L'elemosina di Stato è diventata la nuova bandiera che accomuna pentastellati, riformisti, falsi comunisti, revisionisti, liberali, anarchici, trotzkisti
Anziché chiedere il reddito di cittadinanza lottiamo per il lavoro a tutti i disoccupati
Nessuno deve rimanere a casa senza reddito ma il lavoro deve avere la priorità
L'obiettivo strategico dev'essere il socialismo, non vivere di elemosina nel capitalismo

Sempre più frequentemente sentiamo parlare e dibattere del reddito minimo di cittadinanza. In Italia negli ultimi 30 anni il tema torna ciclicamente all'ordine del giorno, a cui seguono periodi in cui sparisce dal dibattito politico. Adesso, specialmente dopo la proposta in merito del Movimento 5 stelle, è di nuovo in auge. Come abbiamo ripetuto più volte le denominazioni sono molteplici e spesso generano confusione; a livello giornalistico viene usato quasi sempre il termine reddito di cittadinanza, più correttamente però dovremmo parlare di reddito minimo garantito perché la stragrande maggioranza delle proposte tratta di un reddito provvisorio, fornito dallo Stato, che serva a raggiungere una cifra minima vitale che permetta a chi non lavora o ha bassissime entrate di poter sopravvivere.
Una discussione che riguarda l'Italia, mentre non c'è negli stessi termini negli altri Paesi anche perché, salvo alcune eccezioni, sotto varie forme, il reddito minimo garantito esiste già. Va detto però che in tutti i paesi europei ed occidentali, che questo vi sia oppure no, è messa in discussione il sistema di “ammortizzatori sociali” vigente, il cosiddetto welfare, poiché l'attuale crisi economica capitalistica e l'aumento della disoccupazione non permettono più, dal punto di vista borghese, interventi statali di sostegno economico nelle forme e nelle quantità che abbiamo conosciuto fino adesso e ovunque si sta procedendo al suo ridimensionamento.
In Italia sembra che in molti abbiano individuato nel reddito minimo garantito la soluzione di tutti i mali e la “sinistra” borghese, e di recente in pompa magna il M5S, vuol far credere che si può andare controcorrente estendendo (ma poi vedremo che non è così) gli aiuti ai più poveri. Molti partiti, associazioni e movimenti della “sinistra” borghese stanno tentando di farne la propria bandiera, il vessillo sotto cui riunire il popolo, ma sopratutto l'elettorato di sinistra e sembrano molto preoccupati dal fatto che i pentastellati, con la loro proposta, per il momento gli abbiano strappato di mano questa bandiera.

Le proposte oggi sul tappeto
In questo momento ci sono anzitutto le proposte del M5S, SeL e PD. Il partito di Grillo propone 780 euro come reddito minimo, da versare totalmente a chi non percepisce niente, come integrazione a chi guadagna meno fino a ridurlo del tutto al raggiungimento della quota (erano 1.000 euro in campagna elettorale). A mano a mano che il nucleo familiare sale aumenta la cifra erogata ma non in misura identica: per due persone disoccupate la cifra e inferiore al doppio. Gli interessati si devono iscrivere a degli appositi centri, seguire corsi obbligatori di formazione e accettare i lavori offerti altrimenti dopo tre rifiuti cessa l'erogazione.
Poi c'è la proposta di SeL che prevede cifre un po' più basse ma con molte analogie a quella del partito di Grillo. Differenza sostanziale la non gradualità, ossia la cifra fissa, pari a 600 euro, per tutti coloro che hanno un reddito inferiore ai 7.200 euro l'anno, con varie modulazioni a seconda delle persone a carico. Infine quella del PD che tra tutte è quella più bassa e che prevede il minor onere per lo Stato. Vari parlamentari del partito del nuovo duce Renzi hanno presentato più di una proposta ma tutte girano intorno alla cifra di 500 euro a persona, alcune propongono variazioni regionali, è obbligatorio seguire corsi di formazione e accettare eventuali lavori proposti.
