L’articolo 39 della Costituzione e il tema del riconoscimento giuridico dei sindacati dei lavoratori

I lavori dell’Assemblea Costituente sul tema dell’organizzazione interna e del riconoscimento giuridico dei sindacati, tema che poi avrebbe condotto fino alla formulazione dell’attuale articolo 39 della Costituzione, durarono dal 26 luglio 1946 fino al 20 dicembre 1947.
Questo articolo costituzionale è stato storicamente uno dei più travagliati, insieme all’art. 49 che tratta in modo quasi parallelo della vita interna che devono avere i partiti politici, non soltanto nella fase di redazione ma anche e soprattutto nella fase successiva all’entrata in vigore della carta costituzionale, in quanto di fatto non è stato mai attuato per l’opposizione di tutti i sindacati che è durata dal 1948, data di entrata in vigore della Costituzione, fino a gennaio 2016 quando la CGIL attraverso la Carta dei diritti universali del lavoro ha espressamente preso posizione a favore del riconoscimento giuridico dei sindacati.
Ma, mentre per i partiti politici la dura opposizione del PCI revisionista durante i lavori della Costituente riuscì a sventare il rischio dell’obbligatorietà di riconoscimento (che avrebbe comportato pesanti ingerenze e controlli da parte dello Stato su di essi), lo stesso non accadde per ciò che riguarda i sindacati, per i quali l’art. 39 impose, al secondo comma, l’obbligo di registrazione, obbligo vanificato dal rifiuto da parte di tutti i sindacati durato per sessantotto anni, per cui si è creato a cominciare dall’immediato dopoguerra un sistema di relazioni sindacali e di contrattazione collettiva fondato su comportamenti consuetudinari, poiché nessun sindacato ha mai avuto finora le caratteristiche imposte dal quarto comma dell’art. 39 della Costituzione per poter gestire una valida contrattazione collettiva obbligatoria.
Si ricordi che l’attuale art. 39 della Costituzione recita, nei suoi quattro commi:
L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce ”.
In seno all’Assemblea Costituente, i lavori che ebbero come oggetto la discussione e l’elaborazione di quello che oggi è l’art. 39 della Costituzione si svolsero nella Commissione per la Costituzione e anche nelle sue prime tre Sottocommissioni, in particolar modo la terza, con interventi anche della prima e della seconda. Nell’accingersi quindi ad esaminare in dettaglio le posizioni politiche emerse sul tema durante l’elaborazione di tale articolo e al fine di meglio comprendere il dibattito politico dell’epoca in tema di riconoscimento giuridico dei sindacati, si ricorderà, insieme al nome di ogni deputato costituente, anche il suo partito di appartenenza all’epoca dei lavori, e, per il particolare interesse che per questo studio rivestono tali posizioni, le parti trattate o che si riferiscono direttamente agli interventi di esponenti costituenti del PCI saranno evidenziati in grassetto, come anche le proposte che ricevettero da essi adesione.

La discussione sul riconoscimento giuridico dei sindacati
Viene ora presentata la cronologia delle discussioni sul tema del riconoscimento giuridico dei sindacati:
-       il 26 luglio 1946, nella prima seduta della terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, Francesco Colitto (Fronte dell’Uomo Qualunque) propone che essa debba necessariamente occuparsi, poiché tratta delle problematiche del mondo del lavoro, anche della regolamentazione giuridica dell’ordinamento sindacale nonché della libertà sindacale, del contratto collettivo di lavoro e della composizione dei conflitti di lavoro;
-       il 31 luglio 1946, nell’ambito dei lavori della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione che hanno ad oggetto le autonomie locali, Gustavo Fabbri (Gruppo misto) attacca duramente la Confederazione generale del lavoro, in quanto quest’ultima - dopo che è crollato l’ordinamento corporativo fascista ma non è ancora stato colmato il vuoto normativo relativamente alla forma di regolamentazione giuridica dei rapporti tra capitale e lavoro - sostiene il principio della necessità dell'istituto del contratto nazionale di lavoro per i lavoratori. Fabbri sostiene invece che debbano esserci vari contratti collettivi di carattere locale o regionale, con tutele minime differenziate a seconda delle aree geografiche;
-       il 24 settembre 1946 alla prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione - nell’ambito della discussione generale in tema di rapporti civili, e trattando quindi anche della personalità giuridica di enti e associazioni - si accenna per la prima volta anche alla personalità giuridica dei sindacati. In modo particolare Aldo Moro (Democrazia Cristiana) si dimostra favorevole alla regolamentazione e al riconoscimento giuridico, tra gli altri enti, anche dei sindacati, mentre Giovanni Lombardi (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) si rivela nettamente contrario, memore di come il fascismo, istituzionalizzando le organizzazioni rappresentative dei lavoratori, le incorporò nello stesso Stato fascista annientandone l’autonomia;
-       il 10 ottobre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sui principi dei rapporti sociali ed economici, a seguito delle relazioni di Roberto Lucifero (Blocco Nazionale della Libertà) e Palmiro Togliatti (Partito Comunista Italiano). Lucifero propone il seguente testo: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per svolgere una attività economica o per tutelare comuni interessi ”, mentre Togliatti propone che la futura Costituzione contempli espressamente il tema del sindacato e sia del seguente tenore: I lavoratori hanno diritto di associarsi liberamente per la tutela del loro lavoro e la conquista di migliori condizioni di remunerazione e di esistenza. E’ contraria alla legge ogni azione che tenda in qualsiasi modo a limitare questo diritto. La legge assicura ai lavoratori il diritto di sciopero ”;
-       l’11 ottobre 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sui principi dei rapporti sociali ed economici. Togliatti (Partito Comunista Italiano), in qualità di relatore, annuncia di avere trovato un accordo con gli altri due correlatori Lucifero (Partito Liberale Italiano) e Giuseppe Dossetti (Democrazia Cristiana) sul seguente testo: “E’ garantita a tutti i cittadini la libertà di associarsi per la difesa ed il miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica , ma che divergenze sono sorte quando i tre correlatori hanno trattato l’affermazione contenuta nella sua proposta che tendeva a garantire una difesa rafforzata del diritto di associazione sindacale, stabilendo che ogni azione che tendesse in qualsiasi modo a limitare questo diritto sarebbe stata contraria alla legge. Anche in tema di diritto di sciopero i tre, pur con qualche dissenso in relazione alla possibilità di limitarlo per determinate categorie di dipendenti pubblici, si trovano sostanzialmente d’accordo. A questo punto, Aldo Moro (Democrazia Cristiana) e Lelio Basso (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) introducono il tema della regolamentazione giuridica della materia dei contratti collettivi di lavoro e quindi quello, strettamente connesso con il primo, del problema della personalità giuridica dei sindacati e della loro funzione di rappresentanza nei confronti degli appartenenti alle singole categorie di lavoratori. Il relatore Togliatti (Partito Comunista Italiano) si dichiara però contrario alla proposta di inserire nel medesimo articolo l’affermazione sulla validità giuridica dei contratti collettivi di lavoro conclusi dai sindacati, ritenendo che la questione andrebbe discussa insieme a tutta la materia sindacale, e ritenendo altresì che tale materia sia di competenza della terza Sottocommissione, nella quale siede il suo collega di partito Giuseppe Di Vittorio, che è anche relatore, ammettendo altresì che se si dovesse affrontare il tema della validità dei contratti di lavoro, non potrebbe di certo essere trascurato il problema del riconoscimento giuridico dei sindacati. Giorgio La Pira (Democrazia Cristiana), la cui posizione è sostanzialmente condivisa anche dal suo collega di partito Giuseppe Dossetti, osserva che l’associazione sindacale non è una qualsiasi associazione, ma diventa, nella concezione moderna dello Stato, un elemento strutturale dell’ordinamento sociale. Tale specifica apertura da parte dell’esponente democristiano è uno dei motivi fondamentali per cui la Costituzione riserverà ai sindacati un apposito articolo (il 39) come del resto lo stesso ragionamento i deputati costituenti fecero per ciò che riguarda i partiti politici (e infatti anche in questo caso si dovette dedicare ai partiti un altro articolo apposito, il 49). A questo punto il presidente della prima Sottocommissione, Giuseppe Tupini (Democrazia Cristiana), riassume la discussione, rilevando che tutti i membri della Sottocommissione si sono trovati d’accordo sul principio che il diritto di organizzazione sindacale debba essere riconosciuto dalla Costituzione, ma che i dissensi sono affiorati solo sul modo di articolare in termini precisi il diritto di organizzazione sindacale, proponendo, in alternativa alla proposta del testo presentato da Togliatti, di scrivere “Il diritto di organizzazione sindacale è garantito ”. Lelio Basso (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) a sua volta propone la seguente formula, nella quale per la prima volta entra nella discussione della Costituente il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende: “ E’ garantita a tutti i lavoratori la libertà di associarsi per la difesa e il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita e per una maggiore partecipazione alla gestione della produzione”. Tale formulazione viene sostanzialmente condivisa da Togliatti , mentre Dossetti accoglie la formula proposta dal presidente Tupini in quanto, a suo avviso, più sintetica e comprensiva di tutto. Basso ritira a questo punto la sua proposta e la formula proposta dal presidente è approvata con 10 voti favorevoli e 2 contrari. La seduta poi prosegue approfondendo il tema del diritto di sciopero;
