Accogliendo una richiesta di Obama
L'Italia di Renzi resta in Afghanistan
Aumenteranno e combatteranno sul campo i 750 militari italiani che ora addestrano l'esercito fantoccio

“Se l'impegno americano in Afghanistan prosegue penso sia giusto anche da parte nostra proseguire col nostro impegno: stiamo ragionando sull'ipotesi di proseguire nella nostra missione”: così Renzi, parlando a Venezia il 16 ottobre, aveva prontamente risposto all'annuncio di Obama di revocare il programmato ritiro delle truppe Usa e di farle restare in Afghanistan almeno fino a tutto il 2017, accompagnato dall'analoga richiesta agli alleati della coalizione imperialista occidentale.
Il ritiro delle truppe americane era una delle promesse elettorali del presidente Usa, già disattesa alla fine del 2014, e ora nuovamente accantonata dopo la conquista di Kunduz da parte dei resistenti islamici, che ha mostrato tutta la debolezza e l'impreparazione dell'esercito afghano fantoccio. Già a dicembre scorso Obama aveva annunciato il proseguimento della missione anche nel 2015, sia pure con un contingente ridotto a 9.800 uomini e solo con compiti di addestramento delle truppe governative. Ma dopo la constatazione del fallimento di 14 anni di invasione dell'Afghanistan, certificato dal disastro di Kunduz, e ultimamente anche dai segnali della presenza dell'IS anche in quel Paese, pressato dai militari del Pentagono il capofila dell'imperialismo occidentale ha deciso che “l'impegno verso il popolo afghano prosegue”, annunciando che i soldati Usa resteranno anche nel 2016, e di questi 5.500 continueranno la missione anche nel 2017: in particolare dovranno presidiare le tre grandi basi di Bagram, Jalalabad e Kandahar. E ha rivolto un appello ai 42 Paesi alleati, tra cui l'Italia, “fiducioso che offriranno un contributo significativo di truppe nei prossimi anni”.
Da qui la pronta adesione italiana annunciata a Venezia (che in realtà Renzi aveva già promessa ad Obama in occasione della visita alla Casa Bianca a settembre), e confermata nei giorni successivi anche dal ministro degli Esteri Gentiloni e dalla ministra della Difesa Pinotti, anche se fatta più di mezze dichiarazioni stampa che di una vera e propria presa di posizione ufficiale, che tutt'ora manca. Il tentativo è quello infatti di evitare di sottoporre tale decisione all'esame del parlamento, dato che il ritiro del contingente italiano, già rinviato da Renzi fino alla fine del 2015 in accordo con la precedente richiesta di Obama, avrebbe dovuto cominciare proprio in ottobre, mentre ora si è già deciso di prolungare ulteriormente la missione: di quanto? Un anno? Due? Con quali finanziamenti, e con quanti dei 700 uomini del contingente italiano attualmente schierati a Herat, e degli altri 60 a Kabul? O addirittura con l'invio di ulteriori truppe e mezzi? E con che tipo di compiti, solo di addestramento o anche di combattimento sul campo?
 
Decisioni sopra la testa del parlamento e del Paese
Tutte questioni che sia Renzi che Gentiloni e Pinotti si guardano bene dal chiarire, mirando evidentemente a mettere come sempre il parlamento davanti al fatto compiuto, il quale dovrà solo ratificare a posteriori decisioni già prese segretamente dall'esecutivo. Rispondendo infatti il 29 ottobre alla Camera ad un'interpellanza urgente del deputato del Gruppo misto-Alternativa libera, Massimo Artini, sull'utilità per il nostro Paese di un prolungamento della missione in Afghanistan ben oltre i termini stabiliti, il sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi, è stato quantomai reticente e ambiguo, limitandosi a sentenziare che ogni decisione circa la durata, i compiti e la consistenza della missione supplementare è demandato alle “valutazioni e decisioni che saranno collegialmente prese in ambito NATO fin dai prossimi incontri”, e che “soltanto in conformità a tali valutazioni, anche l'Italia potrà meglio individuare il contributo da rendere disponibile”. Insomma, ogni decisione spetta alla NATO, al parlamento tocca solo adeguarsi e prenderne atto.
Tuttavia dall'intervento e dalla replica di Artini, che si è dichiarato insoddisfatto, alcune cose, peraltro assai inquietanti, sono emerse lo stesso. Per esempio che al contingente italiano della base di Camp Arena, che finora svolgeva solo compiti di addestramento delle truppe fantoccio (“mentoring” e “training”), toccherà adesso sostituire il contingente spagnolo (che al contrario di quello italiano si sta ritirando rispettando il programma stabilito), anche nei compiti di combattimento che questo finora copriva (“Force protection”). Questo implica non solo un mutamento del carattere della missione, ma anche un rafforzamento del contingente in uomini e mezzi: altri 530 uomini, quasi un raddoppio, secondo quanto detto da Artini, non smentito da Rossi.
E il perché lo si capisce ancor meglio da altre rivelazioni dell'interrogante, che ha fatto una descrizione assai eloquente della situazione militare nelle province in cui operano le truppe italiane: “Nella zona intorno ad Herat – ha spiegato infatti Artini - nelle due direttrici, a sud le forze talebane stanno combattendo per la conquista di Shindand, che come italiani abbiamo lasciato l'anno scorso in mano semplicemente agli americani. Nel 2014 era una delle zone in cui era ancora estremamente rischioso effettuare qualsiasi tipo di operazione. Nella parte a est, le milizie talebane stanno combattendo a Tulak, dopo aver riconquistato il 18 ottobre 2015 il distretto di Ghormach, nella provincia di Badghis, il 30 settembre il distretto di Khaki Safed, a Farah, e a maggio il distretto di Jawand, sempre nella provincia di Badghis. Le province di Herat, Badghis, Ghor e Farah rientrano tutte nell'area di competenza del nostro training, quello a comando italiano, cioè nella parte ovest”.
 
Escalation strisciante dell'interventismo italiano
Quindi, non solo le truppe italiane resteranno ancora e a tempo praticamente indeterminato in Afghanistan, non solo aumenteranno di consistenza e assumeranno compiti nettamente più offensivi, ma tutto ciò sta avvenendo nel quadro di una generale intensificazione delle operazioni belliche nella regione in cui sono dispiegate per fronteggiare l'avanzata della resistenza afgana e, in prospettiva, un'eventuale espansione dell'IS. Il che configura una netta escalation dell'intervento militare italiano, e per giunta decisa dal governo Renzi quasi di sottobanco in combutta con Obama, senza neanche degnarsi di informare adeguatamente il parlamento e il Paese. Escalation strisciante a cui si andrebbe ad aggiungere l'annunciata trasformazione delle missioni di ricognizione dei Tornado italiani in Iraq in vere e proprie missioni di bombardamento contro lo Stato islamico.
Tanta solerzia del nuovo duce Renzi nel compiacere il capofila dell'imperialismo occidentale Obama, accettando un'escalation dell'impegno militare italiano in Afghanistan e in Iraq, mira evidentemente ad ottenere come contropartita la copertura internazionale all'agognata missione militare neocolonialista e imperialista a guida italiana in Libia. E tutto ciò non può che aumentare il rischio di trascinare il nostro popolo, senza che possa rendersene conto, verso un altro conflitto mondiale imperialista, i cui fattori scatenanti si vanno sempre più addensando sulla scena internazionale.

4 novembre 2015