Direttamente in aula il disegno di legge Renzi-Boschi che fa a pezzi la Costituzione del '48
Il nuovo duce Renzi impone la sua volontà sulla controriforma del Senato
Mattarella lascia correre. La sinistra PD non si oppone. Caccia aperta ai voti della destra

Il 16 settembre, con l'ennesima forzatura parlamentare, il nuovo duce Renzi ha accelerato al massimo i tempi dell'approvazione del Disegno di legge costituzionale di controriforma del Senato, facendo saltare la discussione del provvedimento nella commissione Affari costituzionali del Senato e imponendone la presentazione diretta in aula, con l'obiettivo di arrivare al voto finale (il terzo dei quattro richiesti dalla procedura prevista dall'articolo 138 per le modifiche costituzionali) entro il 15 ottobre.
Ad attuare la forzatura per conto di Renzi (con grande disappunto del presidente del Senato Grasso, che però poi ha finito per avallarla) è stata la stessa presidente della commissione, senatrice Anna Finocchiaro, ex dalemiana e ora renziana di ferro nonché “madrina” della ministra Boschi, insieme alla quale ha scritto questo ddl piduista che fa a pezzi la Costituzione del '48 abolendo il bicameralismo perfetto, riducendo il Senato a una camera di nominati scelti tra neopodestà e consiglieri regionali, e cambiando di fatto la forma di governo introducendo surrettiziamente il premierato, che è una forma del presidenzialismo auspicato nel piano di Gelli.
Le scuse addotte dalla Finocchiaro erano la montagna di emendamenti presentati dal leghista Calderoli e la mancanza di un accordo tra le parti che rendeva impossibile una discussione in Commissione, ma in realtà il vero motivo era che in questa sede i renziani non avevano i numeri sufficienti e rischiavano di vedersi rispedire il ddl alla Camera. Mentre portandolo direttamente in aula possono fare affidamento sui voti di soccorso di Verdini, dei senatori del leghista Tosi, di Gal, e in parte di Fitto, e perfino alcuni di Forza Italia: sia che questi votino direttamente il provvedimento, come hanno già fatto sapere a Lotti che conduce la campagna acquisti per Renzi, sia che escano dall'aula al momento opportuno per abbassare il quorum, magari con il tacito assenso di Berlusconi.
In questo modo Renzi - aiutato da Verdini e dall'ex presidente Napolitano, che si danno un gran d'affare in aula per rastrellare voti, il primo tra i banchi di Forza Italia e il secondo tra le file della minoranza del PD - mira a compensare e rendere preventivamente inutili quei 20-30 voti della sinistra bersaniana che gli potrebbero mancare all'atto dell'approvazione finale, se dovesse saltare l'accordo che ha offerto alla minoranza, e al quale questa, dopo la Direzione PD del 21 settembre, sembra peraltro aver abboccato.
 
I ricatti e le minacce di Renzi
D'altra parte, dopo averla votata così com'è nelle prime due letture, tutta l'“opposizione” dei bersaniani alla controriforma piduista Renzi-Boschi si riduce stringi stringi a puntare i piedi su questo: modificare l'articolo 2 del provvedimento, dove si stabilisce la non eleggibilità diretta dei nuovi senatori, bensì dai Consigli regionali e dai sindaci, per far partecipare in qualche forma gli elettori alla loro selezione. Come se, fatto questo, la controriforma costituzionale neofascista e piduista non fosse più tale ma si trasformasse nella più democratica e progressista delle “riforme”.
Ma Renzi non vuol concedere alla sua minoranza interna nemmeno questo pur minimo contentino, e, forte dell'appoggio di Mattarella, che prima gli aveva detto di andare avanti perché le “riforme” sono indispensabili al Paese, e poi non ha fiatato sulla forzatura parlamentare, proclama che l'articolo 2 è blindato e non si cambia, perché già approvato in doppia lettura conforme dalle due camere. E ribadisce di avere “i numeri” al Senato per farlo approvare con o senza i voti dei bersaniani, e che comunque se venisse bocciato cadrebbe il governo e si andrebbe subito alle elezioni anticipate.
Tanta arroganza comunque paga, visto che non solo Grasso ha finito per cedere alla forzatura della Finocchiaro (nonostante fosse caduta la scusa delle migliaia di emendamenti di Calderoli, perché nel frattempo questi li aveva ritirati in cambio del salvataggio, da parte del PD, dall'accusa di razzismo per aver dato dell'”orango” all'ex ministra Kienge), ingoiando pure il boccone della convocazione della conferenza dei capogruppo senza neanche informarlo; ma lo stesso ha fatto anche la sinistra PD, votando in aula insieme ai renziani la ratifica del minigolpe, e successivamente votando sempre compattamente anche per respingere le numerose eccezioni di incostituzionalità presentate dalle opposizioni.
 