-       contemporaneamente ai lavori della prima Sottocommissione, lo stesso 11 ottobre 1946, nella seduta mattutina, la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione iniziava la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, dove viene data lettura della proposta di Giuseppe Di Vittorio (Partito Comunista Italiano), il quale ha messo agli atti la proposta del seguente articolo che, dettato in tema di associazioni in generale, deve necessariamente ricomprendere anche i sindacati: “Il diritto di associazione è riconosciuto a tutti i cittadini d’ambo i sessi ed agli stranieri residenti legalmente sul territorio nazionale, senza distinzione di razza. Tale diritto è garantito dalla legge e non potrà essere limitato dagli scopi politici, sociali, religiosi o filosofici che persegue l’associazione ”. Amintore Fanfani (Democrazia Cristiana), interpretando la proposta di Di Vittorio, ritiene che il diritto di associazione sindacale debba essere certamente compreso nel quadro del diritto di associazione in generale, ma che, per la particolare valenza che tale tipo di associazione riveste, debba ricevere necessariamente una disciplina giuridica particolare, e così propone di aggiungere alla proposta di Di Vittorio il seguente testo: “Il diritto di associazione per la tutela dei propri interessi economici e professionali è riconosciuto a tutti coloro i quali partecipano all’attività economica ”;
-       lo stesso 11 ottobre 1946, nella seduta del pomeriggio, la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale. Di Vittorio (Partito Comunista Italiano), facendo seguito alla sua proposta in tema di associazioni, e con particolare riferimento a quelle sindacali, suggerisce il seguente testo da inserire nella futura Costituzione: “Il lavoro è la base fondamentale della vita e dello sviluppo della società nazionale. Lo Stato dovrà garantire per legge una efficace protezione sociale dei lavoratori manuali ed intellettuali. I sindacati dei lavoratori, quali organi di autodifesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, sono riconosciuti enti d’interesse collettivo”. A proposito del concetto di “interesse collettivo ”, il presidente della terza Sottocommissione Gustavo Ghidini (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) ritiene che debba essere chiarita la natura giuridica del sindacato, soprattutto per il rilevo che tale associazione ha in tema di obbligatorietà dei contratti collettivi che esso stipula, e propone che sia opportuno ammettere in tal senso il riconoscimento giuridico dei sindacati, pur senza precisarne la natura giuridica e senza farne ovviamente degli enti pubblici come erano le corporazioni durante il regime fascista. In tale senso egli ritiene che dovrebbe sopprimersi, perché equivoca, l’espressione “enti di interesse collettivo ” e dichiarare semplicemente che al sindacato viene riconosciuta la personalità giuridica, senza la quale tale ente non può infatti obbligare giuridicamente e di conseguenza stipulare i contratti di lavoro. Fanfani a questo punto propone il seguente testo: “Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori è riconosciuta la personalità giuridica ”, in quanto parte dal presupposto che solo un ente riconosciuto possa avere il potere di vincolare, tramite il contratto collettivo, anche i lavoratori non iscritti al sindacato, e Colitto (Fronte dell’Uomo Qualunque) propone, al fine di togliere ogni dubbio circa il potere dei sindacati di vincolare anche i lavoratori non iscritti alle disposizioni dei contratti collettivi, di aggiungere l’inciso “Il contratto collettivo di lavoro ha valore di legge ”. Quanto affermato da Colitto però aveva un chiaro senso quando, in epoca fascista, ogni corporazione era un vero e proprio ente pubblico nel quale erano obbligatoriamente iscritti tutti i lavoratori e i datori di lavoro di un determinato settore produttivo predeterminato per legge, per cui non vi era dubbio che tale ente potesse emanare norme obbligatorie per tutti i lavoratori di quel comparto, ma dopo la caduta del fascismo il sistema corporativo era stato abrogato e si era ricostituita la Confederazione generale del lavoro, un ente associativo volontario che la Costituzione non avrebbe mai potuto inquadrarlo come ente istituzionale: il diritto del lavoro e quello sindacale repubblicano avrebbero finito per assomigliare pericolosamente a quello fascista, e del resto la stessa Confederazione generale del lavoro, che costituiva la rappresentanza unitaria dei lavoratori in assenza di associazioni sindacali concorrenti, non aveva mai manifestato alcun interesse a questo riconoscimento giuridico. Michele Giua (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) a questo punto ritiene che il riconoscimento giuridico debba farsi per quei sindacati che aderiscono alla Confederazione generale del lavoro, l’unica organizzazione sindacale esistente all’epoca dei lavori dell’Assemblea Costituente;
-       il 12 ottobre 1946 la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, e, proseguendo l’analisi del giorno precedente a proposito della competenza a stipulare accordi di lavoro collettivi, Colitto (Movimento dell’Uomo Qualunque) rileva - pensando sicuramente ad un futuro nel quale l’allora Confederazione generale del lavoro unitaria si sarebbe scissa in più sindacati indipendenti tra loro - che la disciplina relativa all’individuazione del sindacato o dei sindacati autorizzati a sottoscrivere contratti collettivi vincolanti anche per i non iscritti dovesse essere demandata, data la sua complessità, alla legge ordinaria e non stabilita nella Costituzione. Il problema della frammentazione sindacale porta a questo punto Emilio Canevari (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) a proporre l’istituzione di un Consiglio nazionale del lavoro, con il compito, tra l’altro, di riconoscere giuridicamente i sindacati ai quali attribuire la funzione di contrattazione collettiva. Il sindacalista socialista infatti formula la seguente proposta: “L’associazione per la tutela degli interessi economici, professionali e sindacali, è libera. La legge provvederà al riconoscimento dei sindacati professionali, ai quali è attribuito il compito di stipulare contratti collettivi di lavoro, aventi efficacia giuridica per tutti gli appartenenti alla categoria, alla quale ogni contratto si riferisce. Per legge sarà costituito il Consiglio nazionale del lavoro, nel quale saranno proporzionalmente rappresentate, con il Governo, le forze produttive della Nazione, per la regolamentazione dei sindacati professionali, il loro riconoscimento, l’eventuale stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, la elaborazione della legislazione sociale adeguata ai bisogni del lavoratori, nell’interesse generale, e la sua applicazione ”. Alla proposta di Canevari risponde Di Vittorio (Partito Comunista Italiano), il quale formula una proposta non dissimile: “Ai sindacati professionali è riconosciuto il diritto di contribuire direttamente alla elaborazione di una legislazione sociale adeguata ai bisogni dei lavoratori - e a controllarne l’applicazione - mediante la costituzione di un Consiglio nazionale del lavoro nel quale siano rappresentate, con il Governo, tutte le forze produttrici della Nazione, in misura che tenga conto dell’efficienza numerica di ciascuna di esse”.
Si noti che in entrambe le proposte, di Canevari e di Di Vittorio, è previsto l’intervento del governo all’interno di un ancora ipotetico Consiglio nazionale del lavoro, e in entrambe si da per scontata l’esistenza di più sindacati, dei quali bisognerà semmai contare il peso al fine di attribuire rappresentanza nel costituendo Consiglio. I due esponenti politici, nonché - è bene ricordarlo - massimi dirigenti sindacali dell’epoca, si muovono già in una visione del sindacato che punta a privilegiare, depotenziando la funzione di tali associazioni nella lotta di classe tra capitale e lavoro, il ruolo istituzionale di tali organismi. Nelle piazze Canevari e Di Vittorio predicavano agli operai la lotta di classe, mentre nelle aule dell’Assemblea Costituente contribuivano di fatto a costruire un sistema che, istituzionalizzando i sindacati, li coinvolgeva pienamente nello Stato borghese, ma dimenticando entrambi, a proposito di quest’ultimo, che nei confronti dello Stato borghese il movimento operaio è antagonista non meno che nei confronti del capitale, infatti “se lo Stato è un prodotto dell’inconciliabilità degli antagonismi di classe, se esso è una forza che sta al di sopra della società e che ‘si estranea sempre più dalla società’, è evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante e nel quale questa ‘estraneazione’ si è materializzata” (Lenin, Stato e Rivoluzione , Piccola biblioteca marxista-leninista 6, Firenze, 1999, p. 7).