Come abbiamo visto le risorse nel campo del welfare vengono ridimensionate ovunque e allora tutti quelli che propongono il reddito minimo mettono subito le mani avanti assicurando che questo sarà uno strumento per raggiungere coloro che rimangono sprovvisti di qualsiasi sostegno economico, un ampliamento dell'intervento statale a favore dei più bisognosi, che non cancella altri “ammortizzatori sociali” esistenti. Poi però si ascoltano dichiarazioni esattamente contrarie come quelle di Grillo al GR1: "La cassa integrazione è un orpello inventato dalla famiglia Agnelli negli anni '70. E per me non è neanche costituzionale”. Su come reperire i fondi per il reddito di cittadinanza, ha precisato: "Con una riforma fiscale, togliendo tutte le tasse dal lavoro, via l'Inps, via tutti questi ammortizzatori sociali".
Al di là delle proposte contingenti esiste un ampio schieramento che va dai 5 stelle, al PD (con molte differenze interne al partito), al PRC, fino a sigle che si rifanno all'anarcosindacalismo, la Cgil, e una miriade di associazioni, partiti e movimenti come Libera di don Ciotti e leader sindacali come Maurizio Landini. Possiamo dire che tutto quelli che si pongono a sinistra del PD, salvo rare eccezioni, sono favorevoli. Esistono anche associazioni sovranazionali di cui fa parte il BIN (basic income network) Italia, più propenso però al reddito di cittadinanza universale, cioè dato a tutti indistintamente. Tutti presentano il reddito di cittadinanza/reddito minimo garantito come un fattore di giustizia e uguaglianza, qualcuno addirittura lo propaganda come un mezzo per liberare l'uomo dalla necessità di lavorare e perfino dallo sfruttamento. Non mancano tuttavia sostenitori nel campo della destra politica ed economica anzi, come vedremo più avanti, tra i primi a proporre misure di aiuto ai più poveri ci sono proprio dei liberisti e dei reazionari.

Un po' di storia
In questo articolo non c'interessa entrare nel dettaglio delle proposte sul tappeto, ma piuttosto riflettere, ragionare più in generale e spiegare perché il reddito minimo non convince affatto noi marxisti-leninisti. E' utile quindi fare dei cenni storici per avere un quadro più ampio e andare oltre la demagogia dei partiti e dei politicanti borghesi e falsi comunisti. Anzitutto partendo da un presupposto: il reddito di cittadinanza o il reddito minimo garantito sono congeniali al capitalismo, sono nati per difenderlo e perpetuarlo e non per limitarlo, tanto meno per abbatterlo. I primi provvedimenti in questo senso non sono nati da rivolte popolari o dalle lotte del proletariato che cominciava a formarsi, le prime leggi sono state fatte dai governi e dai monarchi. Possiamo affermare che queste forme di “sostegno” sono nate contemporaneamente al capitalismo stesso.
Non a caso le prime esperienze sono tutte riconducibili all'Inghilterra, il Paese dove il sistema capitalistico si è sviluppato per primo e dove per molti anni è stato quello più avanzato rispetto al resto del mondo. Le poor laws (le leggi per i poveri), che inizialmente tolsero l'assistenza dei poveri e dei mendicanti alla chiesa risalgono addirittura al XVI secolo. Nell'800, con lo sviluppo del capitalismo e la concentrazione dei terreni un tempo comuni nelle mani della borghesia mercantile, i contadini si ritrovarono senza pascoli e cominciarono a lavorare nella nascente industria ma gli esclusi e i più poveri si ritrovarono a morire di fame. Lo Stato allora emanò le new poor laws per evitare tumulti e ribellioni, un provvedimento che però costrinse i più bisognosi a una specie di lavoro forzato in apposite strutture in cambio di un pezzo di pane.
Venendo a tempi più recenti, sempre nel Regno Unito i liberali, nel 1942, formularono la proposta di un reddito minimo. Furono però i laburisti ad introdurlo intorno al 1950; da allora, uno dopo l’altro, la maggior parte dei paesi europei occidentali hanno adottato questo sistema, indipendentemente dall'orientamento politico del singolo governo, a dimostrare che il reddito minimo non è a priori di destra o di sinistra. Non bisogna dimenticare che uno dei fautori di questo sistema è stato l'economista ultraliberista americano Milton Friedman, ispiratore di politici reazionari come Reagan e la Thatcher. Il suo schema si basava sulla tassazione negativa, che a un certo punto, quando il reddito arrivava sotto una certa soglia, anziché togliere doveva dare un sussidio di povertà.
