Al referendum greco
Grande vittoria del "No"
Tsipras già pronto a svenderla
Respingere le illusioni europeiste. La Ue imperialista va distrutta

 
Nel referendum del 5 luglio il popolo greco ha sonoramente bocciato il piano proposto da Commissione europea, Fondo Monetario internazionale e Banca centrale europea alla riunione dell'Eurogruppo del 26 maggio sulle riforme liberiste che il governo di Atene avrebbe dovuto applicare per continuare a ottenere gli aiuti finanziari. Il 61,3% degli elettori ha detto "No" e fatto registrare una grande vittoria; la vittoria di una importante battaglia che continua anche se non sotto i migliori auspici con il primo ministro Tsipras già pronto a svenderla.
La vittoria del "No" rappresenta l'affermazione del diritto di un popolo di esprimersi sul suo futuro, del diritto di una nazione a rifiutare le misure liberiste dell'Unione europea imperialista, a guida tedesca; ha rigettato il pesante ricatto delle istituzioni europee sul "prendere l'amara medicina o uscire dall'euro" e finire in rovina. Il popolo greco ha dato un importante esempio anzitutto ai popoli europei che quelle misure hanno dovuto subire, dall'Italia alla Spagna, dall'Irlanda al Portogallo, con il conseguente peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro.
Un successo auspicato nella grande manifestazione del 3 luglio in piazza Syntagma a Atene, che chiudeva la campagna elettorale, e nelle piazze dei paesi europei, fra le quali le numerose che si sono svolte in Italia in sostegno del "No".

Il "No" al 61,3%
I risultati definitivi del referendum, diffusi dal ministero dell'Interno di Atene, registrano 3.558.450 voti, pari al 61,3%, per il "No", 2.245.537 voti, pari al 38,7%, per il "Sì"; 357.153, pari al 5,8%, le schede bianche e nulle. Al voto ha partecipato il 62,5% degli aventi diritto.
Secondo le prime analisi del voto, sono stati in particolare i giovani a segnare la larga vittoria del "No", scelto nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni da almeno il 67% degli elettori e dal 70% nella fascia di elettori tra i 18 e i 25 anni. Ha vinto largamente nei quartieri popolari e tra le fasce di popolazione più colpite dalle misure di austerità.
La larga vittoria del "No" è stata anche una secca risposta alle inammissibili ingerenze delle istituzioni europee che sono proseguite fino alla immediata vigilia del voto. Come quelle di due dei protagonisti, seppur di seconda fila, del negoziato col governo di Atene come il presidente della Commissione, il lussemburghese Jean Claude Juncker, l'amico delle multinazionali, e l'olandese Jeroen Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo. Il 3 luglio Juncker affermava che "se i greci voteranno 'no' al referendum di domenica, la posizione della Grecia sarà drammaticamente indebolita nei negoziati di un eventuale nuovo programma" mentre Dijsselbloem rincarava la dose con: "se i greci voteranno 'no' sarà incredibilmente difficile mettere in piedi un nuovo salvataggio". E sventolavano entrambi lo spauracchio del default, dato per certo. A urne chiuse si dimostravano più disponibili al negoziato, rassicurati anche da Tsipras.
Al contrario dei forcaioli eurocrati, i popoli europei avevano sin da subito espresso la loro solidarietà al popolo greco e sostenuto nelle piazze, com'è successo in Italia col PMLI presente a Milano, Biella, Modena, Firenze, Roma e Catania, le sacrosante ragioni del No.

