Conferenza Onu di Parigi sulle emissioni di gas serra e sul clima, sponsorizzata da banche, multinazionali e inquinatori
Nulla di fatto per frenare il cambiamento climatico. La terra e la vita ancora in pericolo
Tutti i governi applaudono ad un accordo sostanzialmente inconsistente e pieno di promesse che possono non essere mantenute o fatte slittare. In piazza gli ambientalisti insoddisfatti
L'unica soluzione radicale e definitiva è il socialismo

 
Con l’accordo siglato nel pomeriggio di sabato 12 dicembre, con un giorno di ritardo sulla scadenza annunciata, si è chiusa ufficialmente la 21esima Conferenza dell'Onu sui cambiamenti climatici a Parigi. Alla conferenza hanno partecipato i rappresentanti di 193 Paesi e oltre 150 capi di Stato, con l’obiettivo dichiarato di raggiungere un nuovo accordo mondiale che superi Kyoto, in materia di emissioni di gas serra e di riscaldamento globale. L’evento già da molti mesi, ha destato enormi aspettative soprattutto da parte di tutta la “società civile” ambientalista e associativa che ha sottolineato la necessità di un intervento deciso sulle emissioni attraverso un susseguirsi di iniziative in tutto il mondo che hanno coinvolto milioni di partecipanti e che hanno avuto il loro massimo momento di mobilitazione lo scorso 29 novembre quando due milioni di attivisti hanno marciato in oltre 150 Paesi chiedendo un futuro alimentato dalle sole energie rinnovabili.

Le premesse della Conferenza e i primi negoziati
Barack Obama alla cerimonia d’apertura ha affermato, “Questa non sarà una vittoria-lampo, ci vorrà del tempo ed è possibile che la nostra generazione non vedrà il successo delle nostre azioni di oggi, ma il successo è sapere che i nostri figli lo vedranno ”. Questa affermazione è indicativa per capire quanto in realtà i Paesi, in particolare quelli cha hanno le maggiori responsabilità sulla produzione di gas serra, su tutti gli USA da un punto di vista storico, siano disposti a modificare rapidamente le proprie politiche energetiche e produttive in questo campo per dare un immediato respiro al nostro malandato pianeta.
Alla vigilia dell’apertura dei lavori di Parigi, ben 180 Stati si sono impegnati a tagliare le emissioni, per un totale del 94% delle emissioni globali. Il totale dei tagli, però, non è stato ritenuto sufficiente dagli esperti a portare verso uno scenario di contenimento delle emissioni tale da scongiurare interferenze del clima pericolose per l’uomo, in quanto l’aumento delle temperature previsto è di 2,7°C. Attualmente, l’obiettivo di lungo termine considerato “politicamente accettabile” è di arrivare a una stabilizzazione delle temperature medie a 2°C, ma gli scienziati avvertono che anche questo livello è rischioso e non offre alcuna garanzia. Per perseguire un nuovo obiettivo di 1,5°C sarebbero necessarie azioni ancora più immediate e una rapida accelerata verso un’economia alimentata ad energia 100% rinnovabile il più in fretta possibile. Nel periodo immediatamente precedente alla Conferenza, indiscrezioni avevano già annunciato che non sarebbero stati in previsione nuovi annunci precisi sulla riduzione delle emissioni, ma piuttosto l’inserimento nel testo dell’accordo di un meccanismo di revisione degli impegni futuri, basati su un piano poco definito.
Di fatto mentre l’accordo di Parigi coprirà il periodo oltre la fase II del Protocollo di Kyoto, ovvero dal 2020, il summit si sarebbe dovuto occupare di come tagliare le emissioni fin da subito, per arrivare pronti nel 2020 a iniziare con i propositi che sarebbero emersi dalla Conferenza di Parigi.
Altro aspetto fondamentale che era nel mirino della “società civile” e degli scienziati a loro vicini, era rendere il nuovo accordo vincolante; su questo aspetto i precedenti non tranquillizzavano nessuno poiché tutti ricordano bene che, ad esempio, all’indomani della firma del Protocollo di Kyoto siglato da Clinton, il Senato americano non approvò e il Protocollo non venne mai ratificato dagli USA, con le conseguenza a tutti note.
