Come confermato dall'ambasciatore Usa, che chiede di mettere a disposizione 5 mila uomini
L'Italia di Renzi pronta a guidare la coalizione imperialista contro l'IS in Libia
Un decreto segreto del governo consente al nuovo duce di ordinare azioni di guerra delle forze speciali senza autorizzazione del parlamento

“Il livello di pianificazione e di coordinamento tra i diversi sistemi di difesa su un possibile contributo alla sicurezza della Libia è a un livello molto avanzato che va avanti da parecchie settimane”. Questa dichiarazione fatta il 1° marzo dal ministro degli Esteri Gentiloni, immediatamente dopo quella del segretario alla Difesa americano Ashton Carter sull'appoggio Usa alla richiesta italiana di prendere la testa dell'intervento militare occidentale in Libia, e pochi giorni dopo le rivelazioni stampa sulla messa a disposizione della base di Sigonella ai raid dei droni armati americani sulla Libia, confermava che i preparativi di guerra contro lo Stato islamico ordinati dal governo Renzi sono in pieno svolgimento e che il nostro paese sta per essere gettato per la terza volta nella sua storia in una sciagurata avventura imperialista e neocolonialista in Libia.
Altri segnali inequivocabili dell'imminenza di un'operazione militare in grande stile erano la visita di due giorni della guerrafondaia Pinotti in Israele, per una non meglio precisata missione riguardante questioni militari e di sicurezza, in cui la ministra con l'elmetto ha detto ai governanti nazi-sionisti di Tel Aviv che Italia e Israele “sono sulla stessa barca” contro il comune nemico “terrorista”, includendo perciò in questo termine anche la resistenza palestinese. E soprattutto la notizia trapelata sulla stampa che nella riunione del Consiglio supremo di difesa del 25 febbraio al Quirinale, Renzi aveva presentato in via riservata a Mattarella un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri (dpcm), già approvato e subito secretato il 10 febbraio, per poter dare immediata attuazione a operazioni militari in territorio libico senza passare per l'approvazione del parlamento, secondo le nuove norme approvate lo scorso 19 novembre col decreto missioni che in caso di “crisi” autorizzano la creazione di una catena di comando diretta tra Palazzo Chigi, i servizi segreti e le forze speciali.

Autocastrazione parlamentare
Come denunciammo a suo tempo su “Il Bolscevico”, queste norme guerrafondaie e fasciste erano state inserite nel decreto di rifinanziamento delle missioni di guerra all'estero tramite un emendamento-golpe dell'ex dalemiano e ora ultrarenziano, Nicola Latorre, che era passato incredibilmente a stragrande maggioranza, in una sorta di autocastrazione parlamentare, con il sì del M5S e l'astensione di SEL. In sostanza esso stabilisce che il premier, al pari dei suoi colleghi imperialisti Obama, Cameron e Hollande, potrà disporre per le operazioni speciali all'estero di una catena di comando affidata ai servizi segreti interni ed esterni coordinati dal Dis (cioè da se stesso), che a sua volta potrà ordinare, saltando lo stesso ministero della Difesa e il parlamento, con la sola informativa a posteriori del Copasir (che però ha l'obbligo del segreto), operazioni di corpi speciali come i paracadutisti del Col Moschin, gli incursori del Comsubin e i Gis dei carabinieri, dotati di speciali immunità “funzionali” come la licenza di uccidere e di commettere altri tipi di reati.
A seguito delle rivelazioni dell'esistenza di questo dpcm segreto di Palazzo Chigi, i giornali davano ormai per imminenti operazioni delle forze speciali in territorio libico, diffondendosi anche in particolari sulla loro consistenza e sulle forze impiegate. Si parlava infatti di un reparto di una cinquantina di incursori del 9° reggimento Col Moschin in procinto di partire per andare ad affiancare una quarantina di agenti dei servizi segreti esterni (Aise) presenti sul campo da tempo e le forze speciali francesi, inglesi e americane che operano già sul suolo libico. Ma anche dei preparativi già in fase avanzata per un'invasione della Libia a guida italiana, non appena avuto il via libera dell'Onu su richiesta del governo libico di unità nazionale per la cui costituzione si sta trattando: una previsione minima di tremila uomini e massima di oltre settemila, di cui due terzi forniti dal nostro paese, che avranno l'onore e l'onere di “mettere gli stivali sul terreno”.
Si parlava anche di affidare il comando mobile alla divisione Aqui, dell'installazione del comando operativo nei bunker sotterranei dell'aeroporto di Centocelle (il “pentagono italiano”), del ruolo chiave dell'aeroporto di Sigonella, con i Predator americani e italiani, di quello di Trapani con gli Amx e i Tornado e di quello di Pantelleria, dal cui Hangar scavato nel fianco di una montagna partono già da tempo, e senza autorizzazione del nostro parlamento, altri droni americani per spiare Libia e Tunisia. Si parlava inoltre di una nave portaelicotteri tipo San Giorgio, con un battaglione di marò del San Marco con i loro blindati anfibi al seguito e i paracadutisti del Tuscania. E perfino della portaerei Garibaldi, con la “cavalleria dell'aria” della brigata Friuli e i suoi elicotteri Mangusta. E così via.