E già Stalin, il cui nome più volte risuonò nelle aule dell’Assemblea Costituente dove fu presa ad esempio, anche dai democristiani, la Costituzione sovietica del 1936, rispondendo idealmente a Canevari e a Di Vittorio già nel 1907, riconosce che gli scioperi e le manifestazioni (e quindi di conseguenza i sindacati che indicono i primi e le seconde) sono parte integrante della lotta di classe, e la loro funzione fondamentale (e quindi la funzione fondamentale dei sindacati) è di forgiare la coscienza di classe nonché di coordinare e organizzare i lavoratori nella lotta che condurrà alla Rivoluzione socialista, e c’è da giurarci che i due massimi esponenti, sedicenti marxisti, del sindacalismo italiano dell’epoca beffavano letteralmente i lavoratori tentando da una parte di irretire i sindacati nello Stato borghese e dall’altra di mandare in soffitta gradualmente l’idea stessa di Rivoluzione socialista.
Si ascolti dunque con la massima attenzione l’analisi di Stalin al fine di comprendere quale sia il ruolo del sindacato, che non è certo quello di essere invischiato nelle istituzioni borghesi e alla fine risucchiato da esse: “Gli scioperi, il boicottaggio, il parlamentarismo, la manifestazione, la dimostrazione: tutte queste forme di lotta sono buone come mezzi che preparano e organizzano il proletariato. Ma nessuno di questi mezzi è atto a distruggere l’ineguaglianza esistente. E’ necessario concentrare tutti questi mezzi in un mezzo principale e decisivo, è necessario che il proletariato insorga e conduca un attacco decisivo contro la borghesia, per distruggere dalle fondamenta il capitalismo. Questo mezzo principale e decisivo è precisamente la rivoluzione socialista” (Stalin, Anarchia o socialismo? , 1907, in Opere complete, Roma, 1955, p. 381).
Proseguendo i lavori, Giua (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) ritiene che, una volta ammesso il principio della libertà di associazione sindacale, e quindi prendendo atto della futura esistenza di più sindacati, bisogna accedere alla creazione di un organo al di sopra delle parti, che abbia il potere di stipulare, eventualmente in seconda istanza, i contratti collettivi;
- nella seduta del 14 ottobre 1946 la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue i lavori in tema di diritto di associazione e di ordinamento sindacale. Francesco Marinaro (Blocco Nazionale della Libertà) ritiene, conformemente alla sua visione liberale, che non debba essere riconosciuta alcuna situazione di preminenza alle associazioni dei lavoratori rispetto a quelle dei datori di lavoro, in quanto, a suo avviso, gli interessi dei lavoratori coinciderebbero con quelli generali della nazione, e si concretizzerebbero nel maggiore sviluppo della economia nazionale, nell’incessante aumento della produzione e in un maggiore arricchimento del Ppaese, interessi che accomunerebbero i lavoratori e i datori di lavoro.
Giua (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) gli obietta che difendere le classi produttrici in senso astratto significherebbe tornare indietro alla metà dell’Ottocento e annullare lo sforzo fatto dalle classi lavoratrici per inserirsi nel quadro politico della vita sociale e politica nazionale, in quanto le classi produttrici hanno dimostrato di essere conservatrici al punto tale da avere cavalcato il fascismo pur di difendere i propri interessi e, speculando sul potere dello Stato che avevano in mano, trascinarono le masse lavoratrici in uno stato di disagio tale da fargli rasentare quasi lo stato di schiavitù.
Antonio Pesenti (Partito Comunista Italiano) appoggia in pieno la tesi di Giua, aggiungendo che le organizzazioni di categoria dei datori di lavoro non hanno bisogno di tutela giuridica, in quanto già detengono il potere economico . Giuseppe Rapelli (Democrazia Cristiana) d’altra parte fa notare che nessuno contesta all’imprenditore il diritto di associazione.
A questo punto Colitto (Fronte dell’Uomo Qualunque) propone il seguente testo: “L’associazione sindacale è libera. La legge ne determina i poteri. Il contratto collettivo di lavoro ha efficacia di legge ”. Giuseppe Rapelli (Democrazia Cristiana) a sua volta propone il suo testo: “L’associazione sindacale è libera. Per la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze unitarie delle varie categorie professionali e detterà le norme relative ”. Infine Marinaro (Blocco Nazionale della Libertà) propone il suo testo, ovvero “Alle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, quali organi di autodifesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori per cui sono costituite, è garantita l’indipendenza, l’autonomia e la libertà nello svolgimento della loro attività, secondo le norme che saranno fissate dalla legge. Le suddette associazioni saranno in particolare chiamate a partecipare pariteticamente, con propri rappresentanti, in tutti gli organi, enti e istituti a carattere consultivo e deliberativo che abbiano attinenza con gli interessi della produzione nazionale dal punto di vista sindacale, sociale ed economico ”;
- il 15 ottobre 1946, nella breve seduta mattutina, proseguono i lavori della terza Sottocommissione. Riguardo al tema del riconoscimento giuridico dei sindacati, Mario Assennato (Partito Comunista Italiano) propone la seguente formula: “La legge stabilirà i termini per il riconoscimento giuridico dei sindacati, ai fini della stipulazione di contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia per tutti gli appartenenti alla categoria . Su tale formula si sviluppa una discussione che proseguirà nel pomeriggio;
- infatti nel pomeriggio del 15 ottobre 1946 i lavori proseguono presso la terza Sottocommissione sullo stesso tema. Assennato riprende il tema del riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali, a tutela delle quali si preoccupa affinché il riconoscimento non implichi indebite interferenze o controlli dello Stato nella loro vita interna, ed è per questo motivo che la sua proposta va nel segno del riconoscimento, ma solo ed esclusivamente ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi. Ritiene insomma il riconoscimento un’arma a doppio taglio: da una parte conferisce autorità al sindacato e gli consente di stipulare contratti collettivi, ma dall’altro lo mette in condizioni di subire controlli da parte del governo. L’importante, per Assennato, è che in sede costituzionale si precisi che il riconoscimento giuridico non implichi un inquadramento giuridico del sindacato come ente pubblico e, quindi una sottoposizione al controllo dello Stato o di altra autorità pubblica. La seduta poi prosegue per la trattazione di altre questioni che non riguardano la materia qui esaminata;
- il 17 ottobre 1946, nella seduta mattutina, proseguono i lavori della terza Sottocommissione sui temi qui esaminati. Giuseppe Di Vittorio (Partito Comunista Italiano) riprendendo la proposizione di Assennato fatta il giorno precedente, ritiene che la Costituzione deve necessariamente riconoscere ai sindacati quella che, a suo avviso, è la sua funzione principale, cioè la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro e, poiché tali atti giuridici debbono avere efficacia giuridica e quindi essere obbligatori per tutta la categoria cui si riferiscono, ne deriva che il sindacato, per avere il diritto di stipularli, deve avere il riconoscimento della personalità giuridica. D’altra parte, continua il dirigente politico e sindacale (allora segretario generale della Cgil), nello stabilire le condizioni di questo riconoscimento, si deve al contempo garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà del sindacato, quindi ritiene che il solo obbligo che possa essere imposto al sindacato riconosciuto, al quale è attribuito il diritto di stipulare contratti di lavoro, è quello della registrazione e del controllo, per impedire che un falso sindacato possa attribuirsi dei diritti senza avere una consistenza effettiva. Quindi, nel pensiero di Di Vittorio, occorre necessariamente un organo terzo e imparziale che accerti se e in quale misura un dato sindacato abbia efficienza e caratteri di indipendenza, autonomia e libertà per gli iscritti, ed egli individua tale organo nel futuro Consiglio nazionale del lavoro ed ai suoi organi locali, escludendo nel modo più esplicito che i sindacati possano essere sottoposti al controllo di organi di polizia, o comunque possano essere suscettibili di abusi e di ingerenze indebite da parte di una pubblica autorità. Eppure, a ben guardare, anche il futuro Consiglio nazionale del lavoro non sarebbe stato altro che un ente pubblico facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato borghese, per cui comunque, con il riconoscimento, i sindacati dei lavoratori diventerebbero, da antagonisti per loro stessa origine e natura, parte dell’ordinamento giuridico (in quanto riconosciuti) e dell’ordinamento economico (in quanto autorizzati a stipulare contratti collettivi). Di Vittorio prosegue poi sostenendo da una parte il principio della libertà sindacale (e quindi ammettendo l’esistenza di una pluralità di sindacati) ma ritenendo dall'altra che non tutti i sindacati debbano avere il diritto di stipulare il contratto di lavoro, un diritto che spetta, secondo Di Vittorio, solo a quello maggioritario con rappresentanza proporzionale dei sindacati di minoranza, così da consentire a tutti i sindacati riconosciuti dalla legge di stipulare i contratti collettivi;
- il 17 ottobre 1946, nella seduta pomeridiana, la terza Sottocommissione prosegue la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale. Di Vittorio presenta la sua proposta, che così come formulata, andrà a costituire, con emendamenti, il primo, secondo e parte del quarto comma dell’art. 39 della Costituzione: “L’organizzazione sindacale è libera. All’organizzazione sindacale non può essere imposto altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali o centrali. Ai sindacati è attribuito il compito di stipulare contratti collettivi di lavoro secondo quanto è stabilito dalla legge ”. Giuseppe Rapelli (Democrazia Cristiana) propone poi il suo testo, per il quale anche Di Vittorio non dimostra contrarietà: “L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze sindacali unitarie di ciascuna e detterà le norme relative ”. Anche Emilio Canevari (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) formula la sua proposta: “L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze unitarie scelte nell’orbita dei rispettivi sindacati e detterà le norme relative ”. Colitto poi formula la sua proposta, chiarendo che tra le associazioni professionali intende comprendere anche i sindacati: “L’associazione professionale è libera. La legge ne preciserà i poteri. Il contratto collettivo di lavoro ha valore di legge ”.