Tsipras: Non rompiamo con la Ue
Il primo ministro greco a risultati non ancora definitivi ma chiari riaffermava che "non è in dubbio l'uscita o meno della Grecia dall'euro, il risultato di oggi non rappresenta una rottura con l'Ue, ma rinforza il nostro potere nelle trattative per uscire dal circolo vizioso dell'austerity”. “In questo momento - aggiungeva - la nostra patria ha bisogno di unione e collaborazione per superare le difficoltà. Chiederò al presidente della Repubblica di convocare i leader dei partiti politici per comunicare le decisioni del governo” e per definire congiuntamente una posizione da portare a Bruxelles, non a nome del suo governo ma di tutti i partiti parlamentari. Vogliamo tornare al tavolo delle trattative per negoziare un'intesa migliore era stato il tormentone rassicurante di Tsipras verso i negoziatori europei.
Le nuove proposte elaborate dal governo di Atene per la possibile ma non scontata ripresa della trattativa non sono al momento state rese note, vedremo. Certo non è un bel segnale, se non di svendita, quello della sostituzione del ministro delle Finanze Yanis Varoufakis.
Varoufakis aveva dichiarato che si sarebbe dimesso in caso di vittoria del “Si”, ha vinto il “No” e lui si è dimesso perché, ha affermato, “subito dopo l'annuncio dei risultati del referendum, sono stato informato di una certa preferenza di alcuni membri dell'Eurogruppo e di 'partner' assortiti per una mia... 'assenza' dai loro vertici, un'idea che il primo ministro ha giudicato potenzialmente utile per consentirgli di raggiungere un'intesa”; lasciava quindi l'incarico per consentire al primo ministro di stringere più facilmente un accordo con i creditori. Euclid Tsakalotos, il coordinatore dei negoziatori greci al tavolo Ue che già aveva preso il posto di Varoufakis lo ha sostituito al ministero delle Finanze. Un personaggio che ha un percorso del tutto simile al predecessore, con laurea a Oxford, ma che da più tempo di lui fa parte di Syriza e meglio conosce i meccanismi interni di partito, una conoscenza che può tornagli utile nel caso dovesse far passare l'eventuale capitolazione.
Il capo negoziatore Euclid Tsakalotos affermava che "il governo greco ora andrà al nuovo negoziato con due nuovi elementi: il rapporto dell'Fmi sull'insostenibilità del debito greco e un nuovo mandato popolare"; agli incontri di Bruxelles dell'Eurogruppo e al vertice dei capi di Stato e di governo dei 19 della zona euro convocati il 7 luglio, secondo fonti greche, Tsipras dovrebbe limitarsi a chiedere un prestito ponte da 7 miliardi al più presto, per far fronte ai rimborsi degli interessi al Fondo monetario, già scaduti il 30 giugno, e a quelli della Banca europea in scadenza il 20 luglio.

Le reazioni in Europa
La partita sembrava riaperta anche se il fronte liberista guidato dalla Germania si mostrava deciso a chiudere tutte le porte. La sera del 5 luglio il vice cancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, affermava che Tsipras "ha distrutto l'ultimo ponte verso un compromesso tra l'Europa e la Grecia" mentre il suo collega di partito e presidente dei socialisti europei Martin Schulz, livido per la vittoria del "No", proponeva un piano di aiuti umanitari per la Grecia che andava diritta alla rovina.
Il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert comunicava che la cancelliera Angela Merkel e il presidente frencese François Hollande si sarebbero incontrati a Parigi il 6 luglio per confrontarsi sugli sviluppi della situazione in Grecia dopo il referendum. Il direttorio franco-tedesco si metteva in moto da solo, gli altri paesi avrebbero seguito. Dopo qualche ora arrivavano anche le convocazioni dell'Eurogruppo e del consiglio straordinario.
Il governo francese del socialista Valls sosteneva che il debito della Grecia "è troppo alto per consentire una ripresa" e discuterne una ristrutturazione "non è un tabù", aprendo alla richiesta di Atene di abbattere del 30% il suo debito e di allungarne le date di pagamento. Il governo spagnolo del destro Rajoy, che la cura liberista della Ue l'ha applicata in pieno, ribadiva che i debiti si pagano ma al suo ministro delle Finanze, Luis De Guindos, faceva sostenere che Madrid era aperta ai negoziati per un terzo piano di salvataggio e che Atene deve restare nell'euro. Meglio non chiudere tutte le porte dato che fra pochi mesi in Spagna ci sono le elezioni e il "pericolo" della nuova "sinistra" borghese di Podemos è alle porte.

