Il governo Renzi svende il patrimonio pubblico per fare cassa
Renzi privatizza le poste
I pescecani capitalisti faranno affari d'oro a danno delle masse

 
Con la collocazione in Borsa del 40% del gruppo Poste italiane, fino a questo momento controllato al 100% dal Tesoro, il governo Renzi mette a segno un altro colpo nella direzione della svendita ai privati e al mercato una quota importante, in previsione di una prossima cessione totale, della principale azienda di stato. Il gruppo Poste italiane, occorre tenerlo ben presente per valutare le reali conseguenze della sua collocazione in Borsa alla mercé degli speculatori e dei pescecani capitalisti, gestisce attualmente, per il tramite della Cassa depositi e prestiti, la stratosferica cifra di circa 363 miliardi di euro. Questo enorme capitale risulta suddiviso tra il risparmio postale, per un totale di 318 miliardi di euro (libretti postali e buoni fruttiferi postali) e conti correnti postali, per 45 miliardi di euro suddivisi in più di 6 milioni di conti correnti. Questi immensi capitali sono nella quasi totalità dei casi rappresentati dalla somma di tanti piccoli risparmi, soprattutto delle masse popolari. Il deposito medio di un conto corrente postale si aggira tra i 5000 e i 10000 euro. Importo analogo per i libretti postali, utilizzati dai pensionati per l'accredito della pensione e la gestione del risparmio, e per i buoni fruttiferi postali, spesso di un “taglio” di importo ancora più ridotto. Con la cessione ai privati del 40% del gruppo, e con la sua immediata quotazione in Borsa, quello che il neoduce Renzi si appresta a fare è insomma cedere alla speculazione internazionale il risparmio delle masse popolari.

Da azienda di stato ad azienda speculativa privata
Le Poste italiane nascono nel 1862, all'indomani dell'unità d'Italia. Inizialmente i servizi erano strettamente limitati alla consegna dei pacchi e della corrispondenza, molto limitati causa il livello di isolamento dei paesi ed il bassissimo tasso di alfabetizzazione delle masse popolari. A cavallo tra le due guerre mondiali imperialiste le Poste italiane crebbero di importanza, anche nell'ottica di strumento al servizio dello Stato, liberale prima e fascista poi, per il controllo delle masse popolari per il tramite della censura e delle comunicazioni di regime. Al pari delle caserme dei regi carabinieri, delle prefetture e delle case del fascio gli uffici postali divennero dei centri di presenza dello Stato sul territorio e punti nevralgici, spesso unici, per le comunicazioni.
Dopo il secondo conflitto mondiale le Poste crebbero nel valore delle operazioni finanziarie. Le masse popolari sfruttate videro nelle Poste, rappresentate agli occhi dei lavoratori dal piccolo ufficio postale vicino a casa, il luogo ove mettere al sicuro i propri risparmi garantendo loro un minimo di rendimento. Con un servizio bancario ancora poco diffuso e scarsamente presente sul territorio, soprattutto nei piccoli comuni, gli uffici postali divennero il centro privilegiato per la raccolta del risparmio delle masse. Tanti piccoli risparmi che, sommati tra loro, hanno reso le Poste il primo gruppo finanziario reale (inteso anche e soprattutto in termini di concreta liquidità) del Paese. Lo stato borghese, fiutando l'affare, ha nel corso degli anni sempre più implementato i servizi legati al risparmio e alla finanza, non da ultimo deputando alle Poste quasi tutti i pagamenti e le riscossioni con le amministrazioni pubbliche. Sempre più trascurate nel loro servizio di base, quello della consegna delle corrispondenza, le Poste sono state usate dai partiti borghesi come un'area privilegiata di sottogoverno per incrementare il consenso elettorale attraverso mirate concessioni di prestiti ed assunzioni clientelari. Le enormi risorse delle Poste, nella quasi totalità risparmi capitalizzati e vincolati per lunghi periodi garantivano il ladrocinio dei vari partiti borghesi e il finanziamento di aree economiche e finanziarie molto influenti ai fini elettorali.
In crescente disavanzo economico, causa la loro spregiudicata gestione, le Poste finirono all'ordine del giorno nei piani di privatizzazione delle aziende di stato degli anni '90. Con il decreto legge n. 487 del dicembre 1993 le Poste vennero trasformate da azienda autonoma di stato ad ente pubblico economico (ancora regolato da norme di legge ma con un accentuato grado di autonomia finanziaria, patrimoniale ed amministrativo-contabile e con personalità giuridica, patrimonio, organi di gestione e bilanci propri) per poi trasformarsi, nel febbraio del 1998, in una società per azioni: Poste italiane S.p.a. Divenuta una vera e propria società, i cui capitali erano ancora interamente di proprietà dello stato borghese, il gruppo Poste italiane ha subito ripetute radicali trasformazioni con i governi della destra e della “sinistra” borghese che si sono succeduti dalla seconda metà degli anni '90. Al pari di una qualsiasi impresa capitalistica orientata alla realizzazione del profitto il gruppo Poste italiane ha iniziato a spremere fino all'ultima goccia di sangue i propri dipendenti con la progressiva precarizzazione dei contratti, con tagli di personale e con prepensionamenti. Allo stesso tempo il gruppo, a fronte di un progressivo peggioramento del poco redditizio servizio di consegna della corrispondenza, ha iniziato a propinare alle masse speculativi e rischiosissimi prodotti finanziari, al pari di una qualsiasi società finanziaria.