A questo punto, al fine di chiarire meglio il rapporto reciproco di più sindacati liberi che concorrano alla stipulazione dei contratti collettivi, Di Vittorio propone, rettificando l’ultimo comma precedentemente proposto, il seguente testo: “Le rappresentanze sindacali formate in proporzione degli iscritti stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati . A suo avviso, la personalità giuridica del sindacato deve avere un triplice scopo: dare facoltà ai sindacati di stipulare i contratti collettivi, dare loro il diritto di costituirsi in giudizio e dare la facoltà di possedere dei beni, ed è altresì sua opinione che debba essere la legge ordinaria a stabilire i requisiti per il riconoscimento dei sindacati, per cui egli così integra la sua proposta: “Ai sindacati, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici professionali e morali dei lavoratori, viene riconosciuta la personalità giuridica. La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro”. Le due nuove proposte di Di Vittorio vengono approvate dalla Sottocommissione;
- il 22 ottobre 1946 la terza Sottocommissione prosegue la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale. Giuseppe Togni (Democrazia Cristiana) richiede di migliorare la formulazione degli articoli proposti da Di Vittorio nella parte relativa al riconoscimento giuridico, e Di Vittorio si dichiara disponibile a migliorarli, pur rimanendo fermo su un punto: a suo avviso infatti il sindacato deve ottenere il riconoscimento giuridico limitatamente ai tre scopi da lui stesso enunciati, ovvero per avere la capacità giuridica di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutta la categoria, per avere la possibilità di costituirsi in giudizio, e infine per avere la possibilità di acquistare e possedere beni. Togni, invece, sostiene che la facoltà di stipulare i contratti collettivi non vada conferita al sindacato, ma ad un ente costituito dalla rappresentanza di vari sindacati, ossia ad un altro ente, che Di Vittorio giudica un vero e proprio apparato burocratico totalmente estraneo al sindacato. Infatti, secondo l’esponente del Partito Comunista Italiano la rappresentanza deve essere semplicemente la sintesi dei vari sindacati, formata dai loro rappresentanti, e non un ente diverso, che risulterebbe estraneo alla logica sindacale e alla rappresentanza dei lavoratori.
Interviene nel dibattito anche Amintore Fanfani (Democrazia Cristiana) il quale paventa la possibilità che in futuro possano formarsi sindacati fittizi promossi dagli imprenditori al fine di danneggiare l’azione sindacale, rimarcando il concetto fondamentale che il numero degli iscritti debba essere un dato fondamentale al fine di eliminare dalla contrattazione sindacati fittizi, e propone quindi il seguente testo: “Le rappresentanze sindacali unitarie di categoria dei sindacati registrati, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro obbligatorio per tutti gli appartenenti al settore economico cui si riferiscono ”. Fanfani per la verità chiarisce che con l’espressione “sindacati” intende sia le associazioni composte da lavoratori sia quelle composte dai datori di lavoro le quali, secondo l’esponente democristiano, devono formalmente stare sullo stesso piano di parità, ma Di Vittorio gli obietta che affermare nella Costituzione il concetto che il sindacato dei lavoratori e quello dei datori di lavoro siano due personalità giuridiche uguali non è ammissibile, soprattutto da un punto di vista sociale, innanzitutto perché i due istituti hanno entità numeriche molto differenti, ed in secondo luogo perché il sindacato dei lavoratori tutela interessi, di carattere collettivo e sociale, delle masse popolari, mentre quello dei datori di lavoro difende esclusivamente gli interessi di una ristrettissima categoria, i cui interessi privati sono spesso in contrasto con quelli delle masse popolari, ossia della quasi totalità della popolazione.
Fanfani a questo punto propone una sua sintesi che non è dissimile da quella di Di Vittorio e che sarà fondamentale per la redazione del definitivo testo del futuro articolo 39 della Costituzione, ovvero: “L’organizzazione sindacale è libera. In essa si riconosce un mezzo necessario per la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori. Ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica alle condizioni previste dalla legge, ma senza imposizione di altro obbligo all’infuori di quello della registrazione. Le rappresentanze sindacali unitarie formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati ”. Infine Francesco Maria Dominedò (Democrazia Cristiana) tenta una ulteriore sintesi tra le varie posizioni e propone il seguente testo, che la Sottocommissione alla fine approva all’unanimità sostituendolo ai precedenti: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali, è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro. Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali. Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai sindacati registrati in proporzione dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce ”. Tale testo costituisce un ulteriore passo in avanti verso quello che diventerà poi l’art. 39 della Costituzione;
-       il 26 ottobre 1946 il presidente della terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, Ghidini, comunica alla Commissione per la Costituzione che, a conclusione dei lavori della Sottocommissione e dopo avere effettuato il coordinamento degli articoli, ai quali sono stati apportate lievi modifiche formali, il testo di quello che viene provvisoriamente denominato art. 17 della Costituzione è il seguente: “Art. 17. Sindacati. L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro. Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali. Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai sindacati registrati in proporzione dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce ”;
-       successivamente la Commissione per la Costituzione rielabora il testo del provvisorio art. 17 pervenuto che diviene, nel testo definitivo di Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione, l’art. 35 che recita: “L’organizzazione sindacale è libera. Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce ”. Il testo è identico ai commi primo, secondo e quarto di quello che diventerà l’art. 39 della Costituzione. Manca ancora nel testo il terzo comma che tratta della democraticità interna richiesta ai sindacati come condizione per il riconoscimento. Nella sua relazione che accompagna il Progetto di Costituzione il presidente della Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini (Gruppo misto) disse a proposito di tale articolo: “Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza d’ogni norma - che ha reso in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo - e l’opposto e pesante sistema di regolazione minuta e pubblica, a tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza imposizione di sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di contratti collettivi; e questo avviene mediante rappresentanze miste costituite a tal fine e proporzionali per numero agli iscritti nei sindacati registrati ”;
-       il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione intitolato “Rapporti economici ”, all’interno del quale vi è il progettato art. 35. Francesco Maria Dominedò (Democrazia Cristiana) commentando l’articolo tocca il nodo del potere dei sindacati di stipulare contratti collettivi con valore vincolante anche per i non iscritti: “Quali sono i problemi essenziali che occorre risolvere rispetto alla disciplina e allo svolgimento di un moderno sindacalismo? Pare a noi che il primo problema da affrontare sia quello della libertà dell’organizzazione sindacale. Il primo comma dell’articolo 35 si ispira, infatti, a questo concetto preliminare, fissando un punto di partenza: esso muove dalla base del riconoscimento della libera organizzazione sindacale. Ed anche l’emendamento da noi proposto all’articolo 35 mantiene in ciò l’identica formula del progetto, intendendo così confermare l’incondizionata libertà di associazione per qualsiasi organizzazione di carattere e scopo sindacale. Vi è, tuttavia qualcosa da aggiungere in relazione a questo primo momento dell’organizzazione del lavoro: la libertà di associazione porta evidentemente alla possibilità di una pluralità sindacale. Questa conseguenza si ricollega alla necessità di considerare il sindacato come un organismo liberamente costituito e, quindi, all’esigenza di conferire piena funzionalità a tutte le organizzazioni sindacali che noi vogliamo indipendenti a tutela dei diritti del lavoratore. Ora, tale riconoscimento è realizzabile, tenendo conto della possibilità che l’organizzazione sindacale acquisti la personalità giuridica. Ecco così il primo gradino della scala. Noi dobbiamo cominciare a parlare della personalità giuridica di diritto privato, cioè della titolarità dei diritti da parte del sindacato, non essendo ancora giunti al secondo gradino che toccheremo solo quando daremo la possibilità di dettar norme alla categoria: solo in quel momento spetterà, infatti, al sindacato una potestà di imperio, per cui