 

I negoziati ed i contrasti fra i Paesi
Nei primi giorni è stato affrontato anche il tema dei contributi nazionali volontari (INDCs), che contengono la strategia di ogni Paese per diminuire le proprie emissioni e contrastare il cambiamento climatico. Attualmente le stime sull’effetto aggregato degli INDCs vedono proiezioni ben superiori all’obiettivo di mantenere l’aumento medio di temperatura globale al di sotto dei 2 gradi, concetto enfatizzato anche nell’intervento di Angela Merkel, che l'ha definita semplicemente “una brutta notizia”.
Durante i lavori riguardanti la COP Decision, lo Stato di Saint Lucia col supporto del Nicaragua e Kiribati, tutte aree spesso devastate da fenomeni meteorologici di grande portata, ha richiesto ufficialmente che l’aggiornamento del rapporto di sintesi consideri gli scenari a 1.5°C di aumento di temperatura. Di tutt’altro avviso l’Arabia Saudita la quale non vede la ragione di includere nei negoziati tale questione, così come il Venezuela e gli altri paesi produttori. Sull’aspetto della “mitigazione” quindi, e cioè sulla necessità di attenuazione degli effetti incontrollati e catastrofici dei cambiamenti climatici, sono i Paesi più poveri e soggetti a catastrofi ambientali a chiedere la revisione a 1,5°C del limite massimo, mentre i maggiori produttori di petrolio hanno frenato più volte.
Un capitolo a parte lo meriterebbe un altro tema spinoso quale quello dell’adattamento al cambiamento climatico ed alle conseguenti migrazioni di popolazioni. A partire dalla COP 16 (Cancún), il tema delle migrazioni dovute al clima ha acquisito un rilievo crescente all’interno processo UNFCCC, venendo ufficialmente riconosciuto nell’ambito del Cancun Adaptation Framework come una strategia di adattamento. L’obiettivo dichiarato ed oggetto di dibattito all’ONU sarebbe quello di supportare e coordinare la rilocazione delle popolazioni colpite da eventi estremi nei paesi in via di sviluppo più vulnerabili. Nonostante la pressante attualità del tema, il dibattito intorno alle funzioni e alla necessità dil rendere operativa la proposta del G77 è stato piuttosto scarso. L’effettiva portata della proposta e la sua eventuale collocazione all’interno dei risultati della conferenza di Parigi è rimasta tutta da determinare a causa della difficoltà, nel delineare i rapporti causali tra cambiamenti climatici e fenomeni migratori.
Tutti questi aspetti sui quali diverse, se non antagoniste, sono le posizioni dei Paesi sempre più divisi tra sfruttati e sfruttatori, hanno dato adito durante la settimana a una costante crescita della tensione fra i delegati governativi. Essi hanno cominciato ad accusarsi di ostacolare i negoziati e di perdere tempo dietro il “gioco delle colpe”; la Bolivia ad esempio, per conto di G77 e Cina, e la Malesia, hanno espresso forte preoccupazione sull’andamento dei negoziati, sostenendo di aver lavorato sodo ma di aver ricevuto sempre risposte negative dai paesi sviluppati. Il Brasile, nel commentare l’introduzione di numerose parentesi (testi in bozza da definire previo accordo ulteriore) ha evidenziato parere negativo al riguardo, con un’affermazione pungente:“ogni parentesi aggiunta nel testo è come una molecola di gas serra in più nell’atmosfera”.
In pratica i Paesi additati come “ostacoli” nel cercare di risolvere a fondo il problema restano principalmente Cina (a conferma dell’insufficienza dell’accordo dello scorso anno USA-Cina sulle emissioni), India ed Arabia Saudita. Ma anche ai Paesi dell'Ue e del cosiddetto “gruppo-ombrello” (che include tra gli altri Usa, Canada, Giappone e Australia) alcuni osservatori delle Ong hanno imputato un atteggiamento troppo rigido, e un "gioco pesante" in particolare sul fronte dei finanziamenti.
Mentre sulla scena emergono una serie di attori inediti e determinati - come Nigeria, Grenada o l'arcipelago polinesiano di Palau - che sono scesi in campo per difendere "passaggi chiave" dell'accordo sulla tutela delle aree vulnerabili. Dal 7 dicembre poi si è aperto il segmento “high-level” della COP21 di Parigi che ha sancito l’intervento esclusivo dei ministeri governativi chiamati a prendere le decisioni politiche e finali, scegliendo fra le proposte disponibili inserite in Conferenza nel testo negoziale, redatto e ultimato lo scorso sabato dagli esperti dopo mesi di conferenze e discussioni.

