Per rilanciare le esportazioni e la competitività
Il socialimperialismo cinese in crisi economica e finanziaria svaluta la moneta
La Banca centrale di Pechino: “Rendiamo la nostra moneta più orientata al mercato”. FMI d'accordo
Il crollo della Borsa di Shanghai si ripercuote sulle Borse di tutto il mondo

Che la serie di crolli della prima decade di luglio, che in pochi giorni aveva causato alle Borse cinesi perdite per quasi il 35% rispetto ai massimi di giugno e bruciato qualcosa come 2.800 miliardi di dollari, fosse il sintomo di una crisi profonda e quindi solo la prima avvisaglia di altri e più gravi tsunami finanziari, era facile prevederlo. E difatti, non solo il 27 luglio la prima Borsa cinese, quella di Shanghai, subiva un ulteriore tracollo dell'8,48%, e la seconda, quella di Shenzhen del 7%,
in risposta alle notizie negative sul calo dei profitti industriali di giugno e dell'indice della produzione manifatturiera ai minimi da 15 mesi; ma l'11 agosto, con una decisione a sorpresa, la Banca popolare cinese (Bpc) annunciava la svalutazione dello yuan.
Un provvedimento definito “una tantum” per riallineare la valuta cinese al mercato, e che invece è stato seguito da altre due svalutazioni consecutive il 12 e il 13 agosto, per un totale del 4,65% sul dollaro, portando lo yuan a un cambio di circa 6,4 per un dollaro. Nel complesso si tratta della svalutazione più imponente dello yuan negli ultimi 20 anni, da quando nel 1994 venne inserito nel mercato dei cambi con una svalutazione del 33% in un colpo solo. Secondo voci circolanti in Cina e all'estero l'obiettivo finale di questa manovra sarebbe anzi di arrivare ad una svalutazione del 10%.
In pratica più che svalutare le autorità cinesi hanno lasciato fluttuare liberamente lo yuan, intervenendo per frenarne la caduta solo quando si avvicinava alla soglia del 2% giornaliero. Segno evidente che la moneta cinese era da tempo largamente sopravvalutata rispetto ai fondamentali dell'economia e al suo valore reale sul mercato internazionale. Secondo fonti cinesi dal 2005 il valore dello yuan era cresciuto del 55%, e quest'anno di un ulteriore 3%, spinto dal dollaro forte, dalla crescita dell'economia statunitense e dalla previsione di un rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal reserve americana.
Una sopravvalutazione che faceva comodo a tutte le altre economie più forti, americana, europea, giapponese e dei Paesi emergenti, che contavano sull'immenso mercato cinese e la sua capacità di assorbimento di prodotti esteri per tirare la propria ripresa, ma che non poteva durare stante la frenata della crescita del Pil cinese dalle abituali due cifre al 7% previsto ufficialmente per quest'anno. Che molti analisti ritengono per di più “truccato” dal governo e ridimensionano a un 4% e anche meno.