“Sul Muos abbiamo aspettato troppo”
A ulteriore conferma dell'imminenza dell'intervento italiano, quantomeno nella forma preliminare di operazioni di forze speciali, per non lasciare tutto lo spazio e l'iniziativa a quelle Usa, britanniche e francesi, il 3 marzo c'era stata anche l'intervista al “Corriere della Sera” dell'ambasciatore americano in Italia, John Phillips, il quale non solo ribadiva che all'Italia spettava “la guida dell'azione internazionale”, ma specificava anche quante truppe essa dovrebbe fornire alla coalizione stessa: “L'Italia potrà fornire fino a circa cinquemila militari. Occorre rendere Tripoli un posto sicuro e fare in modo che l'Isis non sia più libero di colpire”, aveva detto il diplomatico Usa, approfittandone anche per chiedere come contropartita al governo italiano lo sblocco urgente del Muos, sul quale – ha sottolineato - “abbiamo aspettato troppo”. Per inciso la cifra di cinquemila uomini è la stessa strombazzata qualche tempo fa dalla guerrafondaia Pinotti appena si cominciò a parlare di intervento italiano in Libia contro lo Stato islamico.
Su tutti questi bollenti spiriti di guerra, però, è arrivata improvvisamente la doccia gelata dell'uccisione a Sabratha, in circostanze non ancora chiarite, di due dei quattro tecnici italiani della Bonatti rapiti in Libia nel luglio scorso. In un primo momento si è parlato di una loro esecuzione da parte dell'IS come avvertimento al governo italiano per l'annunciata invasione della Libia. Poi di una loro uccisione durante uno scontro a fuoco tra i loro rapitori e le milizie del governo locale, durante il loro trasferimento in un'altra località. Mentre gli altri due rapiti, che si sarebbero liberati da soli perché rimasti incustoditi, sono tornati in Italia. Di certo il sanguinoso bombardamento di Sabratha pochi giorni prima da parte di caccia e droni Usa, questi ultimi forse provenienti anche da Sigonella, che hanno fatto molte vittime civili tra cui anche due ostaggi serbi, aveva fatto precipitare la situazione locale ancor più nel caos, compromettendo eventuali trattative in corso per il loro riscatto, come ha osservato amaramente uno degli avvocati dei familiari delle vittime.