Renzi getta le Poste nella speculazioni di Borsa
La definitiva privatizzazione del gruppo Poste italiane S.p.a. prende avvio nel gennaio 2014 con l'approvazione, da parte dell'allora governo Letta, del decreto sulle privatizzazioni. Il governo decide di vendere ben il 40% delle Poste e le sue intenzioni sono chiare e non lasciano adito a dubbi. Il 40% del gruppo da mettere sul mercato non è che un primo passo, preludio di successive selvagge privatizzazioni, nella progressiva alienazione del patrimonio statale. L'allora ministro dell'economia Saccomanni non ha davvero cercato di nascondere l'obiettivo del governo di svendere il patrimonio dello Stato e di gettarlo nelle fauci dei pescecani capitalisti allo scopo di fare cassa: “Abbiamo deciso di avviare un nuovo processo di privatizzazioni – dichiarava - iniziando con una quota del 40% delle Poste. Vedremo poi con quali provvedimenti proseguire nel solco di questo avvio”. La sostituzione, nel febbraio del 2014, di Letta con il neoduce Renzi non ha cambiato nulla nel processo in corso. La borghesia in camicia nera ha cambiato il proprio cavallo da corsa, scommettendo sul nuovo Mussolini Renzi, e lo ha fatto per accelerare il suo nero disegno di piena realizzazione della seconda repubblica neofascista e piduista. Il 16 maggio 2014 il Consiglio dei ministri targato Renzi ha ratificato il processo di vendita di parte del gruppo sul mercato. Il Cda del gruppo, dopo avere svolto tutte le procedure per la collocazione in Borsa, nel luglio scorso ha presentato alla Borsa italiana la domanda di ammissione alla quotazione delle azioni della società sul mercato telematico azionario, e alla Consob ha richiesto l'autorizzazione per la pubblicazione del prospetto informativo relativo all’offerta pubblica di vendita. E' molto interessante notare come, mentre i servizi postali peggiorino di giorno in giorno con i tempi e le modalità di consegna della corrispondenza sempre più lenti ed inefficienti, quando si tratta invece di lucrare sulle operazioni finanziarie ecco che Poste italiane S.p.a. si scopre una azienda efficientissima. La tempistica legata alla sua quotazione in Borsa è stata rispettata alla lettera senza cumulare neppure un giorno di ritardo! Renzi e il Tesoro contano di incassare 4 miliardi dalla vendita. Inutile precisare che l'operazione nel suo insieme non è stata a costo zero, anzi, come al solito, a pagare sono state le masse popolari. Proprio in concomitanza alla collocazione in Borsa del gruppo (forse per rendere più appetibili le sue azioni?) nello scorso agosto, il costo per i bollettini postali pagati allo sportello è aumentato di 20 centesimi determinando per i soli bollettini postali tradizionali un incremento di costo pari al 15%!

Le conseguenze per le masse popolari
Fin dalla ratifica, nel maggio del 2014, della vendita del 40% del gruppo sul mercato, Renzi si è profuso in una serie di dichiarazioni volte a rassicurare l'opinione pubblica sugli effetti dell'operazione. Con le sue proverbiali demagogia e sfacciataggine ha in più sedi dichiarato: “(…) la pubblica vendita delle azioni sarà prioritariamente rivolta al pubblico dei risparmiatori e dei dipendenti del gruppo Poste italiane. Saranno a questo riguardo garantite forme di incentivazione per l'acquisto delle azioni Poste in vendita.” Un disegno, neppure troppo velato, di stampo neo-corporativo: dare loro l'illusione di essere co-azionisti del gruppo propagandando una sorta di azionariato popolare di dipendenti e risparmiatori. La realtà, lo sappiamo bene, è assolutamente diversa: attirare i piccoli risparmiatori in investimenti societari permettendo così ai grandi azionisti di controllare la società con delle esigue maggioranze relative e quindi senza nemmeno l'onere di possederla. Il controllo da parte di holding finanziarie e di privati del primo 40% del gruppo, il governo non ha escluso una futura collocazione sul mercato anche delle quote restanti, potrebbe avere conseguenze disastrose per le masse popolari. La normativa attuale prevede che solo fino al 2016, con possibilità di proroga fino al 2026, la società è tenuta ad erogare il cosiddetto "servizio universale", ovvero è tenuta a fornire alcuni servizi essenziali come la consegna di lettere e di pacchi, ad un prezzo controllato. Nell'immediato futuro (poco più di un anno!) esiste la concreta possibilità che le Poste, oramai finanziario, abbandonino il proprio ruolo dedicandosi ancor di più ad attività più lucrative. L’interesse degli azionisti delle Poste sarà infatti legato al suo servizio finanziario e alla sua capacità di raccogliere e gestire in modo remunerativo i suoi enormi capitali mentre le ben meno remunerative attività legate alla consegna della corrispondenza e alla distribuzione degli uffici postali nei piccoli centri inevitabilmente subiranno tagli sostanziosi. L'andamento del titolo sul mercato, al pari di ogni società quotata in Borsa, renderà infatti inevitabili altri tagli dei segmenti non “produttivi”, ovvero la drastica riduzione degli sportelli nei comuni e nelle aree poco popolate, il tutto, inutile dirlo, con un aumento delle tariffe a “prezzo di mercato”. Poste italiane è ad oggi un’azienda che macina utili sostanziosi, circa 425 milioni di euro nel 2014. L'operazione resta dunque doppiamente dannosa per le masse popolari e per le finanze pubbliche. La vendita in Borsa delle Poste rientra nel disegno neoliberista di privatizzazioni e di svendita del patrimonio statale sul mercato. Come programmato dal piano della P2 l'obiettivo è fare in modo che lo Stato, pur restando il capitalista collettivo, si ritiri sempre più lasciando ogni attività legata all'economia ed ai servizi nelle mani dei privati, Questi ultimi, il gioco è chiaro, devono essere liberi di sfruttare, oltre ai propri dipendenti, le masse con la drastica riduzione dell'occupazione e della qualità dei servizi.

28 ottobre 2015