“Riallineamento” o guerra valutaria?
Le tre svalutazioni hanno scatenato il panico nelle Borse cinesi e in quelle asiatiche e del resto del mondo, da cui si sono faticosamente riprese solo al terzo giorno, dopo le rassicurazioni delle autorità cinesi che non erano previste a breve altre svalutazioni; ma soprattutto dopo una nota dell'agenzia Standard & Poor's secondo cui la svalutazione dello yuan non era da interpretare come “l'inizio di una guerra sulle valute o un tentativo di rianimare la crescita”, ma piuttosto una “correzione tecnica” finalizzata a “migliorare il funzionamento del mercato”.
Anche le autorità politiche e monetarie cinesi si profondevano in rassicurazioni circa il carattere temporaneo della svalutazione, e nella loro capacità di controllare il “riallineamento” dello yuan al mercato, impedendone la caduta libera e pilotandolo fino ad un livello “più o meno stabile” e “ragionevole” (conferenza stampa del vicegovernatore della Bpc, Y Gang). E questo grazie alla crescita ancora robusta dell'economia, al surplus commerciale e alle enormi riserve valutarie cinesi. Una tesi, quella delle autorità di Pechino, avallata anche dal Fondo monetario internazionale (FMI), che vede con favore un riallineamento dello yuan ai mercati mondiali in vista del suo ingresso tra le monete forti di riferimento del paniere dei Diritti speciali di prelievo, accanto a dollaro, sterlina, yen ed euro, di cui il Fondo si serve per i suoi interventi monetari.
Tuttavia il sospetto, per non dire la certezza, che la mossa cinese sia dettata anche dall'obiettivo di dare una nuova spinta alle esportazioni per fronteggiare la frenata dell'economia, aprendo quindi un nuovo fronte nella guerra valutaria e commerciale in atto in tutto il mondo dall'inizio della crisi del 2008, è molto forte, soprattutto negli Usa, in Europa e Giappone. Anche perché sono proprio queste tre economie che per uscire dalla crisi già da anni ricorrono ampiamente all'arma valutaria, con le loro banche centrali che stampano moneta inondando di dollari, euro e yen – il cosiddetto quantitative easing - le rispettive e asfittiche economie per farle ripartire: primi fra tutti e con un certo successo gli Usa, in misura minore la Banca centrale europea, che ha cominciato da poco vincendo le resistenze tedesche, mentre in Giappone la stessa cura applicata massicciamente dal premier Abe (“Abenomics”) non ha funzionato e il Pil sta tornando di nuovo in recessione, anche a causa della crisi cinese.
Il fatto perciò che queste tre superpotenze si lamentino della svalutazione decisa unilateralmente e a sorpresa dal governo di Pechino accusandolo di condurre un “gioco sleale” e di scatenare una nuova guerra valutaria, quando esse lo stanno già facendo da anni, è alquanto ridicolo e toglie loro ogni credibilità e potere di pressione su di esso. Tant'è vero che non solo il FMI, ma anche Merkel e Hollande, nel loro ultimo vertice, come sottolineato il 25 agosto dall'agenzia Xinhua, “hanno riposto la loro fiducia nella capacità della Cina di superare le attuali difficoltà”. Tradotto, non possono far altro che sperare che il governo cinese riesca a governare come meglio può la propria crisi per il bene di tutti.

Un altro tsunami planetario
Anche perché, con l'attuale livello raggiunto dalla liberalizzazione dei commerci e dei capitali su scala mondiale, la crisi della Cina, la seconda potenza economica mondiale (se non la prima, per alcuni analisti), non può non ripercuotersi direttamente su tutte le altre economie capitaliste del mondo intero. E lo dimostrano in maniera eloquente i nuovi crolli borsistici su scala planetaria che si sono verificati subito dopo la svalutazione dello yuan: il primo il 18 agosto, con un altro crollo del 6,5% di Shanghai che ha trascinato con sé tutte le Borse asiatiche; il secondo tre giorni dopo, con un altro tonfo del 4,2% di Shanghai, seguito anche dalle Borse europee; e soprattutto il terzo, il “lunedì nero” del 24 agosto, un vero e proprio tsunami finanziario, partito al solito da Shanghai con un nuovo crollo dell'8,5% (che porta a -40% le perdite in un mese), subito trasmessosi a tutte le Borse asiatiche, da Tokyo a Taiwan, a Singapore, India, Australia e Nuova Zelanda, e che seguendo i fusi orari si è poi abbattuto in pieno sull'Europa, lasciando sul terreno 411 miliardi di euro di capitalizzazione di Borsa, e arrivando a farsi sentire fortemente fino a New York.
Un maremoto di dimensioni paragonabili solo a quello dei mutui subprime che diede il via alla grande crisi del 2007-2008. Solo che stavolta ad innescarlo non è stato come a luglio lo sgonfiamento della bolla speculativa, ma un sommovimento più profondo, che il governo socialimperialista non è riuscito ad arginare neanche con massicce iniezioni di liquidità sul mercato, prelevandola anche dai fondi pensione. Il panico è stato scatenato dall'andamento negativo di tutti gli indicatori economici cinesi, a cui si è aggiunta la svalutazione dello yuan, e ciò ha fatto deflagrare la bomba provocando la fuga in massa di capitali dalle Borse cinesi, calcolata in qualcosa come 3.500 miliardi di renmimbi (la valuta nazionale di cui lo yuan è l'unità di conto), pari a 550 miliardi di dollari.