 

Il testo definitivo e le reazioni
Nel pomeriggio di sabato 12, un giorno oltre la scadenza prestabilita all’inizio della Conferenza, il presidente della Cop 21, nonché Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, ha entusiasticamente affermato il pieno successo del summit. "Siamo oggi vicini alla fine del percorso, siamo arrivati ad un progetto di accordo ambizioso ed equilibrato, che riflette le posizioni delle parti". Gli fa eco il presidente della Repubblica francese Hollande poco prima del voto sull’accordo che dichiara: "Non tutte le richieste sono state soddisfatte" ma "saremo giudicati per un testo non per una parola, non per il lavoro di un giorno ma per un accordo che vale per un secolo (…) Siamo davanti a un testo storico". "Il traguardo è in vista, ora finiamo l'opera", ha affermato il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, aggiungendo che "è arrivato il momento di capire che gli interessi nazionali sono preservati al meglio agendo nell'interesse comune internazionale".Ignorando che i governi degli USA hanno saccheggiato e devastato per oltre un secolo il pianeta e le sue risorse arrecando danni incalcolabili all’ambiente ed a tutto il genere umano, nonostante proprio in quel Paese l'estrazione dei gas da scisto (combustibili fossili altamente inquinanti) stia provocando disastri ambientali senza precedenti, il Presidente americano Barack Obama, presenta gli Usa come se fossero tra i primi nella lotta ecologica ed entusiasta twitta: "E' un grande avvenimento: quasi tutti i paesi del mondo hanno appena firmato per l'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, grazie alla leadership americana". Per l’Italia, non tardano a farsi sentire i proclami di Renzi e del Ministro Galletti secondo i quali: “Siamo nella storia. E a questa storia ha contribuito anche l'Italia, che sin dall'inizio con tutta l'Europa ha creduto nell'obiettivo ambiziosissimo di 1,5 gradi". Anche Italian Climate Network, Onlus istituzionale e vicina agli ambienti governativi, si dice soddisfatta dell’accordo raggiunto: “È un accordo bilanciato e positivo, che giunge dopo anni di negoziati. La strada che abbiamo davanti è segnata: verso emissioni nette zero. E’ il segnale che la trasformazione energetica è ormai in atto e inarrestabile. Toccherà a noi controllare e stimolare gli Stati affinché attuino le loro promesse nei tempi previsti e aumentino i loro impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra nei prossimi anni”.
Un brodo di giuggiole globale ma, in sostanza, è giustificata questa reazione? Nel testo definitivo è stato inserito il concetto di “giustizia climatica”, sono stati mantenuti i riferimenti ai diritti umani, al diritto alla salute, alle comunità locali, ai migranti, ai bambini, alle persone con disabilità, alle persone in situazioni vulnerabili, al diritto allo sviluppo, alla parità di genere, e all'equità intergenerazionale. Non ha invece trovato posto un aspetto importante quale un paragrafo che esplicitasse le responsabilità storiche che vedono USA e Cina addossarsi le maggiori responsabilità della situazione attuale e conseguentemente anche il dovere di maggiori interventi di riduzione.
Nell’articolo 2 è stato confermato l’obiettivo del mantenimento dell’aumento di temperatura media globale bel al di sotto dei 2°C, con lo sforzo di raggiungere l’obiettivo più ambizioso di 1.5°C, raccomandato dalla scienza. Nell’articolo 4 è assente il target quantitativo di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il 2050, conseguentemente l’obiettivo di raggiungere la “neutralità” delle emissioni nella seconda metà del secolo è stato esplicitato esclusivamente a fini propagandistici. Nell’articolo 6 sono stati introdotti due meccanismi di supporto per il cosiddetto “Sviluppo Sostenibile”: uno di mercato, finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas serra, di cui si specifica che le Parti devono assicurare integrità dal punto di vista ambientale e trasparenza ed il secondo, meccanismo non di mercato, con un approccio integrato e olistico, che vada a interessare azioni di mitigazione, l’adattamento, la finanza ed il trasferimento tecnologico. Rimane dunque il “mercato” a normare la questione, nonostante la sua inefficacia dimostrata finora, praticamente ovunque adottato.