la personalità giuridica si trasferirà dal terreno di diritto privato in quello del diritto pubblico. Per quanto riguarda, invece, la prima fase, noi consideriamo certamente la possibilità di dettar norme agli iscritti al sindacato, ma non risolviamo ancora il problema di vincolare tutti gli appartenenti alla categoria, una volta che senza potestà di imperio non v’è possibilità di dettar norme agli appartenenti alla categoria, se non iscritti al sindacato. Nell’ambito delle singole associazioni sindacali, il problema è, pertanto, risolto col conferimento della personalità giuridica: conferimento che potrà essere accompagnato da un normale controllo sugli statuti dell’associazione; allo scopo di accertarne il carattere democratico, dal momento che il progetto di Costituzione subordina l’acquisto delle personalità alla condizione che l’organizzazione sindacale sia regolarmente registrata negli uffici centrali e locali. Ai sindacati non è, quindi, imposto altro obbligo che la registrazione secondo le norme di legge. A questo proposito dovrei dire che sarebbe preferibile una formulazione positiva invece di quella negativa adottata dal progetto, perché quando si dichiara che la personalità giuridica si ottiene mediante la registrazione, si afferma implicitamente che questa formalità rappresenta il solo onere richiesto costituzionalmente allo scopo. Al secondo e terzo comma del progetto sarebbe, quindi, preferibile, secondo l’emendamento proposto, un solo comma in formula positiva, più semplice appropriata. La possibilità di questa libera espansione delle associazioni professionali costituisce un dato di fatto che fa sorgere la seconda indagine, particolarmente scottante in quest’ora, sia fra noi che fuori, nel diritto interno e nel diritto comparato. Il secondo problema impone di tutelare l’interesse del lavoratore, acciocché egli non appaia frazionato davanti al datore di lavoro, onde, attraverso una rappresentanza unitaria delle associazioni professionali di lavoro, sia possibile raggiungere il risultato che la difesa del lavoro si affermi compatta, senza incrinature capaci di indebolirne le possibilità di affermazione. Se questa è l’esigenza economica e sociale, giuridicamente essa si traduce nella necessità di far sì che le associazioni sottostanti - così le chiameremo dato che abbiamo parlato di diversi gradini della scala - giungano ad organizzarsi nella loro rappresentanza ultima e unitaria, soltanto allora potendo parlarsi di personalità giuridica di diritto pubblico nella pienezza dell’espressione. Perché questo avvenga, si richiede un requisito essenziale, s’impone cioè che sussista da parte della legge, il riconoscimento di siffatta potestà di imperio, atta a dettar norme. Come si può arrivare a tale riconoscimento? I metodi potrebbero essere diversi. Nel seno della terza Sottocommissione - e basti a ciò spogliare i verbali dei nostri lavori - si è affacciata l’ipotesi di un sindacato maggioritario, il quale, per il solo fatto di poter rappresentare, ad un certo momento, il 51 per cento dei lavoratori o dei datori di lavoro potrebbe essere investito della potestà rappresentativa unitaria. Con la conseguenza di dettare le norme di categoria, cioè di stipulare contratti collettivi di lavoro, valevoli nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, oltre che degli iscritti al solo sindacato maggioritario. Ovvero - seconda soluzione - occorrerebbe far sì che la rappresentanza unitaria si costituisca legalmente, formandosi attraverso l’afflusso di tutte le libere associazioni sindacali. Questa è sembrata, per prevalente accordo e dopo approfondito esame, la tesi da doversi accogliere, come la più rispondente alle esigenze dell’ordine democratico al quale miriamo, poiché solo in questo modo è data la possibilità di rappresentare proporzionalmente, nell’ambito dell’organismo unitario sovrastante, tutte le forze liberamente associantisi nei sindacati ed esprimenti la reale consistenza delle forze del lavoro. Un rilievo dovrei, tuttavia, fare al progetto, laddove si vorrebbe tradurre in formule il concetto. A me pare che si incorra in equivoco tecnico, vorrei dire di logica giuridica, quando, nell’ultimo comma dell’articolo 35, si aggiunge: ‘Possono (i sindacati) rappresentanti unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce’. Il rilievo particolarmente giuridico, che l’assemblea valuterà nel suo giudizio politico, è questo: che nel momento in cui si costituisce la rappresentanza unitaria, a rigore non sono più le associazioni sottostanti quelle che parlano, bensì il sovrastante organo costituito a norma di legge. Poiché nel giuoco della rappresentanza non è il rappresentato, bensì il rappresentante quegli che esprime la dichiarazione di volontà, e cioè la manifestazione attraverso cui promanano le norme di categoria, affermandosi così nel seno del contratto collettivo di lavoro la norma valevole verso tutti gli appartenenti, oltre che gli iscritti. La fonte della norma risale, infatti, all’organo unitario, al quale, come ad un sindacato di secondo grado, le libere associazioni sottostanti, rappresentate democraticamente e proporzionalmente, hanno deferito la propria capacità di fare una manifestazione di volontà giuridicamente rilevante, idonea a determinare una norma con efficacia vincolante, o ad intervenire per eliminare pacificamente i conflitti di lavoro, prevenendoli o dirimendoli. La formula che io dovrei proporre tende, quindi, ad un semplice spostamento di soggetti. Invece di continuare a far capo ai sindacati, si tratta di chiarire: ‘Le rappresentanze unitarie delle associazioni registrate, costituite in ragione proporzionale dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro vincolanti nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria’ ”.
L’intervento di Dominedò è assai illuminante, in quanto chiarisce in modo cristallino quale deve essere, all’interno dell’ordinamento giuridico borghese il ruolo dei sindacati, ossia delle organizzazioni a salvaguardia degli interessi dei lavoratori, la cui lotta di classe viene però fortemente depotenziata in quanto, nella visione costituzionale del relatore, il loro compito, lungi dall’essere antagonista al sistema, deve al contrario essere di supporto ad esso tramite quella che egli definisce “rappresentanza unitaria ”, una sorta di commissione i cui membri sono eletti dai vari sindacati, e alla quale spetta il ruolo di contrattazione collettiva;
-       il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione, nel quale rientra anche il progettato art. 35. A tal proposito esordisce Renato Tega (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) con un intervento assai critico nei confronti dell’articolo in questione: “Però, mentre sono non solamente solidale, ma addirittura riconoscente ai legislatori di questa nostra Costituzione per tutto il complesso delle rivendicazioni sociali che hanno voluto consacrare in questo terzo Titolo, non posso accettare, nell’attuale dizione, l’articolo, 35 che a mio modo di vedere è contraddittorio e oscuro per non dire ambiguo e può fornire alla futura Assemblea legislativa argomento e pretesto per eventuali amplificazioni che rendono completamente nulla la sua affermazione di principio o compromettono la stessa funzione morale e sociale del sindacato operaio. L’articolo 35 infatti comincia con la solenne dichiarazione che ‘L’organizzazione sindacale è libera’, ma nel secondo capoverso corregge questa affermazione aggiungendo che ‘non può essere imposto al sindacato altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge’ e continua con altre specificazioni di personalità giuridica dei sindacati e dei contratti collettivi con efficacia obbligatoria, ecc., il che in sostanza, seppure in forma confusa e reticente, viene a consentire un intervento permanente dello Stato, suscettibile di pericolosi sviluppi per la stessa libertà così recisamente proclamata nel primo capoverso. Ora, in questa delicatissima materia, bisogna essere chiari e precisi. Che cosa significa quell’obbligo di registrazione dei sindacati presso gli uffici governativi? Possiamo noi, per la stessa serietà dello Stato, credere effettivamente che, nel campo sindacale, la sua opera si riduca al semplice meccanismo della registrazione? A quale guazzabuglio prelude quella personalità giuridica che può essere reclamata contemporaneamente dai sindacati operai e dagli organismi padronali e quali rapporti si verrebbero a stabilire tra gli enti giuridici dei lavoratori statali e lo Stato stesso, che da un lato è l’espressione di tutti gli interessi della collettività e dall’altro è un datore di lavoro? Perché si ha tanta premura di dare un riconoscimento governativo alle istituzioni operaie che sono - e non possono essere altro - che associazioni di fatto? Io temo che dietro queste caute, prudenti formule, che in sostanza non dicono nulla, ma fanno prevedere qualche cosa di non perfettamente democratico, si nasconda il proposito di lasciare alla futura Assemblea legislativa uno spiraglio aperto per introdurre tutto il pericoloso bagaglio del corporativismo, di cui in taluni ceti è troppo vivo il ricordo e cocente la nostalgia ”.