La posizione a doppia faccia di Renzi
Un percorso simile a quello compiuto dall'Italia di Matteo Renzi che il 30 giugno a Berlino era allineato alla Merkel, aggiungendo la sua voce all'intollerabile ingerenza per il “Sì” negli affari interni di un altro Paese, mentre il 5 luglio lasciava la parola al ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan per sfruttare la vittoria del "No". Padoan chiedeva un nuovo programma di aiuti alla Grecia che non si limitasse "alla dimensione finanziaria" ma affrontasse anche il problema di "rimettere l'economia greca sulla strada di una crescita sostenibile". Una soluzione valida anche per l'Italia.
La posizione dell'imperialismo italiano la spiegava il presidente della repubblica Sergio Mattarella: "I cittadini greci hanno preso oggi, con il referendum, una decisione della quale occorre, in primo luogo, prendere atto con rispetto. Una decisione, tuttavia, che proietta, oltre ad Atene, la stessa Unione europea verso scenari inediti, che richiederanno a tutti, sin d'ora, senso di responsabilità, lungimiranza e visione strategica", per tenere comunque in piedi l'europa imperialista, meglio con dentro la Grecia.
Per conoscere il pensiero del nuovo duce Renzi, in sintonia con Mattarella, occorreva attendere un suo commento su Facebook: "ricostruire un'Europa diversa non sarà facile, dopo ciò che è avvenuto negli ultimi anni. Ma questo è il momento giusto per provare a farlo, tutti insieme. L'Italia farà la sua parte. Se restiamo fermi, prigionieri di regolamenti e burocrazie, l'Europa è finita".
Su queste posizioni potrebbe trovare anche il sostegno delle tante anime della "sinistra" borghese, compresi i falsi comunisti, che hanno tifato per il "No" ma soprattutto per Tsipras che per i suoi apologeti della lista col suo nome che hanno concorso alle ultime elezioni del parlamento europeo "dopo questo voto assume statura e ruolo di leader europeo nello scenario mondiale rappresenta tutti gli europei – e sono davvero tanti – che non si riconoscono in questa gestione inumana, arrogante, egoistica e irresponsabile da parte di coloro che – in nome di un dogma fallimentare - hanno portato l’Europa sull’orlo del disastro, tradendone gli ideali fondativi, rendendola odiosa agli occhi del suo stesso popolo". La semina delle illusioni sulla possibilità di cambiare natura all'Europa imperialista riprende aria dal referendum greco e prosegue ingannatoria come prima. Va respinta. Tanto più che Tsipras non vuol nemmeno uscire dall'euro, vuol restarci dentro, a condizioni diverse, e non certo incompatibili, da quelle dettate da Bruxelles.

La Ue imperialista va distrutta
In ogni caso la battaglia vera non è solo uscire dall'euro ma dalla Ue che è una unione imperialista; a livello economico, politico, istituzionale e sociale l'Ue non è né neutra, né superpartes. Non l'hanno creata i popoli ma il grande capitale e la grande finanza europei, inclusi quelli italiani, per competere con i monopoli degli altri Paesi e per avere un posto di rilievo al tavolo della spartizione del mondo. Le istituzioni dell'Unione europea non sono altro che la sovrastruttura del sistema economico capitalista europeo di cui difendono gli interessi. In questo momento sono guidate dalla destra borghese che sostiene la politica dell'austerità, delle rigidità di bilancio da inserire persino nella Costituzione sancite dal Fiscal compact; un liberismo di destra che ha al centro il dogma del libero mercato. La “sinistra” borghese sostiene il liberismo di sinistra keynesiano secondo cui deve essere lo Stato a regolare i mercati, da qui l'aumento della spesa pubblica e di una certa "flessibilità" dei bilanci, presta una attenzione alle spese sociali per distribuire le briciole e tenere le masse popolari agganciate al capitalismo. Entrambe sostengono l'euro e di conseguenza consegnano quantomeno la sovranità economica in mano alle potenze imperialiste egemoni europee. Come dimostra la pratica, l'Ue non si può cambiare, non è riformabile. Va distrutta per il bene dei popoli europei. Intanto bisogna uscirne.

8 luglio 2015