Le politiche fallimentari di Pechino
Da tempo il modello cinese di sviluppo a due cifre iniziato dalle “riforme” capitalistiche di Deng Xiaoping e basato sullo sfruttamento selvaggio di popolazione e ambiente per alimentare il ciclo produzione-esportazione-capitalizzazione-investimenti per sostenere ulteriore sfruttamento e crescita e così via, era entrato in crisi. Anche perché la lunga crisi economica negli Usa e in Europa aveva progressivamente inaridito quei mercati di sbocco per le merci cinesi, mentre rallentavano anche le economie e i mercati dei Paesi colpiti dal crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime di cui sono esportatori, come Russia, Brasile, Sudafrica, Paesi arabi ecc. Per non parlare della concorrenza di altri Paesi asiatici emergenti, come Vietnam, Indonesia, Malesia, Thailandia, che infatti hanno subito svalutato le loro monete a ruota dello yuan.
D'altra parte anche il debole tentativo di riequilibrare il ciclo economico incanalandolo dalle esportazioni ai consumi interni è fallito, perché avrebbe richiesto di colpire la corruzione dilagante e tassare i grandi capitalisti con un forte spostamento di risorse dai profitti ai salari e allo Stato sociale, praticamente inesistente in Cina, cosa che la cricca borghese socialimperialista di Xi Jimping si è ben guardata dal fare malgrado le sue roboanti promesse. Ecco perché, ai primi allarmanti segnali di cedimento dell'intero sistema, ormai avvitato nel circolo vizioso della sovrapproduzione e delle bolle speculative, è ritornata ad accarezzare il vecchio modello basato sulle esportazioni, imboccando la facile scorciatoia della svalutazione. Che a sua volta però comprime ulteriormente il mercato interno e fa aumentare il prezzo del petrolio e delle materie prime importate ostacolando la ripresa.

Una barbarie intrinseca al capitalismo
Dopo aver scatenato gli “spiriti animali” del capitalismo la cricca socialimperialista di Pechino si illude di poterne riprendere il controllo con gli stessi metodi classici del capitalismo che il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e la storia hanno già ampiamente dimostrato fallimentari. Anche perché tutte le altre superpotenze – Usa, Russia, Ue a trazione tedesca e Giappone – puntano sulle esportazioni per uscire dalla crisi, in un quadro in cui la crescita di tutte le economie capitaliste sta convergendo intorno allo zero o a pochi punti sopra, ed è intuitivo che questa situazione non può portare altro che a moltiplicare le crisi di sovrapproduzione, le bolle speculative provocate dalla enorme massa di capitale finanziario accumulato che si sposta da un Paese all'altro a caccia del massimo profitto e le guerre commerciali e valutarie tra le superpotenze imperialiste. Una situazione qualitativamente, anche se non quantitativamente, simile a quella anteriore alla prima guerra mondiale, e che nel tempo, come insegna Lenin, porta inevitabilmente alle guerre militari per stabilire chi tra di esse debba prevalere e chi soccombere.
Solo il socialismo può mettere la parola fine a questa spirale barbarica intrinseca al capitalismo, anche tinto di rosso. Lo ha chiarito magistralmente una volta per tutte Engels nell'introduzione al manoscritto della “Dialettica della natura” pubblicata sul precedente numero de Il Bolscevico , con queste parole che calzano perfettamente con la situazione sopra descritta, come se fossero state appena scritte: “Nei paesi industriali più progrediti noi abbiamo domato le forze naturali e le abbiamo costrette al servizio degli uomini; abbiamo così moltiplicato all'infinito la produzione, tanto che un fanciullo oggi produce più di quello che producevano ieri cento adulti. E quali sono i risultati? Crescente sopralavoro e miseria crescente delle masse, e una grande crisi ogni dieci anni. Darwin non sapeva quale amara satira scrivesse sugli uomini, ed in particolare sui suoi compatrioti, quando dimostrava che la libera concorrenza, la lotta per l'esistenza, che gli economisti esaltano come il più alto prodotto storico, sono lo stato normale del regno animale. Solo un'organizzazione cosciente della produzione sociale, nella quale si produce e si ripartisce secondo un piano, può sollevare gli uomini al di sopra del restante mondo animale sotto l'aspetto sociale di tanto, quanto la produzione in generale lo ha fatto per l'uomo come specie”.

2 settembre 2015