L’ONU riconosce l’importanza di scongiurare, minimizzare e affrontare le perdite ed i danni associati agli effetti avversi del cambiamento climatico. Tuttavia, e inspiegabilmente a fronte della premessa, la parte relativa all’azione di contrasto è stata indebolita, perdendo inoltre il riferimento all’impossibilità di violare i diritti stabiliti dalla legge internazionale. Tra le azioni di cooperazione, infine, non è più previsto il supporto ai rifugiati climatici il che appare assai grave. Nessun miglioramento poi sulla questione finanziaria che rimane come in premessa e cioè riguardo agli aspetti finanziari, è prevista la mobilitazione di un minimo di 100 miliardi di dollari all’anno che i Paesi Industrializzati dovrebbero mobilitare verso i paesi in via di sviluppo e l’implementazione del meccanismo di compensazione “loss and damage” per i Paesi più vulnerabili, con impegni non ancora sufficientemente stringenti e che ricordiamo essere un quinto dei sussidi forniti finora alle fonti energetiche fossili.
Moderata soddisfazione di Legambiente e WWF: “Oggi a Parigi si è intrapresa una direzione di marcia irreversibile verso un futuro libero da fossili (…)Tuttavia non va dimenticato che si tratta di una strada in salita. Il pragmatismo politico dei governi ha impedito di prendere qui a Parigi tutte quelle scelte ambiziose e forti che la crisi climatica impone. Rimangono gli impegni inadeguati annunciati alla vigilia di Parigi, che non consentono di contenere il riscaldamento del pianeta ben al di sotto della soglia critica dei 2°C. E ancor meno rispetto al limite di 1.5°C.”.
Di tutt’altro parere Oxfam, (Organizzazione di sviluppo, emergenza e campagne di opinione contro l’ingiustizia della povertà nel mondo) secondo cui l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici "è insufficiente per tutelare i paesi più poveri". "Le conclusioni emerse non scongiurano l'innalzamento delle temperature di 3 gradi di qui al 2050". L'accordo rappresenta "un significativo passo in avanti", si legge in una nota, "ma non stanzia risorse finanziarie sufficienti per l'adattamento al cambiamento climatico per i Paesi in via di sviluppo. Nonostante gli impegni assunti per la prima volta da oltre 190 Paesi per salvare il clima, le conclusioni del vertice non appaiono perciò all'altezza delle ambizioni che erano state dichiarate nei discorsi di apertura da parte dei leader di tutto il mondo". Secondo Oxfam l'accordo "riconosce che nei prossimi cinque anni c'è bisogno di maggiori risorse da destinare alle comunità per adattarsi ai cambiamenti climatici, eppure non include alcun impegno concreto per permettere che queste risorse siano realmente stanziate". Al momento, prosegue Oxfam, "non c'è nulla nell'accordo che dia garanzia che gli attuali impegni di riduzione possano essere rafforzati prima che entrino in vigore. Ciò rende molto difficile mantenere l'aumento delle temperature al di sotto dei 2 gradi e pressoché impossibile evitare che il surriscaldamento globale superi 1,5 gradi". Secondo le stime di Oxfam, quindi, alla luce del nuovo accordo, "i Paesi in via di sviluppo non vedono alcuna riduzione del rischio di dover far fronte entro il 2050 a costi che ammontano a circa 800 miliardi l'anno ".

Altri elementi negativi
I delegati alla Conferenza si congratulano con se stessi per aver raggiunto un accordo migliore di quanto si aspettassero, definendolo il migliore della storia, ma dovrebbero invece, secondo noi e non solo, scusarsi con tutti quelli che hanno tradito.
La prima cosa che ci ha colpito, e che è stata rilanciata anche da altre forze politiche, è che la Renault Nissan sia fra gli sponsor principali della Conferenza dell’ONU. Elemento che dovrebbe lasciar tutti quantomeno perplessi, vista la poca comunanza fra industria automobilistica ed emissioni zero, per lo meno finchè i loro prodotti si alimenteranno a derivati del petrolio. Non di secondaria importanza la presenza, tra gli altri sponsor, di altre società che contribuiscono in modo massiccio alle emissioni di gas serra, che la Cop21 doveva combattere, quali banche (in primis BNP Paribas, una delle più importanti del mondo banche per finanziamento della produzione di carbone), compagnie aeree come AirFrance, Michelin produttore di pneumatici ed altre multinazionali.
