imprese stilata dalla Regione è servita a poco, anche perché non sono stati stanziati fondi a sufficienza per il controllo dei cantieri.
La giunta dell’Emilia-Romagna guidata dal PD Stefano Bonaccini ha quindi pensato di ricorrere all’ennesima “foglia di fico” per coprire le sue gravi mancanze, approvando il 27 febbraio il progetto di legge di modifica della legge regionale n. 3/2011 che disciplina le misure che vengono attuate “a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso e per la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile”.
In tale progetto di legge manca completamente la denuncia della commistione mafia-economia capitalistica-politica borghese, tutto si riduce invece alla “presa di consapevolezza dell’importanza e della portata del problema dell’insediamento mafioso nelle regioni non tradizionali al centro-nord” (era ora!) e “dell’esigenza di conoscere meglio il fenomeno per poterlo contrastare con un’efficace azione antimafia”, a tal fine la modifica “mira in primo luogo a consolidare il ruolo dell’Osservatorio regionale sui fenomeni connessi al crimine organizzato e mafioso e costituire la consulta regionale per la prevenzione del crimine organizzato e mafioso e per la promozione della cultura della legalità”. “Per contrastare l’espansione delle mafie – asserisce il documento - occorre quindi comprendere le loro dinamiche focalizzando l’attenzione sui contesti locali, sui fattori che le rendono possibili e sulle pratiche che le favoriscono”.
Pratiche che la giunta regionale finge di non conoscere, come quella delle gare al massimo ribasso e la catena infinita dei sub appalti, al punto che in Emilia-Romagna il 70% degli appalti viene poi dato in sub appalto, oppure le esternalizzazioni dei servizi pubblici, e ancora le operazioni immobiliari speculative, alle quali fanno da “sponda” le continue modifiche ai piani regolatori, per ripulire denaro proveniente da attività illecite.
 

Per combattere le mafie
La realtà è che “la mafia si è insediata stabilmente in Emilia-Romagna perché la politica ha voltato la testa, o ha agito in collusione con i clan”, come afferma il nuovo dossier pubblicato dal Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini, intitolato “Emilia-Romagna Cose Nostre”, che ricostruisce i fatti di mafia che tra il 2012 e il 2014 hanno avuto come fulcro l’Emilia-Romagna e che spiega come siano ben 11 le organizzazioni mafiose attive in Regione: la mafia nord africana, nigeriana, cinese, sudamericana, rumena, ucraina e albanese, mentre quelle interne sono cosa nostra, camorra, sacra corona unita e la ‘nrangheta.
La giunta Bonaccini finge quindi di “cadere dalle nuvole” e non di non sapere niente dell’infiltrazione mafiosa in Regione, così come il suo referente, il Berlusconi democristiano Renzi, spiana la strada alla mafia col famigerato “Sblocca Italia” che incentiva le “grandi opere” e gli inceneritori, “piatto prelibato” per le cosche, così come lo è l’Expo 2015. D’altra parte cerca di mettere il bavaglio alla magistratura con l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati e le limitazioni alle intercettazioni.
Ciò che occorre fare invece è togliere il terreno da sotto ai piedi delle mafie, innanzitutto opponendosi al Jobs Act di Renzi e battendosi per il lavoro stabile, a salario intero e sindacalmente tutelato, bisogna poi fermare le privatizzazioni e ripubblicizzare ciò che è stato privatizzato per impedire alla mafia di mettere le mani sui (particolarmente ambiti) servizi di interesse pubblico; la caccia ai camorristi e ai mafiosi va data innanzitutto nelle istituzioni e nei vertici delle organizzazioni economiche, finanziarie e imprenditoriali, i beni confiscati devono essere dati in gestione ad organismi eletti dalle masse locali. Va rafforzata la legislazione antimafia, indebolita a più riprese dai vari governi che si sono succeduti dal neoduce Berlusconi in poi, compresi quelli di “centro-sinistra”, e sostenere i magistrati impegnati in prima fila nella lotta alla camorra e alle mafie, affinché non siano condizionati e contrastati dagli amministratori pubblici e dai governanti conniventi con la camorra e le mafie, e occorre sostenere le richieste delle Procure distrettuali antimafia per disporre di fondi e mezzi adeguati per svolgere la loro attività investigativa e repressiva della criminalità organizzata.
Come recita il Documento dell’Ufficio politico del PMLI del 1° dicembre 2006: “Per sconfiggere la piovra mafiosa che domina nel Mezzogiorno, bisogna capire dov'è la testa su cui indirizzare i nostri colpi principali. La testa si trova nell'alta finanza, nei circoli dell'industria, dell'agricoltura, del terziario e nelle istituzioni. Cioè dentro la classe dominante borghese, lo Stato borghese e l'economia capitalistica. La lotta contro la camorra e le mafie rientra quindi nella lotta di classe tra il proletariato e la borghesia, tra il socialismo e il capitalismo, tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e il riformismo, il revisionismo e il neorevisionismo. Il PMLI la vive e la pratica in quest'ottica”.

15 aprile 2015