Ma per Renzi c'è la ripresa
Operai in piazza per il lavoro
Gela in sciopero chiede la riapertura del Petrolchimico, a Cornigliano occupata l'Ilva in vendita, a Cagliari bloccato il consiglio regionale per la ripresa della produzione dell'Alcoa di Portovesme

Mentre Renzi continua blaterare di un'Italia immaginaria fervente di ottimismo e decisamente in “ripresa” produttiva e occupazionale, grazie ovviamente alle sue “riforme”, i fatti di ogni giorno svelano una ben diversa situazione, mostrando un'Italia reale in cui, al di là del balletto di cifre truccate esibite dal governo, non solo non ci sono ancora segnali concreti di ripresa e non si creano nuovi posti di lavoro reali, ma aumentano anche le crisi aziendali che mettono a rischio i posti di lavoro già esistenti, soprattutto nel comparto industriale. Lo dimostra il moltiplicarsi delle vertenze aperte e delle lotte dei lavoratori in difesa del posto di lavoro, che in questi giorni stanno interessando in particolare alcune grandi aziende industriali come l'Ilva di Genova Cornigliano, il petrolchimico di Gela in Sicilia, l'Alcoa di Portovesme in Sardegna, a cui si è aggiunta ultimamente anche la Philips Saeco in Emilia.
Dopo la grande manifestazione di piazza dell'11 gennaio che ha visto anche l'occupazione del Municipio di Genova, i lavoratori dell'Ilva di Cornigliano sono scesi di nuovo in piazza il 25, 26 e 27 gennaio per uno sciopero, con l'occupazione a oltranza del siderurgico, proclamati dalla Fiom e dalla Failms per protestare contro l'atteggiamento ambiguo del governo in vista dell'incontro convocato per il 4 febbraio al ministero per lo Sviluppo economico a Roma, in merito alla vicenda della vendita dello stabilimento.
Tre giorni di occupazione e di cortei
I lavoratori chiedono il rispetto dell'Accordo di programma siglato nel 2005 tra i sindacati e l'Ilva, con la garanzia dell'allora governo Berlusconi, che per motivi ambientali sanciva la chiusura dell'area a caldo, altoforno e cockeria, e la sua riconversione in un polo siderurgico a freddo, ma con la promessa del mantenimento dei livelli occupazionali e di reddito per i 2300 lavoratori che contava a quel tempo l'impianto. In questi anni i lavoratori sono scesi a 1640, di cui quasi la metà a contratti di solidarietà, e l'Ilva è stata messa in vendita dal governo, ma nel bando di gara, peraltro limitato per adesso ad una generica “manifestazione di interesse” (il che dilata alle calende greche i tempi della vicenda), non si fa cenno alla garanzia del mantenimento dei posti di lavoro, ma si parla solo di una “massima salvaguardia possibile dell'occupazione”.
Per questo i lavoratori erano scesi in piazza l'11 gennaio con una durissima manifestazione per le vie di Genova culminata con l'occupazione del palazzo comunale, terminata solo dopo che i lavoratori avevano ottenuto dal prefetto l'assicurazione che il governo avrebbe aperto un tavolo di trattativa insieme a sindacati e Ilva per il 4 febbraio. Nei giorni successivi, tuttavia, arrivava la notizia che all'incontro il governo non avrebbe mandato né la ministra dello Sviluppo, Guidi, né il ministro del Lavoro, Poletti, ma solo un rappresentante minore. Un chiaro segnale di disimpegno da parte del governo Renzi, al quale la Fiom, che rappresenta il 70% dei lavoratori dell'Ilva, ha risposto con lo sciopero e l'occupazione dello stabilimento proclamati il 26 gennaio, a cui non aderivano anche stavolta i sindacati collaborazionisti Fim e Uilm.
“I patti vanno rispettati”
“Ci stanno prendendo in giro - ha dichiarato senza mezzi termini Bruno Manganaro, segretario della Fiom ligure - per l'Ilva è in corso una vendita al buio e vogliono approfittarne per far saltare l'accordo di programma”. Al termine dell'assemblea, che per alzata di mano decideva lo sciopero con occupazione ad oltranza, finché il governo non avesse assicurato la presenza di almeno uno dei due ministri all'incontro, i lavoratori sono scesi in strada, con in testa lo striscione “Pacta servanda sunt” (i patti vanno rispettati), occupando via Guido Rossa e dirigendosi verso il terminal Spinelli, dove hanno bloccato il traffico bruciando anche alcuni copertoni.