Negli Stati Uniti negli anni '60 i governi, sia repubblicani che democratici, erano intenzionati a istituire un reddito di cittadinanza, più vicino di tutti ci andò la presidenza Johnson. Poi l'operazione non andò in porto, comunque negli Usa esistono vari sussidi di povertà, sia del governo federale che dei singoli Stati. Nelle varie commissioni sul tema che furono istituite negli Usa in quegli anni vi erano liberisti come il già citato Friedman e socialdemocratici keynesiani come James Tobin (quello della Tobin tax sulle transazioni), ulteriore dimostrazione di come il tema sia appannaggio di differenti correnti del pensiero economico borghese.

Il movimento operaio e il reddito di cittadinanza
Il movimento operaio invece, in specie quello italiano, ma anche di altri paesi, non ha mai basato le sue lotte sull'ottenimento del reddito di cittadinanza. Lo stesso PCI, pur con la sua dirigenza revisionista e opportunista, così come la Cgil, hanno sempre puntato ad ottenere migliori condizioni per chi lavorava e un'occupazione degna per chi era senza lavoro.
Bruno Trentin, che fu segretario della Cgil, ancora negli anni '80, rifiutava il reddito di base garantito uguale per tutti perché, a suo dire, non teneva conto dei diversi bisogni e delle diverse difficoltà e contrappone al “diritto universale al reddito di base... il diritto concreto al lavoro”. In un'intervista affermava che “il lavoro rappresenta un fatto identitario primario, certamente non il solo, ma certamente il primo”. La stessa Fiom, e ci riferiamo a tempi recentissimi, non è tutta appiattita sul reddito minimo. Lo è sopratutto il suo segretario Landini che ultimamente sta insistendo su questo cavallo di battaglia, riconoscendo però che negli anni passati anche lui era contrario a un reddito sganciato completamente dal lavoro. Nonostante questo la Fiom lombarda, nel 2015, si è detta contraria al reddito di cittadinanza proposto dal governatore regionale fascioleghista Roberto Maroni per la Lombardia esprimendosi così: “combattere la povertà è un’emergenza, ma a nostro giudizio le risorse europee debbono essere destinate alla creazione di lavoro, come cardine per sconfiggere l’esclusione e l’emarginazione sociale di chi oggi è povero”.
Il PCI revisionista ha sempre considerato il reddito di cittadinanza come un sussidio di povertà, un diversivo per eludere il diritto al lavoro, alla dignità, in cambio di un'elemosina. Lo ha iniziato a far suo quando è passato armi e bagagli nel campo della borghesia accettando in toto il sistema capitalista. Da quel momento in poi ha cessato di contrastarlo, seppur da una visione riformista, preferendo addolcirlo per meglio farlo accettare alla masse, e allora il reddito minimo ha iniziato a far parte del proprio bagaglio politico.

Tante varianti, tutte borghesi
Abbiamo visto chiaramente che la proposta del reddito di cittadinanza non proviene dal movimento operaio e comunista, bensì dalle correnti socialdemocratiche e liberiste borghesi, che lo motivano diversamente ma che alla fine del giro convergono e producono la stessa cosa: un sussidio di povertà che tenga buone le masse più bisognose, un antidoto contro eventuali ribellioni.
I liberisti si rifanno al loro vangelo: il mercato sia la regola sacra che sistema tutto. Quindi prevedono uno Stato che garantisca il sistema ma che intervenga il meno possibile nella società, che lasci l'istruzione, la sanità, i trasporti, e quant'altro il più possibile nelle mani dei privati che devono avere piena libertà di sfruttare il lavoro altrui, senza tante restrizioni. Chi ha successo si arricchisce, gli altri sopravvivono ma, siccome sono buoni, si prevede anche l'elemosina per i più poveri ai quali si deve assicurare un pezzo di pane e il minimo indispensabile per tirare a campare. Un sistema che già si sperimenta in diversi Paesi anglosassoni.