Su tutte Engie, formalmente conosciuta come GDF Suez, società di utility di maggior valore al mondo, che ottiene più di $ 80 miliardi di fatturato annuo principalmente derivanti dalla sua attività sui combustibili fossili poiché oltre il 70 per cento della produzione di energia della società proviene dal gas naturale e il carbone, rispetto al 13 per cento proveniente da fonti rinnovabili. Come una singola azienda, Engie ha emesso gas serra tanto 2014 come tutto il paese del Belgio. Engie non è l'unica società con legami con i combustibili fossili da inserire in qualità di sponsor ai colloqui di Parigi in quanto le fa buona compagnia Électricité de France (EDF), che gestisce 16 centrali a carbone più importanti in tutto il mondo. La longa manus dei potentati finanziari e delle lobby ha dunque avuto fin dall’inizio in pugno i negoziati.
Sulla questione finanziaria l’elemento chiave è portato dai "cap and trade": in pratica si stabilisce un tetto massimo di emissioni di CO2 così da favorire la compravendita dei diritti di emissione al di sotto di questo tetto. Questo meccanismo è già presente in Europa (ETS) e verrebbe adottato anche dalla Cina aprendo un nuovo mercato globale - quello delle quote di emissione - che moltiplicheranno le transazioni finanziarie.
In Europa le emissioni non si sono ridotte: perché in Cina dovrebbe essere diverso? Perdura poi lo scandalo secondo il quale un paese come l’Italia, ad esempio, spende 3,5 miliardi di euro di fondi pubblici per sussidi alle fonti fossili, mentre impiega solo 84 milioni per il fondo verde per il clima. Nell’accordo non esiste alcun riferimento alle emissioni degli inquinanti derivanti da aerei e navi seppur l’inquinamento di aerei sia destinato ad aumentare del 300% entro i prossimi dieci anni.
Un altro elemento di chiara natura oscurantista e lobbistica sta nella questione agricola: le emissioni di gas serra prodotte da agricoltura, silvicoltura e pesca sono quasi raddoppiate nel corso degli ultimi 50 anni e potrebbero aumentare di un ulteriore 30% entro il 2050, eppure il capitolo dell'agricoltura è stato immediatamente escluso dalla discussione sul cambiamento climatico. E’ cosa nota ormai che il business delle multinazionali del cibo sta provocando disastri: la FAO, nel suo rapporto del 2013 "Tackling climate change through livestock", ha stimato che l'allevamento agricolo è responsabile di circa il 15%delle emissioni di gas serra dell'intero pianeta, influendo sul cambiamento climatico addirittura più dell'intero settore dei trasporti.
E via via altre enormi criticità sia tempistiche che di metodo nell’affrontare gli obiettivi fissati di riduzione di emissioni. Il testo propone di raggiungere la GHG neutrality “nella seconda metà di questo secolo” - cioè in qualsiasi anno tra il 2051 e il 2099. Questo non solo è vago, ma anche una forte contraddizione con l’articolo 2 che impone di stare “ben al di sotto dei 2 gradi C” e invita a “a proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura di 1,5 gradi C”. Le emissioni residue disponibili a livello globale e cumulativamente (il bilancio del carbonio) richiedono una decarbonizzazione completa dell’economia e approvvigionamento energetico al 100% da rinnovabili entro la metà del secolo, e quindi improrogabilmente entro il 2050.

Le misure immediate e l'unica soluzione
La debolezza dell'obiettivo di riduzione delle emissioni mondiali di gas a effetto serra è evidente, perché nel testo si parla soltanto di stabilire "quanto prima" un tetto, quindi tale formula è ben lontana dall'essere vincolante. Le ambizioni precedenti alla Conferenza appena conclusa, che miravano a una riduzione delle emissioni tra il 70 e il 95 per cento, sono state abbandonate, ed è proprio questo tipo di arretramenti che ha reso possibile l'accordo "storico". Le "parti" sono addirittura riuscite a fissarsi come obiettivo non più di ridurre le emissioni bensì semplicemente di equilibrarle attraverso "depositi " di carbonio capaci di ridurre il tasso di anidride carbonica nell'atmosfera, quali le piante in crescita e il plancton degli oceani. Fa riflettere inoltre che questo modestissimo obiettivo è previsto per la seconda metà del XXI secolo! Siamo ben lontani quindi dalle raccomandazioni degli esperti del Giec (Gruppo di esperti intergovernamentale sull'evoluzione del clima) , che ritengono indispensabile un abbassamento delle emissioni mondiali tra il 40 e il 70 per cento entro il 2050 se si vuole evitare uno sconvolgimento forse incontrollabile del clima. Oggi l'annuncio di un contributo finanziario annuo di100 miliardi di dollari (fino al 2020) ai Paesi in via di sviluppo ha ottenuto ovunque un’altissima risonanza. Tuttavia, oltre ad essere nei fatti un impegno già preso in passato dai paesi inquinatori del “nord” e mai rispettato, si tratta anche di una cifra irrisoria, equivalente a poche ore di speculazioni finanziarie nel mondo. Inoltre la mancanza di specifiche dettagliate sulle fonti di questa presunta sovvenzione lascia aperte più strade d’intesa, fra le quali la forma del prestito bancario che andrebbe nei fatti a indebitare ancora di più i Paesi poveri.
