Documento della Commissione per il lavoro di massa del CC del PMLI
La Carta dei diritti universali del lavoro non riflette gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori
Una proposta neocorporativa e cogestionaria funzionale al capitalismo e che trasforma i sindacati in istituzioni dello Stato borghese
Fare perno sulla lotta di classe non sulla collaborazione tra le classi

Era l'inverno del 2014 quando la Cgil annunciava che avrebbe proseguito la lotta contro il Jobs Act e in difesa dei diritti dei lavoratori. Si spinse ancora più in là, non solo avrebbe difeso le vecchie tutele, ma le avrebbe estese ai nuovi rapporti di lavoro precari che si sono moltiplicati negli anni, dove oltre a venir negato un impiego duraturo sono assenti la maggior parte dei diritti che il movimento operaio aveva conquistato in decenni di lotte e mobilitazioni. Avrebbe lavorato affinché entrasse in vigore un Nuovo Statuto dei Lavoratori, in sostituzione di quello vecchio del 1970, oramai giudicato superato e limitato poiché considerava solamente il lavoro a tempo indeterminato, il rapporto di lavoro allora quasi esclusivo.
Dopo poco più di un anno possiamo dire che la Cgil non ha mantenuto la prima parte delle due promesse. Ha tergiversato per lungo tempo sperando che il parlamento nero attenuasse le norme del Jobs Act, ha organizzato una grande manifestazione a Roma a ottobre e indetto lo sciopero generale (con la Uil) il 12 dicembre 2014 dopo che Camera e Senato avevano già approvato la Legge Delega. Non bastò nemmeno la grande partecipazione e la disponibilità alla lotta dimostrata dalle lavoratrici e dai lavoratori e quello sciopero, che segnò la conclusione, anziché l'inizio, della mobilitazione.
E' andata avanti invece la stesura del Nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, che ha preso il nome di Carta dei diritti universali del lavoro ; è già stata presentata e adesso viene sottoposta al giudizio degli iscritti tramite una consultazione straordinaria. Ma non è una risposta diretta al Jobs Act, come era stato promesso da Landini, l'idea era in gestazione da tempo e non è legata alle malefatte del governo Renzi. E' la stessa Camusso a confermarlo in un'intervista rilasciata a Rassegna Sindacale: “lo ripeto da settimane: non abbiamo il problema di ripristinare alcuni articoli della legge 300, che è il modo in cui la nostra campagna è stata interpretata da diversi mezzi di informazione. Abbiamo bisogno di innovare l’interpretazione del mondo del lavoro, di cambiare davvero il modo in cui si considerano le regole del gioco”. L'ambizione è quella di riscrivere i diritti dei lavoratori, uno Statuto “del terzo millennio”, che abbia lo stesso impatto e importanza che ebbe la legge 300 del 1970, che fu la conseguenza delle grandi lotte operaie che toccarono il loro apice nel 1969 e che sempre più spesso si saldavano con le lotte studentesche e del movimento anticapitalista esploso nel '68. Il governo di allora, che oltre alla DC egemone comprendeva anche il PSI, fu costretto ad approvare quella legge perché sotto pressione e indotto dalle circostanze, ma fu anche un evidente tentativo di bloccare le rivendicazioni operaie accogliendone una parte con l'intenzione di placare i lavoratori che sempre più decisamente prendevano in considerazione la via rivoluzionaria.
Come vedremo più avanti, la Carta dei diritti universali del lavoro in realtà non riflette gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, che vengono subordinati a quello dei capitalisti e dello Stato borghese.

