Il Disegno di Legge del governo offre alle aziende risparmi, produttività e totale flessibilità
“Lavoro agile”, il nuovo cottimo a domicilio

Il nuovo duce Renzi aveva promesso che con il Jobs Act sarebbero scomparse molte tipologie contrattuali ma invece ne spuntano sempre di nuove, e sono immancabilmente precarie. Il 28 gennaio il governo ha approvato il Disegno di Legge (ddl) che introduce il “lavoro agile”, chiamato più frequentemente con il temine inglese smart work . Come spesso accade, oltre alla terminologia anglosassone, il provvedimento in questione viene imbellettato in tutti i modi per farlo apparire affascinante, moderno, conveniente. Il “lavoro agile” permetterebbe di lavorare comodamente da casa, in vacanza, al parco o dove meglio si crede. Una tipologia interessante sopratutto per le donne, favorite nel conciliare il lavoro professionale con quello domestico. Ma il trucco c'è e non è difficile scoprirlo. Appena andiamo a leggere i vari articoli è il testo stesso del decreto a dichiarare quali sono i sui reali obiettivi. Lo smart work “promuove forme flessibili del lavoro agile allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. Due cose che sono in contraddizione tra loro in regime capitalistico dove vige la legge del massimo profitto, ancor di più oggi dove domina la completa flessibilità, la precarietà e con il Jobs Act la libertà di licenziamento e la ricattabilità.
Lo scopo della nuova legge è quello di favorire le aziende con una nuova forma di lavoro precario, superando le regole esistenti. Già adesso il lavoro a distanza e il telelavoro è regolamentato: nel settore pubblico attraverso la legge Bassanini del 2001, mentre in quello privato vige un accordo interconfederale del 2004 che ne recepisce uno precedente di livello europeo. Già queste leggi pendono dalla parte dei padroni e frammentano i lavoratori, li dividono gli uni dagli altri e ledono alcuni fondamentali diritti. Ad esempio in caso di crisi aziendale nella maggior parte dei casi chi lavora a distanza non ha diritto alla cassa integrazione. Ma tutto questo evidentemente non basta poiché questi accordi prevedono una certa regolamentazione del telelavoro che per molti aspetti è soggetto alle stesse regole contrattuali previste per chi lavora in sede. Prevede orari definiti, i costi delle sedi operative a distanza sono a carico dei datori di lavoro, vigono forti restrizioni sui controlli a distanza del dipendente.
Il “lavoro agile” vuole andare oltre, l'obiettivo del decreto è liberarsi dei lacci e laccioli che in qualche modo imbrigliano il telelavoro. E' totalmente aderente alla filosofia del governo e del Jobs Act che il ministro Poletti sintetizza pressapoco così: favorire un lavoro moderno, flessibile, autonomo, creativo. Ma dietro la retorica modernista si nasconde l'ennesimo attacco ai diritti dei lavoratori e al contratto nazionale. Quello che balza agli occhi dai primi articoli del decreto è come lo smart work sia disciplinato da un contratto scritto tra lavoratore e datore di lavoro, nel quale sono definiti le modalità di esecuzione della prestazione resa fuori dai locali aziendali, gli strumenti telematici utilizzati dal lavoratore e le modalità di organizzazione dei tempi della prestazione lavorativa. Esiste pure un punto che prevede ulteriori misure disciplinari verso il dipendente non contemplate dal contratto nazionale. Pur essendoci un articolo che prevede gli stessi diritti normativi e salariali attuati per chi svolge il lavoro dentro l'azienda appare evidente che l'accordo collettivo è subordinato a quello individuale dove il singolo lavoratore non ha nessuna voce in capitolo. Lo conferma lo stesso articolo 8 del decreto dove si precisa che gli accordi collettivi, di qualsiasi livello, al massimo possono integrare la disciplina che regola il “lavoro agile” e non il contrario.