Quello dell’oratore socialista è un intervento volto a salvaguardare l’indipendenza dei sindacati che egli definisce, con felice espressione “associazioni di fatto ”, memore che storicamente i sindacati dei lavoratori sono sorti a partire dalla prima metà dell’Ottocento come organizzazioni nate solo ed esclusivamente per portare avanti la lotta di classe in contrapposizione non soltanto verso i datori di lavoro, ma anche verso l’ordinamento giuridico che, di fatto, tutela in modo conservatrice gli interessi di questi ultimi. Tega dice insomma senza giri di parole che teme che con il pretesto della registrazione e del riconoscimento giuridico i sindacati possano diventare una sorta di cinghia di trasmissione utilizzata dallo Stato per controllare il mondo del lavoro, e magari per tenere buoni i lavoratori, insomma il timore di Tega è quello che il mondo operaio vada così incontro ad una sorta di corporativismo mascherato all’interno della nuova Repubblica della quale proprio in quel momento si costruivano le fondamenta;
-       il 7 maggio 1947, nella seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente dedicata, tra l’altro, anche alla discussione sul progettato art. 35 interviene Giuseppe Di Vittorio (Partito Comunista Italiano): “Ma quando noi, tenendo conto della tradizione che si è stabilita nel nostro Paese, abbiamo voluto affermare che il riconoscimento giuridico dei sindacati non deve implicare una dipendenza dei sindacati stessi dallo Stato, non abbiamo voluto esprimere nessuna diffidenza verso lo Stato democratico repubblicano; tanto è ciò vero, che nello statuto della Confederazione generale italiana del lavoro è affermato nettamente il principio che i sindacati, oltre a difendere gli interessi economici dei lavoratori, si preoccupano anche della difesa delle libertà democratiche e della Repubblica. Perciò, nessun sospetto dei lavoratori verso lo Stato democratico e repubblicano; ma noi crediamo che la esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza completa dei sindacati rispetto ai poteri dello Stato non sia incompatibile col rispetto che i lavoratori hanno verso lo Stato democratico, ed anzi con la loro volontà di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione per difendere lo Stato democratico contro qualsiasi assalto o tentativo di assalto reazionario e monarchico. In questo stesso articolo è affermato il principio della obbligatorietà dei contratti di lavoro. Io desidero per un momento attirare l’attenzione dei colleghi sulla necessità di questa obbligatorietà. I sindacati sono abbastanza forti per tutelare efficacemente gl’interessi dei lavoratori, per ottenere la stipulazione di contratti collettivi, che, nei limiti delle possibilità reali, soddisfino le loro esigenze. Però ci si trova molto spesso di fronte a dei datori di lavoro tanto egoisti e tanto antisociali, da non volere riconoscere nemmeno i contratti di lavoro, che sono stipulati liberamente fra le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori. In questo caso, l’organizzazione dei lavoratori non ha che un mezzo per far valere il proprio diritto: l’agitazione, lo sciopero, la lotta contro quel datore di lavoro egoista che si rifiuta di accogliere i giusti diritti dei lavoratori. E, naturalmente, siccome il numero di questi datori di lavoro non è così esiguo, come si potrebbe pensare, ciò ci porterebbe a dover scatenare una serie di agitazioni e di lotte, che noi vogliamo evitare al nostro Paese. Attualmente, il datore di lavoro che non voglia rispettare i contratti (o che non voglia più rispettarli, se ad un certo momento li trova poco convenienti o se, sotto la pressione della disoccupazione, viene ad ottenere l’offerta di lavoratori affamati, a condizioni inferiori a quelle stabilite nei contratti di lavoro), dichiara che il contratto stipulato fra le due organizzazioni non lo impegna personalmente - o perché non è socio o perché, se lo era, si è dimesso -; quindi egli non avrebbe nessun obbligo di osservarlo. Questa disposizione, sancita nell’articolo 35 della Costituzione e che verrà, naturalmente, come tutti i principî sanciti dalla Costituzione, regolata da una legge, eviterà queste agitazioni, dando efficacia di legge ai contratti di lavoro, e quindi obbligando anche quei datori di lavoro egoisti, antisociali, ai quali ho accennato, a rispettare i contratti collettivi come le leggi sociali .
Giuseppe Di Vittorio fa una netta distinzione tra Stato fascista e Stato repubblicano, ma non è certo improntata ad una concezione rivoluzionaria la sua adesione, come uomo politico e anche come sindacalista, alle istituzioni del nuovo Stato repubblicano che, contemplando e tutelando - senza neanche frapporre limiti degni di nota - la proprietà privata dei mezzi di produzione, si contraddistingue chiaramente come Stato borghese. Engels affermava chiaramente che non è il tipo di Stato che determina quale classe sociale sta al potere, ma è l’esatto contrario: “Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa ” (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato , Piccola biblioteca marxista-leninista, Firenze, 1994, p. 160).
Pur con le dovute differenze che Di Vittorio ovviamente mette in risalto, da un punto di vista sociale l’ordinamento politico fascista e quello della neonata Repubblica sono due differenti sovrastrutture dello stesso, identico sistema capitalista dove la stessa borghesia che con il fascismo governava in un modo nella Repubblica continuerà a governare in una modalità diversa, ma continuerà a governare, a meno che una Rivoluzione socialista non spazzi via la borghesia come classe, perché il proletariato può vivere senza borghesia, ma la borghesia non può sopravvivere senza il proletariato che la alimenti. E Di Vittorio, lo spiega benissimo, sostiene che i lavoratori devono rispettare pienamente lo Stato democratico, al massimo viene chiesto loro di mobilitarsi contro la reazione. Quella di Di Vittorio è una visione che, più che marxista-leninista, sembra riformista e legalitaria che a tutto pensa tranne che a costruire le basi per la Rivoluzione socialista. Nella visione politica, e soprattutto sindacale, di Giuseppe Di Vittorio la lotta di classe delle masse lavoratrici - essenziale in ogni momento storico e imprescindibile nella società dominata dalla borghesia, come era anche quella italiana dell’epoca - va depotenziata e alla fine imbrigliata e resa inoffensiva, così da non costituire alcun pericolo per la borghesia. Nella visione di Di Vittorio lo stesso sciopero - elemento fisiologico nella lotta di classe sin dal XVIII secolo - viene invocato quasi come una misura eccezionale contro quei datori di lavoro egoisti, antisociali ”, come se l’egoismo e l’antisocialità fossero caratteristiche proprie di qualche sporadico capitalista e non del sistema capitalista in quanto tale. Insomma, con una siffatta concezione liberale del mondo di sedicenti comunisti come Di Vittorio la borghesia italiana ha potuto dormire sonni tranquilli.