I contenuti della Carta
Si nota subito che la Carta è composta da 97 articoli mentre quelli del vecchio Statuto erano 41; sostanza e forma sono diversi. Lo Statuto esordiva vietando ogni controllo dei lavoratori da parte delle guardie private e dei sistemi di vigilanza, la Carta invece comincia con una serie di diritti generali, di principi piuttosto vaghi, generici, nella sostanza inapplicabili perché il sistema economico capitalistico non li può assicurare, specie nell'imperante liberismo e diritto del lavoro di stampo mussoliniano, che pongono i lavoratori sotto un forte ricatto padronale. Il Titolo I è interamente dedicato al diritto al lavoro, “decente e dignitoso”, “a condizioni chiare e trasparenti”, “con un compenso equo e proporzionato”, “in condizioni ambientali e lavorative sicure”, “con libertà di espressione”. Belle parole, ma come si può concretizzare il diritto al lavoro “in considerazione delle possibilità offerte dal mercato del lavoro” (art. 2) che non riesce ad assorbire milioni di disoccupati? Oppure che valenza ha elencare tutti i casi discriminatori (politici, di razza, religione ecc.) quando il padrone può sbarazzarsi del dipendente non rinnovando contratti a termine, a progetto, “a tutele crescenti”? Come è molto contraddittorio invocare il diritto al sostegno dei redditi da lavoro e un'adeguata tutela pensionistica e allo stesso tempo acconsentire, come hanno fatto negli anni Cgil, Cisl e Uil, alle controriforme governative dei tagli agli “ammortizzatori sociali” e della distruzione della previdenza pubblica.

Sindacati istituzionali
Molto corposa e densa d'implicazioni politiche è la seconda parte, il Titolo II, che intende applicare gli articoli 39 e 46 della Costituzione rimasti fin qui solo sulla carta o applicati parzialmente. La norma che li riguarda direttamente afferma che i sindacati sono liberi ma hanno l'obbligo di registrarsi: “... è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. In tutti questi anni i sindacati se ne sono disinteressati per svariate ragioni, in special modo la Cgil non ha mai voluto che il governo ficcasse il naso nei propri affari. Attualmente i sindacati sono associazioni di fatto che rispondono ai propri iscritti e a un proprio statuto, applicando questa norma invece diventano un organismo dello Stato borghese e devono sottostare alle sue regole. Una visione neocorporativa che la Costituzione del '48 importò direttamente dal fascismo. Non a caso nella mussoliniana “Carta del Lavoro” del 1927 vi è un articolo pressoché identico che ricorda come l'organizzazione sindacale sia libera “ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato, ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori” .
Oggi la Cgil ha accettato pienamente le regole economiche del capitalismo anche nelle sue forme più feroci, come la flessibilità e il precariato. Essa si è fatta promotrice della politica dei redditi, dei salari subordinati all'inflazione programmata, del sacrificio dei lavoratori per aiutare gli industriali nella competizione capitalistica mondiale. Infine ha scelto di diventare un sindacato istituzionalizzato e corporativo e quindi ha cambiato l'atteggiamento verso l'articolo 39 che adesso fa proprio. Lo strumento per applicarlo è il Testo Unico sulla Rappresentanza, l'accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria che sancisce la collaborazione tra sindacato e padronato, che rappresenta un freno alla conflittualità sindacale, alle lotte dei lavoratori e al diritto di sciopero.

Limitata la democrazia sindacale
Tutto è subordinato alla registrazione vagliata da un'apposita commissione a cui i sindacati si dovranno sottoporre. Sarà ancora il Testo Unico a stabilire le modalità, a partire dal rilevamento della consistenza delle singole organizzazioni tramite le deleghe sui versamenti delle quote sindacali e sui voti ottenuti nelle elezioni delle RSU (rappresentanze sindacali unitarie) con un'evidente discriminazione dei sindacati non confederali che non hanno la delega e che generalmente vengono esclusi dalle RSU quasi ovunque costituite da Cgil, Cisl e Uil. Inoltre chi vuole essere accreditato dallo Stato deve preventivamente accettare le regole del Testo Unico che prevede penali a chi contesta gli accordi (come fece, ad esempio, la Fiom a Pomigliano) e anche limitazioni al diritto di sciopero. Dopo tutto questo solo chi avrà raggiunto almeno il 5% degli iscritti e degli eletti alle RSU potrà partecipare alla contrattazione collettiva nazionale in base alla sua percentuale di rappresentanza. Le stesse regole varranno per la creazione delle RUS (rappresentanze unitarie sindacali), le uniche abilitate alla contrattazione aziendale. Le RUS sostituiranno le RSU ma cambierà ben poco perché, se è vero che non saranno più riservati 1/3 di candidati a quelli imposti dai sindacati e i componenti saranno tutti eletti dai lavoratori, è altrettanto vero che le clausole, le imposizioni e le limitazioni prima elencate servono a rappresentare più i sindacati che i lavoratori, sono cucite su misura per mantenere il monopolio di Cgil-Cisl-Uil a discapito di altri sindacati più conflittuali. Una riproposizione dell'elettoralismo borghese in chiave sindacale a discapito della democrazia diretta e del protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. Sicuramente saranno il governo e gli industriali a beneficiarne, poiché costoro raffredderanno i confitti nelle aziende, avranno di fronte interlocutori affidabili e propensi alla collaborazione, eviteranno più facilmente strascichi e scioperi quando saranno contestati gli accordi come avvenuto in Fiat.