La “sinistra” borghese invece lo giustifica come una misura necessaria a ridurre le diseguaglianze, un sistema per dare dignità a chi è senza lavoro e combattere i fenomeni legati alla mancanza di reddito e di chi vive ai margini della società come degrado e criminalità. Una misura di riscatto che consente a tutti di sentirsi parte integrante della società (che rimane borghese) e magari permettere a chi svolge lavoretti precari d'integrare il reddito. Motivazioni fatte proprie anche da organizzazioni come “San Precario” le quali, anziché lottare per l'abolizione del precariato, che in qualche modo cercano di rappresentare, chiedono una misura che in fondo serve a giustificarlo.
Tutte e due le varianti però convergono sulla flexicurity o flessicurezza, una brutta parola che unisce i due concetti di flessibilità/sicurezza. Il che significa che le correnti di destra e di “sinistra” borghesi propugnano la totale flessibilità del rapporto di lavoro, ovvero grande libertà di licenziamento che possa permettere massima competitività al capitalista. Questo comporta che il lavoratore, con un impiego perennemente precario, si debba dotare almeno di un paracadute, una “sicurezza” (per modo di dire) rappresentata appunto dal reddito minimo garantito. Una convergenza politica a favore dei capitalisti e contro i lavoratori e le masse popolari che vediamo attuare in egual misura da Berlusconi a Renzi, da Sarkozy a Hollande, da Blair a Cameron.
Esistono altre varianti accanto alle due tradizionali, che potremmo definire della teoria della “fine del lavoro” e della “liberazione dal lavoro”, particolarmente subdole. I suoi sostenitori provengono generalmente dal liberalismo, dall'anarchismo-individualista, ma ci sono anche i trotzkisti, e in Italia annovera “pensatori” come l'ex terrorista Toni Negri. Costoro sostengono che l'automazione e l'informatica riducono gli occupati a una sezione molto limitata della società, sia come numero che come importanza, di conseguenza serve un reddito universale che assicuri l'esistenza a tutti. Nessuno nega le profonde trasformazioni tecnologiche ma teorizzare una presunta scomparsa del lavoro ci sembra veramente fuori dalla realtà. Tanto che gli occupati, anche quelli dell'industria, globalmente nel mondo sono aumentati, e sopratutto non sono cambiati i rapporti sociali, ovvero i capitalisti sfruttano i lavoratori.
Altra tesi farlocca è quella che teorizza la “liberazione dal lavoro”, ossia una presunta liberazione che il reddito di cittadinanza porterebbe rispetto all'obbligo di dover lavorare per campare. Uno dei suoi massimi esponenti è il professore belga Van Parijs. Per costui il reddito di cittadinanza (che lui chiama “basic income”) è un ottimo strumento per consentire la realizzazione della società massimamente libera; il reddito di cittadinanza contribuisce a, ed è anzi decisivo, per aumentare la libertà dei membri di questa società. Van Parijs suggerisce che potremmo decidere se lavorare oppure, campando modestamente con il reddito di cittadinanza, essere liberi di leggere, dipingere, fare surf o quello che ci pare.
Addirittura alcuni esponenti di queste correnti citano a sproposito Marx, dimenticando che il grande Maestro del proletariato internazionale parlava di liberarsi dal lavoro salariato nel capitalismo e non dal lavoro in generale che invece nel socialismo avrebbe un carattere sociale e collettivo avente lo scopo di migliorare la vita degli esseri umani e non quella di generare profitto. Ma poi in questa società “libera” dall'obbligo del lavoro e con un numero ristrettissimo di salariati, chi dovrebbe tirare fuori i soldi per erogare il reddito di cittadinanza alla maggioranza di cittadini che non lavora? Chi è che genera ricchezza? Cade dal cielo? Non è dato sapere.