-       Il 10 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente, tra l’altro, esamina gli emendamenti al progettato art. 35 della Costituzione. Costantino Mortati (Democrazia Cristiana) presenta il seguente emendamento con il quale sostituire il terzo comma dell’art. 35: “I sindacati, per poter partecipare a funzioni di carattere pubblico, devono essere ordinati in modo democratico ed ottenere la registrazione presso Uffici locali o centrali a norma di legge ”. Il deputato democristiano così argomenta il suo emendamento: “Quest’obbligo di una organizzazione interna democratica, ed il corrispondente diritto dello Stato di pretendere che l’associazione assuma una siffatta forma di struttura, è stato affermato dal relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, il quale ha espressamente detto che debba richiedersi dai sindacati un ordinamento interno democratico, con l’elezione mediante voto segreto e diretto dei loro dirigenti e con l’obbligo di sottoporre all’approvazione dell’assemblea dei soci i bilanci preventivi e consuntivi. La necessità prospettata trova una duplice giustificazione in quanto, da una parte, tende ad assicurare il buon funzionamento dell’ente sindacale, dall’altra, crea le condizioni per la consapevole partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato democratico. Dal punto di vista della prima giustificazione, mi pare ovvio che il sindacato il quale sia chiamato a partecipare alla formazione della volontà costitutiva dei contratti collettivi, i quali hanno efficacia normativa nei confronti di tutti coloro che sono compresi nella categoria, anche se non fanno parte del sindacato, operi attraverso l’intervento libero e consapevole di tutti i suoi appartenenti. Tanto più che costoro assumono la responsabilità dell’adempimento delle disposizioni di cui al contratto collettivo, e non sarebbe giusto addossare loro obblighi che derivassero da una volontà, che essi non hanno contribuito a formare. Anche dal punto di vista del buon funzionamento dello Stato democratico, mi pare che sia necessario di pretendere questa organizzazione democratica dei sindacati. Infatti lo Stato moderno, che chiama alla vita politica masse ingenti di cittadini, ha bisogno di educare tali masse alla esatta valutazione degli interessi collettivi, e quindi non può non giovarsi dell’opera che in tal senso possono svolgere gli organismi minori, di carattere pubblicistico. Potrebbe sorgere un dubbio, che attraverso la richiesta di un’organizzazione democratica si consenta un intervento da parte degli organi dello Stato nella vita interna dell’organizzazione sindacale con l’effetto di limitarne l’autonomia. Ma io osservo che quando si esige la registrazione, questa non può avvenire automaticamente, presupponendo l’accertamento di quelle che sono le forme organizzative dell’associazione sindacale. Non è infatti possibile che la registrazione avvenga se non siano depositati gli statuti e gli elenchi dei soci. Quindi, dato l’obbligo della registrazione, l’autorità che deve effettuarla ha tutti gli elementi per poter giudicare del carattere democratico della organizzazione, senza uopo di altri accertamenti. La vera garanzia all’autonomia della organizzazione sta nella scelta dell’organo che deve procedere a questo accertamento, e mi pare che giustamente il relatore della terza Sottocommissione abbia sostenuto che agli stessi appartenenti alla organizzazione sindacale, attraverso la creazione di organi, che da essi derivano, come il Consiglio nazionale del lavoro, debba competere l’accertamento dell’esistenza di queste condizioni di organizzazione democratica. Si potrebbe anche pensare ad un appello contro il giudizio in sede di registrazione da parte del Consiglio Nazionale del Lavoro, di fronte alla Corte delle garanzie costituzionali che potrebbe mettere al riparo da possibili abusi. La conseguenza dell’obbligo della organizzazione democratica sarebbe di creare un diritto a favore degli associati, di pretendere il rispetto dell’organizzazione democratica; quindi la possibilità anche di una azione giudiziaria di difesa dell’interesse legittimo, di fronte agli organi chiamati a tutelare questo interesse, contro possibili eliminazioni o limitazioni dei principi che debbono essere consacrati negli statuti. L’ultimo punto che potrebbe essere oggetto di dubbio è questo: deve questo principio essere inserito nella Costituzione? Ha una rilevanza costituzionale? A me pare che non debba esser dubbia la risposta affermativa. Infatti in uno Stato moderno, come il nostro, che voglia porsi dei compiti interventisti nel campo dell’economia, i sindacati assumono una funzione essenziale sul funzionamento dello Stato, essendo elementi costitutivi della struttura dello Stato stesso. Ne consegue la rilevanza costituzionale di questi organismi e la necessità di una inserzione nella Costituzione dei principi fondamentali che servono a delineare l’organizzazione di questi enti ”.
E’ degno di nota l’intervento di Costantino Mortati in quanto è assai sottile sia sotto il profilo giuridico (Mortati è uno dei maggiori giuristi democratici borghese italiani del Novecento) sia sotto quello politico: sotto il primo profilo, non vi è dubbio che l’introduzione del criterio della democraticità della vita interna ai fini della valutazione dei sindacati risponde all’esigenza di uno Stato democratico di non consentire alle organizzazioni sindacali - che sono chiamate a stipulare contratti collettivi con valore obbligatorio e quindi necessitano di garanzie di operato democratico - di strutturarsi internamente secondo criteri difformi da quelli che guidano la stessa Costituzione democratica borghese. Ma con tale sottile argomentazione giuridica Mortati vuole di fatto sottoporre i sindacati ad un continuo esame da parte dell’autorità governativa e statale, obbligando di fatto i sindacati a integrarsi completamente nella sovrastruttura giuridica e nella struttura economica dello Stato borghese, rendendoli di fatto, dal punto di vista della lotta di classe, inoffensivi. Non si possono interpretare in altro senso parole come “i sindacati assumono una funzione essenziale sul funzionamento dello Stato, essendo elementi costitutivi della struttura dello Stato stesso ”: quello che a prima vista sembra, da parte del giurista democristiano, un entusiastico riconoscimento del ruolo sociale di tali organizzazioni, ad un attento esame si rivela il tentativo, poi riuscito per mano anche di altri, di irretire e imbrigliare nel sistema i sindacati al fine di svuotarli (e di conseguenza di svuotare i lavoratori ad essi iscritti) di ogni coscienza di classe e rivoluzionaria, e qui sta la sottigliezza politica utilizzata da Mortati.
E la sua lezione fu ben recepita da un gruppo trasversale di deputati che concordarono a loro volta con lo stesso Mortati quell’emendamento che andò a costituire quello che è attualmente il terzo comma dell’art. 39 della Costituzione, ovveroÈ condizione per la registrazione che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento interno democratico”. Tali deputati erano (oltre allo stesso Mortati) Benvenuti, Carboni, Moro, Taviani (Democrazia Cristiana), Bitossi, Di Vittorio, Laconi (Partito Comunista Italiano), Arata, Canevari, Francesco Mariani (Partito Socialista Italiano) e Veroni (Democrazia del lavoro). Il testo definitivo approvato pertanto fu il seguente: “L’organizzazione sindacale è libera. Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso gli uffici locali e centrali, secondo le norme di legge. E’ condizione per la registrazione che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento a carattere democratico. I sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente, in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti si riferiscono ”;
-       Infine, il 20 dicembre 1947 l’Assemblea Costituente vota quello che sarebbe diventato, nella stesura definitiva della Costituzione, l’art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce
 

La Carta dei diritti universali del lavoro e il riconoscimento giuridico dei sindacati dei lavoratori e
 
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nonostante il dibattito circa il riconoscimento giuridico dei sindacati, l’art. 39 della Costituzione non trovò applicazione in quanto nessun sindacato fino all’inizio del 2016 ha mai dichiarato di volersi sottoporre a una qualsivoglia registrazione, ai sensi del secondo comma dell’art. 39, al fine di acquistare la personalità giuridica, condizione che il quinto comma di tale norma ritiene indispensabile al fine di consentire ad essi di partecipare alla stipula di contratti di lavoro collettivi obbligatori e vincolanti anche per i lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. I motivi della mancata attuazione del secondo comma dell’art. 39 della Costituzione sono sia di carattere politico sia di carattere tecnico.
Sul piano politico, le motivazioni sono sintetizzabili nell’avversione, da parte dei sindacati, nei confronti dell’idea dell’attuazione costituzionale, a cominciare dalla CISL che - in quanto sindacato fortemente minoritario come numero di iscritti rispetto alla CGIL nel meccanismo di rappresentanza unitaria costituita proporzionalmente al numero degli iscritti (come dettato dal quarto comma dell’art. 39) - avrebbe inevitabilmente finito per avere un ruolo subalterno posizione di minoranza). La CISL inoltre elaborò sin dalla sua nascita la teoria del cosiddetto pancontrattualismo, volta a privilegiare, nella tutela dei lavoratori, l’attività sindacale rispetto all’intervento dello Stato. A tale posizione, soprattutto dopo la vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni politiche del 1948, si accodò anche la CGIL, nonostante che il suo segretario generale Giuseppe Di Vittorio fu all’Assemblea Costituente uno dei maggiori sostenitori di tale sistema, e quindi anche il maggior sindacato italiano fece a sua volta proprio l’atteggiamento di avversione nei confronti di una legge attuativa dell’art. 39, per il timore che da essa scaturissero forme di ingerenza e di controllo dello Stato sull’attività sindacale.