Partecipazione e cogestione
Meno voluminosa è la parte dedicata alla partecipazione dei lavoratori alle decisioni e ai risultati dell'azienda, molto chiara però nella sua impronta corporativa perché sottintende che lavoratori e padroni abbiano lo stesso obiettivo, come imponeva il regime fascista che raggruppava imprenditori e dipendenti dei vari settori produttivi in corporazioni che dovevano lavorare e collaborare per il “bene supremo della nazione”. L'articolo 46 della Costituzione fu voluto fortemente dalla DC con l'appoggio del PCI revisionista e di Di Vittorio in particolare, allora segretario della Cgil. Il PCI e la Cgil non chiesero l'applicazione degli articoli 39 e 46 perché ostacolavano lo sviluppo della lotta di classe e in seguito all'espulsione del partito di Togliatti dal governo sotto pressione USA e l'inizio da parte degli imperialisti americani e inglesi della “guerra fredda” verso l'URSS di Lenin e di Stalin.
Oggi invece la Cgil chiede la “partecipazione” dei lavoratori nelle aziende perché ha abbandonato qualsiasi visione critica verso il capitalismo. Al posto di un sindacato rivendicativo e conflittuale si preferisce quello istituzionalizzato e cogestionario, al posto della lotta di classe il collaborazionismo e il corporativismo, considerati metodi più efficaci per strappare nuove conquiste a favore dei lavoratori. In realtà legare i lavoratori ai destini dell'azienda con “una partecipazione economica” servirà sopratutto ai padroni per giustificare tagli e licenziamenti, portare i lavoratori a lottare gli uni contro gli altri per partecipare alla corsa al profitto (seppur in posizione subalterna) a discapito della lotta di classe, a sacrificare persino il diritto di sciopero in nome del “bene dell'azienda”. Le esperienze più avanzate di “partecipazionismo” come quelle americane e tedesche (portate spesso ad esempio) dimostrano che i lavoratori hanno poteri decisionali quasi nulli e rimangono subalterni al capitale.

Abbandonato l'articolo 18
Il Titolo III è dedicato in gran parte alla “riforma” dei contratti di lavoro. In definitiva vengono trattati a uno a uno i principali contratti precari con la pretesa di estendere i diritti, ma in pratica ci si adegua all'esistente, compreso il collocamento privato lasciando intatte le prerogative acquisite negli anni dalle agenzie interinali. L'unico “avanzamento” appare quello che estende ai lavoratori autonomi la normativa vigente ma quella spacciata per una grande conquista era già in parte messa in atto dal governo. Ad esempio per i lavoratori autonomi che svolgono attività per un unico committente (i co.co.co che non sono spariti come dice Renzi), con il Jobs Act si applica la normativa dei lavoratori subordinati. Il contratto di apprendistato può essere praticato fino a 30 anni di età, quello a tempo determinato, continuativo o intermittente può durare 36 mesi prorogabili per lavori definiti stagionali e per nuove aziende innovative (le start up) . Si lascia ampia libertà al part-time, mentre per il lavoro occasionale (quello pagato con i voucher ) si mettono limiti leggermente più bassi ma in sostanza ci si adegua a quelli del Jobs Act. E' proprio questa la prerogativa più evidente: non c'è la revisione promessa bensì l'adeguamento alla normativa vigente e quindi in sostanza l'accettazione del precariato e di tutte le controriforme del lavoro degli ultimi due decenni.