Il reddito di cittadinanza è congeniale al capitalismo
Tutte queste teorizzazioni non ci convincono per niente, a partire da quelle più fantasiose, che vorrebbero attribuire al reddito di cittadinanza addirittura la capacità di mettere in discussione il sistema capitalistico. Lo stesso vale per le altre perché tutte danno per scontato che si debba accettare il sistema esistente e cercano invano dei rimedi che attenuino i disastri che esso causa. Tanti si giustificano tirando in ballo ancora Marx, che ci ha spiegato che il capitale alimenta incessantemente la disoccupazione e si avvalgono dei disoccupati per abbassare i salari e i diritti dei lavoratori. Sappiamo benissimo che il capitalismo non può assicurare il lavoro a tutti e anche per questo pensiamo che occorre abbatterlo e realizzare il socialismo anziché cercare inutilmente di riformarlo. Ma il capitalismo non può assicurare neanche un salario e una vita dignitosa per tutti, come sostengono i fautori del reddito di cittadinanza.
Usare gli effetti della crisi capitalistica, come ad esempio il dilagare della disoccupazione, per puntare tutto sul reddito minimo ci sembra una giustificazione bella e buona per accettare il sistema capitalistico e la società borghese, una rinuncia alla lotta per il socialismo, per un lavoro stabile per tutti, per servizi sociali e previdenziali universali, per scuola, sanità e trasporti pubblici gratuiti o a basso costo per tutti. Alla fine il reddito di cittadinanza è proprio congeniale alla fase in cui si trova adesso il capitalismo che ha abbandonato da tempo qualsiasi velleità riformista e di redistribuzione della ricchezza, seppur delle briciole, e ha mostrato la faccia neoliberista, di attacco frontale ai redditi e ai diritti dei lavoratori, delle disuguaglianze sempre maggiori tra ricchi e poveri.
Lavoratori supersfruttati, flessibili, precari e senza diritti, neanche quello di scioperare, licenziabili in qualsiasi momento, servizi individuali a pagamento tramite assicurazioni private, a cui fanno da corollario milioni di disoccupati, ai quali bisogna assicurare un minimo vitale di sopravvivenza. In molti paesi europei il reddito minimo è stato introdotto proprio per facilitare i licenziamenti. Uno scenario che oramai si va delineando anche in Italia dove liberismo, precariato e reddito di cittadinanza non sono in contraddizione tra di loro ma invece si andrebbero a integrare benissimo.

Effetti pratici discutibili
La nostra critica è anzitutto di principio. Il reddito di cittadinanza non solo non mette in discussione il sistema capitalistico, ma non intacca nemmeno il precariato e anziché indirizzare la lotta verso il lavoro la indirizza verso una elemosina di Stato che qualcuno ha chiamato significativamente “salario della gleba”, ma non ci convincono neppure le implicazioni pratiche e più immediate. Alcuni suoi sostenitori obiettano che si parla bene se si è a pancia piena, ma per quanti non hanno un lavoro, non sanno come pagare l'affitto e le bollette, avere un reddito di 6/700 euro, o di 1.500 per un nucleo familiare più grande, sarebbe un gran sollievo.
Appare davvero strano che in un momento di tagli alla spesa sociale, pareggio in bilancio, patti di stabilità che impediscono di utilizzare anche le risorse disponibili, si possa ottenere un reddito che non sia poco più di una mancia. Lo Stato borghese non assicura più nemmeno i servizi di pubblica utilità più urgenti (uno per tutti il diritto alla salute), figuriamoci se ha intenzione di dare una vita dignitosa al popolo. Semmai il reddito di cittadinanza è visto come un riordino e una riduzione complessiva del welfare con l'obiettivo di tagliare gli interventi statali.
La Francia, uno dei paesi più “generosi” su questo tema, eroga una cifra sotto i 500 euro. In Germania, con la controriforma del lavoro Hertz (molto simile al nostrano Jobs Act), accanto al sussidio di 480 euro c'è la clausola di accettare qualsiasi lavoro, anche pagato meno dello stesso sussidio, e già iniziano le proteste dei lavoratori. E stiamo parlando dei due paesi più ricchi della UE. Anziché liberare i disoccupati dall'accettare lavori malpagati, si crea la situazione opposta: si diventa ostaggi del reddito e per non perderlo si accetta di tutto. Una specie di ritorno alle poor laws , dove i poveri dovevano sottostare ai lavori forzati per avere un pezzo di pane.