Per comprendere meglio tale atteggiamento del sindacato bisogna ricordare che, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione e per tutti gli anni Cinquanta del Novecento, vi fu un intenso dibattito su come l’art. 39 della Costituzione avrebbe dovuto essere attuato, in quanto il suo secondo comma, nel prescrivere l’obbligo di registrazione, demandava la sua regolamentazione a una legge ordinaria. Il dibattito, tecnico, politico e sindacale, riguardò i possibili contenuti della legge sindacale che avrebbe attuato il secondo comma dell’art. 39 e in discussione furono numerose questioni: quali uffici dovessero provvedere alla registrazione dei sindacati, se la registrazione dovesse essere condizionata ad una consistenza numerica minima, se la personalità del sindacato dovesse essere di diritto privato o di diritto pubblico (con controlli sicuramente molto più penetranti da parte dello Stato qualora si fosse optato per la natura pubblicistica), e infine vi era la questione dei criteri con i quali comporre gli eventuali contrasti all’interno della rappresentanza unitaria richiesta dal quarto comma dell’art. 39. Evidentemente, la mancata attuazione della citata disposizione scaturì dal timore dei sindacati che una legge di attuazione potesse essere fortemente invasiva delle loro libertà ed autonomia interna ed esterna, anche se teoricamente sarebbe stata possibile anche un’attuazione rispettosa di esse, ma il dibattito si inseriva in un periodo (gli anni Cinquanta) contraddistinti da un’accesa lotta di classe che spinse i dirigenti sindacali dell’epoca in una posizione conflittuale nella quale non vi era posto per un ruolo istituzionale del sindacato nell’ordinamento italiano.
Vi erano poi problemi di carattere squisitamente giuridico che rendevano il problema del riconoscimento di non facile soluzione, come in primo luogo la verifica del numero degli iscritti nel caso di conflitto tra le organizzazioni sindacali in merito alla reciproca consistenza associativa, in quanto bisogna ricordare che, secondo l’art. 39, le rappresentanze unitarie sono costituite in proporzione al numero degli iscritti e, qualora fosse sorto un contrasto tra i sindacati circa la loro reciproca consistenza associativa, sarebbe stato necessario affidare ad una pubblica autorità, come arbitro imparziale, il difficile compito di verificare il numero degli iscritti. Altra questione giuridica era quella della definizione della categoria di riferimento per la stipulazione dei contratti collettivi, in quanto nel periodo corporativo vi era una predeterminazione per legge delle categorie, mentre il nuovo sistema di libertà sindacale implicava anche la libertà, per i sindacati, di determinare l’ambito di riferimento della propria attività, e la questione è gravida di conseguenze, in quanto l’art. 39 contempla contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce. Nel caso di conflitto tra i sindacati circa i confini della categoria, bisognerebbe allora attribuire ad una autorità pubblica il compito di definirli o, comunque, individuare un meccanismo attraverso il quale dirimere tale conflitto, ma questo è uno dei punti più delicati del diritto sindacale, perché il principio di libertà sindacale implica la libertà del sindacato di definire l’ambito di riferimento della sua attività (ossia a identificare la categoria) e qualsiasi meccanismo di risoluzione burocratica e autoritaria di tali conflitti tocca in misura più o meno rilevante questa libertà.
Fu la magistratura, tramite una giurisprudenza costante sin dai primi anni Cinquanta, che attribuì senza eccezioni il valore erga omnes ai contratti collettivi, superando così la mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione.
Eppure, nonostante l’art. 39 non sia mai stato attuato, non è del tutto privo di effetti giuridici, in quanto esso impedisce al legislatore ordinario di attribuire efficacia obbligatoria (ossia, con vocabolo tecnico erga omnes ) ai contratti collettivi di lavoro tramite la creazione di un un meccanismo giuridico diverso da quello descritto.
Recentemente, come detta la questione dell’attuazione dell’art. 39 della Costituzione è tornata alla ribalta per via del documento della CGIL intitolato Carta dei diritti universali del lavoro e il cui Titolo II recita “Disciplina attuativa degli articoli 39 e 46 della Costituzione ”. All’interno di tale Titolo l’intera Parte I (artt. 27-38) è intitolata “Registrazione dei sindacati, rappresentanze unitarie sindacali e contrattazione collettiva ad efficacia generale ”.
L’articolo 28 esordisce subito con la previsione di una Commissione per la registrazione dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, la quale è chiamata a decidere sulla rappresentatività dei sindacati (e quindi sulla loro legittimità a contribuire alla contrattazione collettiva obbligatoria) che deve, nel progetto, essere composta da cinque membri nominati con decreto del Presidente della Repubblica, di cui quattro dovranno essere professori universitari di chiara fama, i quali a loro volta nomineranno il quinto componente.
Sintetizzando si potrebbe dire che le vite di milioni di lavoratrici e di lavoratori sono, nell’intenzione di sindacati sempre meno rappresentativi e sempre più intrallazzati di fatto con la politica borghese e le istituzioni dello Stato borghese, nelle mani di un pugno di burocrati riformisti che, a fronte di perdita di autorevolezza dei sindacati (a causa di una pluridecennale compromissione con il capitalismo e lo Stato borghese che ha fruttato poltrone in parlamento e pensioni d’oro per i dirigenti sindacali) gli daranno però autorità in forza di una legge, ossia di un atto burocratico, come accade per il misero poliziotto di Engels, burocrate in divisa che trae la sua autorità soltanto da un atto legislativo. “In possesso della forza pubblica - scrive Engels - e del diritto di riscuotere imposte, i funzionari appaiono ora come organi della società al di sopra della società. La libera, volontaria stima che veniva tributata agli organi della costituzione gentilizia non basta loro, anche se potessero riscuoterla; depositari di un potere che li estrania dalla società, essi devono farsi rispettare con leggi eccezionali in forza delle quali godono di uno speciale carattere sacro e inviolabile. Il più misero poliziotto dello Stato dell'epoca civile ha più ‘autorità’ di tutti gli organi della società gentilizia presi insieme, ma il principe più potente, e il maggiore statista o generale dell’età civile possono invidiare all’ultimo capo gentilizio la stima spontanea e incontestata che gli viene tributata. L’uno sta proprio in mezzo alla società, l’altro è costretto a voler rappresentare qualcosa al di fuori e al di sopra di essa ” (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato , Piccola biblioteca marxista-leninista 1, Firenze, 1994, p. 160).
I sindacati italiani alla loro origine erano espressione in buona misura degli interessi dei lavoratori e strumenti di lotta contro il capitale. Al contrario i sindacati del 2016 assomigliano a quell’oscuro burocrate in divisa di cui parla Engels che ha autorità (in quanto ha un potere pubblico di tipo coercitivo) ma non ha alcuna autorevolezza. Incapaci di comprendere le ragioni profonde della crisi che sta investendo in modo insanabile il sistema capitalista, stanno tentando, istituzionalizzandosi e quindi ricevendo dalla legge un’investitura ufficiale, di recuperare almeno l’autorità, in quanto l’autorevolezza l’hanno già perduta da un bel pezzo. Così facendo la CGIL tradisce lo scopo per cui i sindacati sono nati nell'Ottocento, allontanandosi definitivamente dalla lotta di classe per avvicinarsi al modello corporativo simile a quello fascista, a braccetto ormai con banchieri e industriali.
La istituzionalizzazione e burocratizzazione dei sindacati, a cui si aggiunge, nel progetto della Carta dei diritti universali del lavoro, la vera e propria truffa della cogestione, in attuazione dell’art. 46 della Costituzione, un vero e proprio fumo negli occhi per i lavoratori che hanno sì la capacità di gestire le imprese, ma da soli e dopo avere abbattuto il sistema capitalista tramite la Rivoluzione socialista.
La Cgil, con questo suo ultimo atto, ha concluso il suo ciclo riformista e non è più recuperabile alla lotta di classe. Assieme alla Cisl e alla Uil alle quali si è omologata va posta nel museo della storia. Il loro posto, come propone il PMLI, va occupato con urgenza dal sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati fondato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale e contrattuale delle Assemblee generali dei lavoratori e dei pensionati.

9 marzo 2016