L'articolo 83 della Carta riscrive l'articolo 18 rimosso dal Jobs Act. Mentre quello contenuto nello Statuto del 1970 non lasciava nessuno spazio alle interpretazioni, quello nuovo elenca i casi in cui il licenziamento individuale è illegittimo (e relative tutele) che sostanzialmente sono: la ritorsione verso chi usufruisce di permessi parentali, legati alla maternità e paternità o al matrimonio, nel caso il fatto non sussista, se il licenziamento non ha seguito la procedura corretta. Ma rimane (comma 10) “nelle altre ipotesi in cui accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo” la possibilità che il giudice, motivandolo, in alternativa al reintegro possa intimare al datore di lavoro un risarcimento da un minimo di 6 a un massimo di 48 mensilità (per le aziende più grandi). La possibilità del risarcimento è più remota rispetto al Jobs Act ma è più di un passo indietro rispetto all'articolo 18 originario. In un altro punto viene cancellata la nuova normativa del Jobs Act per i licenziamenti collettivi. In precedenza se non si seguiva una determinata procedura da concordare con i sindacati i licenziamenti potevano essere dichiarati illegittimi, adesso invece anche in questo caso basta un indennizzo in denaro. Con l'articolo 83 si tornerebbe alla precedente normativa stabilita con la legge 223 del luglio 1991. Un po' poco per poter affermare, come fa la Cgil, che la Carta estende e rafforza le tutele per tutti.

Gli errori della Carta
E' più corretto dire che la Carta estende a nuovi soggetti, lavoratori autonomi e in parte alle aziende sotto i 15 dipendenti, quel minimo di tutele residue rimaste dopo la deregolamentazione del lavoro, di fatto accettando tutte le controriforme degli ultimi 25 anni messe in campo dai vari governi guidati sia dalla destra che dalla “sinistra” borghese. A partire dal protocollo del 23 luglio 1993 sulla politica dei redditi, al Pacchetto Treu del 1997 che introdusse la flessibilità e le agenzie interinali, alla Legge Biagi del 2003 che apportò nuovi contratti precari, alle “riforme” della Fornero del 2012 che oltre all'innalzamento dell'età pensionabile portarono anche a un primo attacco all'articolo 18. Lo stesso Jobs Act non viene rinnegato del tutto, anzi. Al di là delle roboanti dichiarazioni alla fine la Cgil non rigetta completamente neanche la manomissione dell'articolo 18, accontentatosi della revisione anziché della revoca della nuova normativa, dimostrandosi intransigente solo sui licenziamenti collettivi.
Consideriamo un altro grave errore quello di non specificare la natura del “contratto a tutele crescenti”, per cui la Cgil, allo stesso modo di Renzi, la considera come assunzione a tempo indeterminato quando invece il Jobs Act permette che per 3 anni non valga l'articolo 18 ma solo un (misero) risarcimento in caso di licenziamento. Consisterebbe in questo la lotta al precariato? Scorrendo gli articoli della Carta traspare ovunque un'idea di sindacato corporativo e cogestionario che alla base di tutto non ha gli interessi dei lavoratori, ma ha a cuore innanzitutto le sorti del capitalismo italiano, sposando in pieno quella che è sempre stata la linea della Cisl, ovvero quella del sindacato aziendalista e collaborazionista. Chiedere l'applicazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione (registrazione e istituzionalizzazione dei sindacati, partecipazione e cogestione dei lavoratori nelle aziende) significa legare mani e piedi al sindacato e ai lavoratori. La personalità giuridica dei sindacati, che dà loro il potere esclusivo di stipulare accordi validi per tutti, è sempre stata una caratteristica dei regimi corporativi, come ad esempio quello fascista italiano o peronista argentino, con un sindacato limitato nella sua autonomia rispetto al governo. La stessa partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali, è figlia del corporativismo e della collaborazione tra le classi. In passato si trattava di collaborare con i padroni a un capitalismo su cui venivano innestati forti interventi statali, oggi invece nel quadro della globalizzazione capitalistica di stampo liberista. Ma la sostanza non cambia.
