ll nuovo duce Renzi canta vittoria per essere riuscito a imporre la controriforma piduista del Senato
Il plurinquisito e intrallazzatore Verdini: “Cambia la storia in modo epocale grazie anche a noi”

E' solo facendo suo il motto “i voti non puzzano” che il nuovo duce Renzi può cantare vittoria per l'approvazione della controriforma neofascista e piduista del Senato, passata lo scorso 20 gennaio nell'aula di Palazzo Madama con i voti determinanti del suo amicone Denis Verdini. Se non fosse stato infatti per i 17 voti del gruppo AL-A (Alleanza liberalpopolare-Autonomie), creato dall'ex braccio destro di Berlusconi con altri transfughi di Forza Italia con la missione dichiarata di sostenere Renzi e le sue “riforme”, più altri 3 voti dei leghisti di Tosi e un altro paio provenienti dalla stessa FI, i voti per la controriforma Renzi-Boschi si sarebbero fermati a quota 158, cioè al di sotto della maggioranza assoluta di 161 voti richiesta per le leggi costituzionali.
Così invece, grazie al soccorso tanto provvidenziale quanto scontato del plurinquisito e intrallazzatore Verdini, di voti la legge ne ha ottenuti 180, inclusi i 23 della sinistra PD (Bersani, Speranza, Cuperlo e compagnia bella), la quale ha svolto la funzione di reggimoccolo alla cancellazione del Senato, pur mugugnando a cose fatte per l'avanzarsi, in questo mercimonio tra Renzi e Verdini, dello spettro del “partito della nazione”, che la sta per rendere definitivamente ininfluente cambiando di fatto la composizione della maggioranza di governo: “Prendiamo atto dell'ingresso di Ala in maggioranza. Non avevamo dubbi al riguardo e oggi c'è stata una ratifica formale”, ha sottolineato infatti il capogruppo dei senatori di Berlusconi, Paolo Romani. “Oggi si apre una fase nuova, e sono convintamente con Renzi. Cambia la storia in modo epocale grazie anche a noi”, ha rincarato da parte sua lo stesso Verdini dopo il voto, fregandosi le mani nell'annunciare che con l'arrivo di un'ex senatrice del M5S “siamo 18 oramai, e nel numero già bastiamo ma altri quattro sono in arrivo nel gruppo”.

Tre vicepresidenze come premio
Ma la dimostrazione più sfacciata del ruolo determinante per Renzi assunto da Verdini e il suo manipolo di transfughi è stata la ricompensa che hanno guadagnato subito dopo il voto, ottenendo ben tre vicepresidenze (Finanze, Bilancio e Difesa) quando si è trattato di rinnovare le cariche delle Commissioni parlamentari, che non a caso la maggioranza aveva fatto slittare a dopo la votazione sulla controriforma costituzionale. E la cosa ancor più indecente è che le hanno ottenute dopo una trattativa sottobanco tra Verdini e il capogruppo PD, Zanda, e con l'intervento telefonico decisivo del braccio destro di Renzi, Luca Lotti. Il che ha fruttato ad AL-A la vicepresidenza delle tre Commissioni proprio grazie ai voti decisivi del PD. Con grande sconforto della sua sinistra interna, dato che così i tre vicepresidenti verdiniani risultano eletti in quota maggioranza.
Renzi naturalmente fa finta di nulla, nega che Verdini sia diventato determinante per il suo governo, tanto meno che sia “entrato nella maggioranza”, e nella successiva riunione della Direzione del PD, facendo orecchie da mercante alle giaculatorie dei suoi oppositori, non ha nemmeno nominato l'ex macellaio e bancarottiere di Campi Bisenzio. E invece quest'ultimo continua a rilasciare dichiarazioni a destra e a manca che confermano il tenace sodalizio tra i due, come quelle fatte alla presentazione di un libro sul patto del Nazareno del suo fedelissimo e coimputato Massimo Parisi, alla presenza del piduista Luigi Bisignani e del pennivendolo di regime Stefano Folli, in cui Verdini sostiene di essere “l'idraulico di Renzi”, perché “i rubinetti della maggioranza, a destra e a sinistra, perdono continuamente e così noi siamo determinanti per portare avanti il governo. Ogni giorno il nostro capogruppo al Senato, Barani, mi telefona per sapere cosa fare e come comportarsi”.
Verdini parla anzi di volersi “affiliare” al PD (come se fosse una loggia massonica) e offre in anticipo tutto il suo supporto al referendum plebiscitario per il sì alla “riforma” annunciato dal premier: “Ci sarà una grande battaglia da fare e noi ci impegneremo a farla” ha dichiarato, dicendosi pronto anche a fiancheggiarlo alle prossime politiche, che ci saranno – ne è certo - dopo il referendum, sia che Renzi lo vinca sia che lo perda. Meglio ancora se il premier modificasse l'Italicum per far rientrare in gioco le coalizioni, così da essere certo di rientrare in parlamento apparentandosi al PD, ma puntando comunque ad entrarci anche da solo col 3%, sicuro che Renzi avrà ancora bisogno dei suoi voti come il pane: “Anche se il PD ottenesse i 340 deputati col premio di maggioranza dell'Italicum – ragionava infatti Verdini alla presentazione – vuoi che un dieci per cento non siano della sinistra che si oppone a Renzi? A quel punto ci saremmo noi”.