Su questo punto urge poi precisare che non sono previste sanzioni a chi non verserà la propria quota e conseguentemente è fondato il rischio che questioni di politica interna portino qualcuno degli Stati più ricchi ad annullare o diradare i pagamenti. Come già detto, i fatti dicono che oggi 190 Stati su 195 si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra che farebbero rientrare il riscaldamento in una traiettoria che raggiunge i 3°C. Una concessione che colloca il pianeta in prospettive definite "catastrofiche", tanto più che l'assunzione di impegni vincolanti era, fino a poco fa, presentata come una necessità assoluta. È ormai evidente che i partecipanti alla Cop21 hanno rinunciato in corso d’opera a molte delle ambizioni che nutrivano quando sono arrivati a Parigi. Non dobbiamo dimenticare che l'accordo in questione entrerà in vigore solo nel 2020 e che "in qualsiasi momento nell'arco dei tre anni successivi all'entrata in vigore" un Paese potrà ritirarsi dall'accordo. Per inciso, dopo il protocollo di Kyoto siglato nel 1997, le emissioni antropiche sono aumentate del 40 per cento mentre avrebbero dovuto essere ridotte del 5,2 per cento entro il 2012.
Inoltre nessun azzeramento dei sussidi ai petrolieri e nessun aumento dei contributi per l’utilizzo massiccio delle rinnovabili è stato deliberato; insufficienti sono stati gli incentivi deliberati per promuovere pratiche agricole biologiche e quelle del riciclo e del riuso nella gestione dei rifiuti per far emergere la strategia “Rifiuti Zero” come modello globale. Cosa aspettarsi allora dall’accordo di Parigi?
Sappiamo bene che la soluzione vera e definitiva all’enorme problema del riscaldamento climatico non potrà mai arrivare nell'ambito del capitalismo che ne è la causa assoluta. La natura predatoria dell’imperialismo dei paesi industrializzati nei confronti di quelli in via di sviluppo privandoli della loro “sovranità” con qualsiasi mezzo militare o economico che sia, gli obiettivi di massimizzazione dei profitti e di accumulazione nel minor tempo possibile che sono gli elementi cardine del capitalismo, non possono far altro che impoverire la natura fino al punto che essa non riesca più a rigenerarsi per compensarne lo sfruttamento, mettendo a rischio come già accade e in misura sempre maggiore la qualità della vita dei popoli e a lungo termine anche la sopravvivenza delle specie, incluso quella umana. L’uso irresponsabile e indiscriminato delle risorse naturali e la distruzione dell’ambiente sono conseguenze di questo modello di produzione in nome del profitto e dell’imposizione delle cosiddette “esigenze del mercato”. Engels, in “Dialettica della Natura” così si esprimeva: “Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze.” Ed ancora: “Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato. (…) Ma per realizzare questa regolamentazione, occorre di più che non la sola conoscenza. Occorre un completo capovolgimento del modo di produzione da noi seguito fino ad oggi, e con esso di tutto il nostro attuale ordinamento sociale nel suo complesso.”
Per chiudere quest’ampia pagina sui negoziati di Parigi, ci compiaciamo della grande mobilitazione di milioni di manifestanti che in tutto il mondo sono scesi nelle piazze per dare il proprio contributo a questa battaglia e portando la loro protesta in tutto il mondo. Se essi vogliono ottenere un mondo sano e pulito, in cui tutti abbiano le necessarie condizioni materiali per una vita stabile, in primis cibo a sufficienza e casa, un mondo in cui tutti possano avere accesso libero e gratuito all’acqua potabile, respirare aria pulita e nel quale tutti possano usufruire dell’energia che sotto tante forme la natura ci offre, nella sostanza devono lottare con i marxisti-leninisti contro il capitalismo, per il socialismo, l'unica società che può risolvere radicalmente il problema della salvaguardia della Terra e della vita.

16 dicembre 2015