La Carta, il nuovo modello contrattuale, il testo Unico sulla rappresentanza fanno parte di uno stesso disegno. Tutti e tre sono espressione del nuovo modello di relazioni industriali di stampo mussoliniano, che ha sostituito il diritto del lavoro borghese nato dopo la guerra e avanzato nei decenni successivi grazie alle lotte delle masse lavoratrici. Si tratta del modello Marchionne, che non prevede i lavoratori organizzati per far valere i loro interessi bensì un sindacato subalterno, messo lì solo per ratificare le decisioni padronali.

VOTARE NO AI DUE QUESITI
In base a quanto sopra detto, noi marxisti-leninisti consideriamo la Carta dei diritti universali del Lavoro una proposta cogestionaria e collaborazionista funzionale al capitalismo e conseguentemente invitiamo le lavoratrici e i lavoratori a votare no ai due quesiti della consultazione. Non condividiamo la linea de il sindacato è un'altra cosa che ha bocciato la Carta ma non ha invitato esplicitamente i lavoratori a fare altrettanto nella consultazione. Tanto meno approviamo le posizioni di Landini e della Fiom, della minoranza Cgil Democrazia e Lavoro di Nicolosi e Rinaldini né quella della sinistra del PD, Sinistra Italiana, PRC, PCd'I (ex PdCI), tutti entusiasti della nuova Carta, che per taluni di loro sarebbe addirittura “una contro offensiva sulla questione dei diritti”. Noi non riusciamo proprio a trovare niente che lasci intravedere attraverso questo documento una riscossa dei lavoratori.
Non è condivisibile il contenuto della Carta ma neanche il percorso con cui è stata scritta. Partire da un gruppo ristretto di giuslavoristi, senza il minimo coinvolgimento dei lavoratori non è certo un grande esercizio di democrazia. Pensare poi a una legge d'iniziativa popolare, seppur debole e non certo “rivoluzionaria”, approvata da questo parlamento nero è quanto meno fantasioso, tanto più se andranno in porto la controriforme fasciste e piduiste del Senato e dell'Italicum volute da Renzi. La storia ci ricorda che mai nessuna legge nata fuori dal parlamento è stata approvata. Era sicuramente più efficace portare a fondo la battaglia contro il Jobs Act e, in questo contesto, proporre i referendum abrogativi della controriforma. Eventuali referendum alternativi alla mobilitazione e alla lotta sono inaccettabili e destinati alla sconfitta per cui invitiamo i lavoratori a esprimere il loro no. Oltretutto molti esponenti della Cgil, a partire dalla Camusso, hanno lasciato intendere che non saranno abrogativi di tutta la legge ma solo di alcuni aspetti del Jobs Act.

LA PROPOSTA SINDACALE DEL PMLI
La Carta dei diritti universali del lavoro non contrasta in alcun modo la perdita dei diritti ma la certifica. E' l'ennesima prova di come la Cgil, al pari di Cisl e Uil, sia omologata non solo al capitalismo, ma anche al regime neofascista imperante che ha oramai stracciato la Costituzione del '48 riscrivendola da destra. Cgil, Cisl e Uil sono sempre più distanti da coloro che dovrebbero rappresentare, le lavoratrici e i lavoratori, sempre più complici del governo e degli interessi del capitalismo italiano, di fatto sono già sindacati istituzionali che hanno la loro parte di responsabilità nella politica dei redditi, nell'impoverimento dei lavoratori, nell'allontanamento dell'età pensionabile e nello smantellamento del vecchio sistema previdenziale pubblico, nello svuotamento del contratto nazionale di lavoro a favore di quelli aziendali. Manca solo la loro registrazione e una legge che ufficialmente li dichiari istituzioni dello Stato borghese.