Il reddito di cittadinanza di per sé è universale ma anche le altre proposte sono molto farraginose e si potrebbe finire per dare il reddito minimo anche allo studente universitario figlio di papà, oppure darlo a imprenditori che denunciano redditi inferiori ai loro dipendenti perché non pagano le tasse, cosa molto frequente in Italia dove l'evasione è a livelli altissimi. Insomma, non riteniamo assolutamente che il reddito di cittadinanza sia la panacea di tutti i mali. Ci sono altri metodi ben più validi per contrastare il capitalismo: riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore settimanali, tornare a 35 anni di contributi per ottenere la pensione, case popolari gratuite o a prezzi politici per tutti quelli che ne hanno necessità, eliminare subito il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego e assumere massicciamente lavoratori partendo dalle emergenze del sistema sanitario e scolastico, del dissesto idrogeologico e del patrimonio edilizio pubblico e culturale del nostro Paese. Basterebbero queste poche cose, che sicuramente non avvicinerebbero al socialismo ma sarebbero molto più efficaci nel combattere la povertà e la disoccupazione rispetto al reddito di cittadinanza o reddito minimo che dir si voglia.

La linea del PMLI
Questo non significa che non si debba sostenere chi non ha un reddito, tutt'altro. Ma non si devono togliere, bensì ampliare, strumenti che già ci sono come la cassa integrazione, l'assegno di disoccupazione (ora Naspi), assegni e detrazioni familiari, la mobilità, la sanità pubblica. Dobbiamo rivendicare lavoro per tutti i disoccupati e i lavoratori stabile, a salario intero, a tempo pieno e sindacalmente tutelato, e questo comporta di conseguenza una dura lotta contro i vari governi borghesi, contro il neoliberismo economico, il federalismo, le privatizzazioni, il disimpegno dello Stato dal sociale.
In seconda battuta, e solo in seconda battuta, chiediamo una indennità di disoccupazione pari al salario medio degli operai dell'industria per un periodo non inferiore a tre anni. Indennità che dev'essere estesa anche ai giovani in cerca di prima occupazione. Così come chiediamo per le casalinghe senza reddito la pensione sociale. Quindi noi vogliamo che nessuno resti a casa senza salario, quello che contestiamo è che questo reddito di cittadinanza non può rappresentare la bussola che orienta i marxisti-leninisti, chi si richiama al comunismo, i lavoratori e i progressisti in generale.
Non crediamo neppure che sia corretto staccare del tutto un “salario sociale” dalla condizione di lavoratore/disoccupato, non è la stessa cosa avere un salario per un lavoro o un sussidio perché si è poveri. Un lavoro, seppur nelle condizioni del capitalismo, da comunque dignità e consapevolezza dei propri diritti, mentre il reddito di cittadinanza rende succubi e umilia chi deve campare con l'elemosina di Stato. I suoi sostenitori invece spargono illusioni a destra e a manca dipingendo il reddito di cittadinanza come la misura che ci salverà dalla povertà e dalla disoccupazione, che libera l'individuo dal bisogno, o più semplicemente che possa unificare gli sfruttati per un obiettivo comune.
Tutte cose che non stanno né in cielo né in terra, dove gioca un ruolo non secondario il fattore elettorale. Puntare sul reddito di cittadinanza può portare molti voti, magari dai più poveri che, maggiormente massacrati dalla crisi, sono i più disposti ad aggrapparsi alle promesse di aiuto economico. Ma in questo modo si distolgono le masse dal vero obiettivo che noi riteniamo debba essere la lotta contro il capitalismo e per il socialismo. Solo dopo aver abbattuto violentemente con la rivoluzione il vecchio sistema e dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato si potrà efficacemente combattere la povertà, le disuguaglianze ed eliminare la disoccupazione, non lo farà di sicuro, neanche parzialmente, il reddito di cittadinanza.

16 settembre 2015