Sordina temporanea alle fanfare belliche
Una vicenda ancora molto oscura in cui si adombrano quindi anche gravi responsabilità del governo, tanto che la vedova di uno dei due tecnici uccisi ha respinto le condoglianze di Mattarella, accusando le istituzioni di aver abbandonato i rapiti e le loro famiglie in tutti questi mesi. Sta di fatto che questa inaspettata tragedia, unitamente ai sondaggi che mostravano una maggioranza dell'81% degli italiani contrari ad un intervento in Libia, e le prime reazioni negative accennate dalle opposizioni parlamentari e nel suo stesso partito, hanno costretto il nuovo duce Renzi a mettere temporaneamente la sordina alle fanfare di guerra per assumere tatticamente un profilo più basso e prudenziale.
Non c'è stato infatti solo il Costituzionalista Alessandro Pace a bollare come “una pazzia” incostituzionale l'uso diretto dei servizi segreti e delle forze speciali da parte del premier per la guerra alla Libia senza coinvolgere il parlamento. C'è stato anche l'ex premier Prodi a consigliare vecchia prudenza democristiana a Renzi, dichiarando che “la guerra è l'ultima cosa da fare: o c'è una vera unità che ti chiama, e allora puoi andare a costruire lo Stato e fare la pace, oppure chiunque vada è nemico del popolo”. In sintonia con il cerchiobottista Bersani, per il quale “i servizi possono essere affiancati dalla presenza di reparti speciali”, ma in mancanza di un governo libico riconosciuto da tutti adesso “non ci sono le condizioni per un intervento militare in Libia”. Perfino Berlusconi si è detto strumentalmente contrario ai bombardamenti in Libia, aggiungendo di sperare che prevalga “un filo di saggezza”.
Più chiaro di tutti è stato il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti, che a smentire le rassicurazioni del ministro Alfano, per il quale “il rischio attentati è alto anche senza un intervento armato in Libia”, ha dichiarato invece: “Noi già siamo molto esposti per il solo fatto di essere il Paese leader di questa coalizione in formazione destinata a ripristinare l'ordine e la sicurezza in Libia. Ovviamente se si arrivasse a operazioni belliche il livello di rischio salirebbe ancora”. Senza contare le dichiarazioni del ministro degli Esteri di Tripoli, Aly Abuzaakouk, che in televisione ha ribadito seccamente: “Non accetteremo mai alcun intervento militare in Libia ammantato sotto qualsiasi scusa”.

Vietato parlare di guerra
É così che, con una delle sue acrobatiche virate tattiche, Renzi è tornato a prendersela coi media, accusandoli di essersi inventati di sana pianta tutta la vicenda del decreto segreto e dell'imminente partenza delle forze speciali, e a declassare le loro ricostruzioni a “improvvide, irresponsabili accelerazioni”: “I venti di guerra lasciamoli da parte, non inseguiamo in alcun modo l'agenda dei media che hanno già messo elmetto e scarponi”, si è messo a dichiarare in giro il premier, invocando da tutti “grande senso di responsabilità, come deve fare un grande Paese come l'Italia”. E per ricompattare opinione pubblica e partiti sul suo disegno guerrafondaio e interventista ha assicurato che saranno rispettati tutti i “passaggi istituzionali e parlamentari”, perché “quando ci sono vicende di questo genere mi piace pensare che l'Italia risponda tutta insieme, come una comunità. Le singole divisioni particolari vengono dopo”.
Ma poi, invece di andare in parlamento a chiarire qual è la linea del governo, il nuovo duce ha preferito come al solito propinare la sua “narrazione” ipocrita e demagogica della situazione dal compiacente salotto televisivo berlusconiano di Barbara D'Urso: “Vedo gente che dice mandiamoci 5 mila uomini. È un videogioco?”, si è chiesto Renzi in studio fingendo teatralmente di cadere dalle nuvole e indossando per l'occasione il costume da colomba. “Ci vuole molta calma. La missione militare italiana in Libia non è all’ordine del giorno perché la prima cosa da fare è che ci sia un governo che sia solido, anzi strasolido, e abbia la possibilità di chiamare un intervento della comunità internazionale e non ci faccia rifare gli errori del passato”. Ma subito dopo ha sottolineato che “se c’è necessità di intervenire, l’Italia non si tira indietro ma la guerra è una cosa seria, bisogna avere molto rispetto per le parole”.
Appunto, è solo una questione di parole. L'Italia è in guerra ma per il nuovo Mussolini non lo si deve dire, per non allarmare le masse popolari italiane e risvegliare la loro istintiva avversione all'interventismo imperialista. Ma intanto i preparativi bellici vanno avanti, in attesa solo del sospirato accordo tra i governi di Tobruk e di Tripoli che dia il via libera all'intervento militare.

9 marzo 2016