Questo processo è oramai irreversibile e non è possibile cambiare la direzione e l'orientamento della Cgil. Stando così le cose occorre un radicale cambiamento. Non crediamo però che la soluzione sia quella di creare una nuova sigla che si posizioni a sinistra del sindacato attualmente guidato da Camusso e Landini. Aggiungeremmo un'altra organizzazione che inevitabilmente entrerebbe in competizione con le altre, spartendosi un po' di quella rappresentanza che adesso la Cgil vuole “certificare” con un contratto garantito dallo Stato. Porterebbe non all'unità ma alla frammentazione sindacale dei lavoratori, senza puntare a spazzare via le vecchie confederazioni sindacali. In fondo i cosidetti “sindacati di base” chiedono di avere una fetta della stessa torta. La vicenda dell'USB, uno dei maggiori di questi sindacati, è emblematica. Ha condannato il Testo Unico sulla rappresentanza, ma poi ha finito per firmarlo per non perdere quei diritti; permessi retribuiti, deleghe, distacchi sindacali, ecc,. che l'accordo concede solo ai firmatari, creando scompiglio e scissioni all'interno di quella organizzazione. Nessuno di questi sindacati-partito fin qui ha osato criticare a fondo la Carta.
Crediamo che l'obiettivo strategico sia quello di andare oltre i sindacati confederali e quelli alla loro sinistra, fino al loro scioglimento, e costruire dal basso un grande sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati fondato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale e contrattuale delle Assemblee generali dei lavoratori e dei pensionati. Un sindacato che rigetti il corporativismo e sia autonomo dal governo, dai padroni e dai partiti. Alla base questo sindacato deve assumere una piattaforma rivendicativa che abbia come unico scopo la conquista di migliori condizioni di vita e di lavoro, per quanto possibile sotto il capitalismo; il rifiuto a livello di principio della concertazione e del "patto sociale" con le controparti (governo e padronato) poiché è solo con la lotta di classe, con l'uso di tutti i metodi di lotta legali e illegali, pacifici e non, che possono essere conquistati veri ed effettivi avanzamenti sociali per gli sfruttati e gli oppressi. Un sindacato fondato sul modello organizzativo della democrazia diretta che non ammette deleghe in bianco e senza controllo, e poggia sul protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, nella lotta e nella gestione della vita sindacale nei luoghi di lavoro e nella contrattazione con i padroni e il governo. Essa va dal basso verso l'alto e non viceversa ed è l'unica capace a livello sindacale di unire le masse lavoratrici e dei pensionati attorno ai loro interessi di classe e di liberarle dai condizionamenti esercitati dalle opprimenti burocrazie sindacali istituzionalizzate.
Al centro della democrazia sindacale diretta noi poniamo lo strumento insostituibile dell'Assemblea generale, che nelle storiche lotte operaie del '69 e degli anni '70 ebbe un ruolo determinante per vincere le resistenze dei vertici sindacali di allora per inondare le piazze di grandiosi movimenti di lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione padronale, contro la politica economica e sociale dei governi democristiani, per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro e per ottenere maggior potere sindacale in fabbrica. Appena hanno potuto i sindacati confederali l'hanno svilita e sostituita con le RSU, con liste, candidati e accordi precostituiti, noi invece rivendichiamo candidature libere su scheda bianca. Esigere che le lavoratrici e i lavoratori votino le piattaforme e gli accordi contrattuali che li riguardano è un diritto sacrosanto che deve essere rispettato da tutti i sindacati. Tuttavia, limitare la democrazia sindacale a questa semplice espressione di approvazione o rifiuto su contenuti elaborati da ristretti gruppi dirigenti sindacali non risolve, anzi nega, il problema di conferire il potere sindacale e contrattuale nelle mani della base.
L'Assemblea generale deve essere il luogo dove le lavoratrici e i lavoratori discutono i problemi, mettono a confronto idee, assumono le decisioni, approvano le piattaforme e gli accordi con voto palese, selezionano i loro rappresentanti più capaci e combattivi e li revocano non appena essi non riscuotono la fiducia dei lavoratori. Il metodo della democrazia diretta deve essere attuato per tutte le decisioni sindacali ai vari livelli territoriali e nazionale, di categoria e intercategoriale.
Opponiamoci alla falsa Carta dei diritti universali del lavoro!
Lottiamo per il sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati!
Facciamo perno sulla lotta di classe non sulla collaborazione tra le classi!
La Commissione per il lavoro di massa del CC del PMLI
Firenze, 22 febbraio 2016

24 febbraio 2016