Intervento di stampo mussoliniano
A sorpresa, per dare la massima enfasi alla sua controriforma e proclamare “storica” la giornata della sua approvazione, il nuovo duce si è presentato in Senato prima della votazione, dove ha tenuto un lungo discorso per ringraziare i Senatori per aver dato un “esempio” al Paese accettando praticamente di suicidarsi, per ringraziare il rinnegato Napolitano, senza il quale “non ci sarebbe questa riforma e non sarebbe in piedi questa legislatura”, e per autoincensare sé stesso e la sua corte di giovani marmotte fameliche e rampanti: una generazione che è “alla guida del Paese più bello del mondo - l'ha definita nientemeno il suo boss – un gruppo di persone che è in grado di credere nell'Italia, nei suoi valori, nei suoi cittadini, nella sua possibilità di cancellare la parola 'impossibile'”.
Ma Renzi è intervenuto soprattutto per lanciare una sfida a chiunque pensi ancora di poter bloccare la sua controriforma (i “gufi”, i “professoroni” del Comitato per il no, ecc.), ribadendo che sul referendum è pronto a giocarsi anche la camicia per farla passare, e sfidando chi vi si oppone ad andare a vedere “da che parte sta il popolo su questa riforma”: “Andiamo a vedere se i cittadini la pensano come coloro i quali sanno solo urlare e scommettere sul fallimento o stanno dalla parte di quelli che credono nel futuro dell'Italia”, ha detto in tono bellicoso, aggiungendo tra gli applausi scoscianti di PD, NCD e verdiniani, che questi “sono gli italiani che chiameremo in Aula, chiameremo in casa, chiameremo ai seggi, andremo casa per casa”. Annunciando cioè una campagna referendaria martellante e senza risparmio di mezzi, quasi dai contorni squadristici, per entrare fin dentro le case degli elettori e portarli di peso a votare sì.
Ha ribadito poi, “davanti alle senatrici e ai senatori”, che “nel caso in cui perdessi il referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica”, confermando con ciò che il referendum sulla cancellazione del Senato è in realtà un referendum su sé stesso. Ma ha anche aggiunto in tono di sfida che “proprio per questo motivo, sarà affascinante vedere le stesse facce gaudenti di adesso il giorno dopo il referendum, quando i cittadini, con la riforma, avranno dimostrato da che parte sta l'Italia. Stanno dalla parte di chi ci crede, di chi ci prova, di chi non passa il tempo a lamentarsi. Questa è l'Italia che sta ripartendo”.
Un discorso, insomma, di stampo mussoliniano, chiuso non a caso con l'esclamazione patriottarda “Viva l'Italia!” e aperto con la rievocazione orgogliosa e compiaciuta del suo discorso di insediamento, da lui stesso definito “una provocazione molto forte che non mi avete perdonata”, fatto con le mani in tasca e a braccio, in segno di sfida al parlamento e alle istituzioni che già progettava di picconare.

27 gennaio 2016