Mentre proseguiva l'occupazione, i cortei si sono ripetuti anche il 26 e 27 gennaio, quando i lavoratori di Cornigliano, a cui si erano uniti i metalmeccanici di tutta la provincia in sciopero, tra cui Ansaldo e Fincantieri, si sono diretti in massa verso la prefettura, con in testa lo striscione “Pacta servanda sunt” (i patti vanno rispettati) e alcune grandi macchine meccaniche. Ci sono stati anche momenti di tensione, con urla e cori contro il governo e lancio di fumogeni, sul lungomare Canepa sbarrato da ingenti forze di polizia che non volevano lasciar passare i mezzi meccanici, ma alla fine il corteo è stato lasciato proseguire verso la prefettura, dove ad una delegazione è stata consegnata una lettera del governo che assicurava la presenza del sottosegretario Vicari all'incontro del 4.
Il 26 gennaio, mentre i cortei dei lavoratori dell'Ilva bloccavano Genova fino al pomeriggio inoltrato, scendeva in piazza anche tutta Gela in difesa dei posti di lavoro del petrolchimico che l'Eni vuole dismettere per un progetto di riconversione in “green rafinery” fermo ormai da due anni, e senza dare garanzie sul mantenimento dei livelli occupazionali. In dodicimila hanno sfilato per tutta la città, con in testa lo striscione “Bonifiche, lavoro e dignità per Gela e il suo territorio”, per uno sciopero generale proclamato dal Comune al quale, oltre ai lavoratori del petrolchimico, hanno aderito anche studenti, dipendenti pubblici, i sindaci del comprensorio, negozianti, artigiani, professionisti, e perfino parroci in risposta all'appello del vescovo Gisana. Non si è fatto vedere invece il governatore Crocetta, che oltretutto è di Gela ed è un ex dipendente Eni.
Lo stesso giorno delle manifestazioni a Gela e Genova, in Sardegna si svolgeva una grande mobilitazione dei 200 lavoratori dell'Alcoa di Portovesme, che hanno invaso il centro di Cagliari per una giornata di lotta indetta da Cgil, Cisl e Uil e dalla Rsu per protestare contro il protrarsi dello stallo nella vertenza per il riavvio dello stabilimento. La proprietà americana dell'Alcoa, colosso mondiale dell'alluminio, ha chiuso l'impianto e i lavoratori sono stati messi a cassa integrazione, con la motivazione che non è più competitivo per l'alto costo dell'energia in Sardegna. Governo e giunta regionale si erano impegnati a trovare un acquirente e a rimettere in marcia l'impianto, ma l'unico acquirente che si è fatto avanti, la svizzera Glencore, vuole prima assicurazioni sul costo dell'energia. Per questo i sindacati sollecitano una risposta decisiva da governo e Regione, che però non arriva.
Presi di mira i palazzi del potere borghese
Nei giorni precedenti i lavoratori avevano bloccato per alcune ore la statale 131 alle porte di Cagliari e avevano fatto un sit-in all'aeroporto di Elmas. I lavoratori Alcoa hanno attraversato la città fino alla sede del Consiglio regionale, dove hanno bloccato l'ingresso e impedito i lavori della seduta, lasciando fuori tutti i consiglieri, compreso il presidente dell'aula, il PD Gianfranco Ganau: “E' un'azione simbolica - ha detto un sindacalista dei chimici Cgil - per indurre la politica regionale a scendere in campo. Bisogna chiedere al governo Renzi che crei le condizioni perché il gruppo Glencore possa gestire la fabbrica a costi accettabili e in un quadro di garanzie stabile. Bisogna sollecitare l'esecutivo nazionale perché nomini al più presto un commissario che prenda in mano la situazione. Non c'è più tempo da perdere”.
E queste summenzionate sono vertenze che riescono a salire alla ribalta delle cronache grazie alle loro dimensioni, a fronte delle quali ce ne sono aperte altre decine e forse centinaia di meno note, perché riguardano aziende medie e piccole in crisi, ma che coinvolgono comunque migliaia di altri lavoratori che rischiano il posto e il salario. Ma perdere tempo disinteressandosi delle crisi aziendali e delle vertenze in corso, e contemporaneamente raccontare balle al Paese sulla fantomatica ripresa del lavoro e dell'occupazione sembra essere proprio la politica del nuovo duce Renzi. A meno che le lotte dei lavoratori non si estendano e salgano di livello in modo tale da bloccare le città e prendere sempre più di mira i palazzi del potere, sull'esempio di Genova e di Cagliari, così da stanarlo dalla sua autoreferenziale bolla mediatica e costringerlo a sbattere il muso contro il pugno duro della classe operaia. Alzare il livello della lotta di classe per il lavoro, contro il governo Renzi e per il socialismo.

3 febbraio 2016