Lo spauracchio del golpe istituzionale
Sulla strada già mezza spianata di Renzi restava però sul terreno ancora un'incognita: quella di Grasso, che continuava a tenere coperte le sue carte sull'ammissibilità o meno degli emendamenti dell'opposizione all'articolo 2, rinviando ogni decisione dopo averli visionati quando saranno presentati il 23 settembre. Su questo punto il nuovo duce ha fatto fuoco e fiamme, non risparmiando a Grasso né ricatti né minacce per costringerlo a dichiarare subito l'intangibilità dell'articolo 2. Come quando ha minacciato che avrebbe avuto voglia di chiudere il Senato e trasformare Palazzo madama in un “museo”: una minaccia volutamente assonante con il parlamento da trasformare in “bivacco di manipoli” di Mussolini, il parlamento “parco buoi” di Craxi e i senatori “tacchini” di Berlusconi; che poi il nuovo duce si è affrettato a smentire di aver mai pronunciato, ma che invece Grasso ha recepito perfettamente, tanto da farvi un chiaro quanto sdegnato riferimento in un convegno.
Ma la minaccia più diretta e pesante a Grasso, Renzi l'ha fatta in diretta streaming nel discorso alla Direzione del PD del 21, quando dopo aver incominciato col dire che “il presidente del Senato ha lasciato intendere che potrebbe riaprire alla modifica di una norma già approvata con la doppia conforme”, facendo una delle sue pause istrioniche più lunga e studiata del solito, ha aggiunto: “Nel qual caso, se apre su questo, credo che sarà opportuno convocare una riunione di Camera e Senato, trattandosi di un fatto che avrebbe le caratteristiche dell'inedito”.
Una minaccia inaudita, che agita addirittura lo spauracchio di un golpe istituzionale del governo contro il parlamento e il suo presidente, qualora le sue decisioni non siano gradite all'esecutivo, tant'è vero che Grasso gli ha ricordato che a norma di Costituzione “nemmeno in caso di guerra Camera e Senato vengono convocate in seduta comune”. Eppure anche stavolta il nuovo duce se l'è cavata con una smentita bugiarda delle sue (sostenendo contro l'evidenza della registrazione di aver parlato di convocazione “dei gruppi parlamentari PD” di Camera e Senato), visto che Mattarella se n'è stato zitto anche stavolta, e Grasso ha fatto finta di credere alla ridicola smentita. Anzi, probabilmente la minaccia ha funzionato, visto che subito dopo il presidente del Senato ha messo la “tagliola” al dibattito dimezzando i tempi di intervento per sveltire la discussione del provvedimento. Al momento in cui scriviamo resta ancora da vedere cosa farà quando avrà sul tavolo gli emendamenti, ma la premessa autorizza i peggiori sospetti.
 
La (ri)capitolazione della sinistra PD
Quanto alla sinistra, che come al solito non ha avuto neanche il coraggio di votargli contro in Direzione, (Bersani non si è nemmeno presentato con la scusa di un intervento alla festa dell'Unità di Modena), Renzi l'ha neutralizzata blandendola e strapazzandola più del solito con la tecnica del bastone e della carota. Il bastone, rispondendo “con una risata” alla sinistra che “parla di svolta autoritaria”, e ammonendola che se uscisse dal PD farebbe la fine degli scissionisti di Syriza, che non sono nemmeno entrati in parlamento (“chi di scissione ferisce di elezioni perisce”). E la carota, facendo balenare una fumosa soluzione di compromesso basata sulla legge Tatarella per le regionali del '95, con la quale i candidati sarebbero eletti dai cittadini e poi ratificati dai Consigli.
Una proposta assai oscura, che comunque non andrebbe a modificare l'articolo 2 (e che invece Bersani e gli altri spergiuravano di considerare una condizione “irrinunciabile”), ma verrebbe demandata ad una legge ordinaria successiva tutta da definire. Eppure tanto è bastato alla minoranza per smettere di abbaiare e cominciare a scodinzolare, ritenendola evidentemente un osso sufficiente per uscire dall'angolo salvando in qualche modo la faccia. Anche perché se il confronto coi renziani si prolunga e si fa più duro non è sicura di non perdere altri pezzi per strada, mentre il premier si mostra ogni giorno più sicuro di avere i “numeri”, grazie alla campagna acquisti di Lotti, Verdini e Napolitano: “Mi pare che Renzi abbia fatto un'apertura significativa – si è affrettato a rispondere infatti Bersani – e io voglio essere chiaro ancora una volta: se si intende, come mi pare di avere capito, che gli elettori decidono, scelgono i senatori e i Consigli regionali ratificano, ne prendono atto, allora va bene, sono d'accordo.... se è così si può andare avanti senza bisogno di Verdini”.
Evidentemente non aveva sentito (o ha fatto finta di non sentire), le precisazioni che Renzi ha fatto dopo la Direzione, dopo aver incassato le “aperture” della sinistra alla sua proposta: “Ma io ho confermato i miei principi: quelli sui tempi perché la riforma va votata entro il 15 ottobre, e quelli su come si votano i senatori. L'elezione rimarrà indiretta, non c'è nessuna elettività”, ha sentenziato gongolante il nuovo duce.
 
 

23 settembre 2015