Un altro punto cruciale è quello sulla salute e la sicurezza sul lavoro che viene totalmente accollata al dipendente mentre il padrone viene deresponsabilizzato; un risparmio economico non indifferente per i padroni. L'unico obbligo che avranno è quello d'inviare una volta l'anno un informativa scritta al proprio dipendente sui rischi legati alla sua attività, e con questa regoletta il padrone, o l'amministrazione pubblica, se ne laveranno le mani. Anche in questo ambito si tenta di dare la sensazione di avere gli stessi diritti affermando che gli infortuni sul lavoro saranno equiparati a quelli degli altri dipendenti, compreso quello avvenuto durante lo spostamento per il luogo di lavoro prescelto. Premesso che generalmente il “lavoro agile” sarà svolto da casa, sarà molto difficile provare che andavamo in biblioteca o al parco per lavorare attraverso il computer e non per fatti propri. Già adesso l'Inail contesta molti infortuni avvenuti nel tragitto casa-azienda.
Un altro favore agli imprenditori capitalisti è quello relativo ai costi legati al consumo di corrente elettrica, alle bollette del riscaldamento dei luoghi di lavoro, a chi dovrà accollarsi le spese per l'acquisto e la manutenzione degli strumenti di lavoro come i computer, stampanti, connessioni internet e quant'altro. In questo caso il decreto più che dire non dice, lasciando il lavoratore ricattabile di fronte al padrone che, tramite l'accordo stipulato con il dipendente, potrà far ricadere tutti i costi su di lui. E che ne sarà dei diritti sindacali, della libertà di sciopero, di partecipare alle assemblee, di avere informazioni sull'azienda? Ricordiamo che il lavoro agile sarà applicato ai lavoratori subordinati, non a quelli autonomi. E chi deciderà l'orario di lavoro, quando sarà considerato straordinario? Senza un luogo o una postazione fissa sarà molto difficile stabilire l'orario di lavoro e l'impresa tenderà inevitabilmente a calcolarla al ribasso.
Esperienze simili di smart work già ci sono in altri Paesi, ad esempio sono ampiamente diffuse nelle multinazionali con sede nella Silicon Valley in California. Queste dimostrano come il lavoratore non sia autonomo e libero di organizzare la sua vita familiare, il suo tempo libero e le sue vacanze come ci vogliono far credere i sostenitori del “lavoro agile”, bensì avviene l'esatto contrario: ovvero il dipendente viene legato irrimediabilmente alla sua azienda 365 giorni l'anno e alla fine sgobba più dei suoi colleghi occupati dentro gli uffici. Tanto che in Francia, dove si sta riscrivendo il Codice del Lavoro, i sindacati hanno proposto d'introdurre il “diritto alla disconnessione”, ossia il divieto di comunicare e spedire mail di lavoro fuori orario e in certi periodi dell'anno.
Nuova terminologia, nuovi strumenti di lavoro e tecniche di controllo ma che ripropongono vecchi sistemi di sfruttamento che tanto assomigliano al lavoro a cottimo, per essere più precisi al lavoro a cottimo a domicilio dove i padroni risparmiano le spese organizzative perché si lavora a casa propria, la salute e la sicurezza sono affari del lavoratore, l'orario di lavoro non ha alcun limite e il contratto collettivo nazionale di lavoro viene del tutto eluso. Si stabilisce il lavoro da fare, i tempi di consegna, dopodiché starà al lavoratore o alla lavoratrice arrangiarsi e trovare il tempo per seguire i figli o gli anziani, per effettuare una visita medica. Ci sembra di rivedere quelle persone, generalmente donne, che fino a pochi decenni fa lavoravano a casa ad assemblare scarpe, borse e piccola pelletteria usando solventi magari in cucina, intente a lavorare anche dopo cena per finire il lavoro da consegnare in cambio di pochi soldi.
Adesso forse non vediamo più donne e uomini a testa bassa a martellare o a spennellare collanti (ma non del tutto perché adesso questi lavori sono appaltati a supersfruttati lavoratori cinesi) ma fissi e sempre connessi davanti a un computer, ma la sostanza non cambia. Del resto il lavoro a cottimo, o per obiettivi che dir si voglia, “è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico” , affermava Marx già nell'800.

9 marzo 2016