Il governo Renzi ha le mani sporche di petrolio
Deve dimettersi

Le intercettazioni dell'inchiesta di Potenza, che hanno costretto la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi a dimettersi, hanno anche mostrato a tutti che il governo Renzi ha le mani sporche di petrolio, come si era già capito del resto dalla sua pervicace difesa della lobby delle trivelle davanti alle nostre coste.
Non soltanto cioè questo governo è pappa e ciccia con la grande finanza nazionale e internazionale, con Marchionne, con la Confindustria e con le banche, ma è pure al servizio delle lobby petrolifere private, al punto dal confezionare e far approvare di soppiatto delle leggi su misura per agevolarne i traffici e profitti, scavalcando le regole antinquinamento e le giurisdizioni regionali.
Altro che “telefonata inopportuna”, formuletta con cui Renzi, insieme alle dimissioni della Guidi, sperava di soffocare lo scandalo e archiviare velocemente la vicenda. La telefonata della ministra al suo fidanzato Gianluca Gemelli, in cui gli annunciava la buona novella dell'inserimento nella legge di Stabilità dell'emendamento che sbloccava Tempa Rossa, “se Maria Elena è d'accordo”, e la successiva telefonata entusiasta del faccendiere siciliano ai suoi amici della Total dai quali si aspettava come contropartita un appalto da 2,5 milioni di euro, non ha soltanto messo a nudo il mostruoso conflitto di interessi che regnava in uno dei più importanti dicasteri economici, ma coinvolge tutto il governo: a cominciare dalla ministra Boschi, che quella norma pro-Total ha firmato e inserito nel mexiemendamento governativo, approvato poi a scatola chiusa con il voto di fiducia, e lo stesso premier Renzi, che l'aveva voluta e fatta redigere dal suo segretario Lotti, che cura i rapporti con le lobby petrolifere, e dalla sua responsabile dell'Ufficio legislativo, la sempre fedele e sempre pronta per questi casi, Antonella Manzione.
Già questo, in un paese “normale”, basterebbe e avanzerebbe per chiedere le dimissioni dell'intero esecutivo, ma c'è di più. I tre filoni d'inchiesta della procura di Potenza disegnano uno scenario che va addirittura oltre il già grave conflitto di interessi scoperto a carico della Guidi. É emerso infatti che inviati della Total e della Shell erano di casa negli uffici della Guidi e della Boschi e si intrufolavano perfino nelle Commissioni parlamentari. É emerso anche che il capo di stato maggiore della marina, l'ammiraglio De Giorgi (candidato da Renzi alla guida della Protezione civile, e il cui figlio Gabriele è un renziano della prima ora e segretario particolare del sottosegretario Domenico Manzione, fratello dell'ex vigilessa-capo di Renzi), si serviva di Gemelli per far sbloccare dalla Guidi i fondi annuali della legge navale da 5,4 miliardi, mentre in cambio il fidanzato della ministra veniva aiutato a portare avanti un suo progetto speculativo per lo stoccaggio del petrolio nel porto di Augusta. E c'è poi la gravissima vicenda dell'inchiesta sullo stabilimento Eni in Val d'Agri, con tutto il marciume di inquinamento ambientale, clientelismo e corruzione che si tira dietro, e che coinvolge il PD lucano e il governatore Pittella; e che tramite suo fratello riconduce ancora una volta a Renzi.

Un verminaio che puzza di petrolio
Ma non basta ancora. Dalle intercettazioni finora pubblicate, emerge anche un gruppo di funzionari pubblici, legati alla “combriccola”, “clan” o “quartierino” che dir si voglia (termini coniati dalla stessa Guidi), di cui faceva parte il Gemelli, che si muoveva e intrigava per curarne gli interessi in ben quattro ministeri di peso e dove più girano i soldi: quello della Guidi, il ministero dell'Economia di Padoan, quello della Difesa della Pinotti e quello delle Infrastrutture di Delrio. E collegata a ciò emerge altresì un'oscura guerra tra bande, interne allo stesso governo, che chiama in causa nomi come l'ex sottosegretario della Guidi e ora sottosegretario di Renzi, Claudio De Vincenti, il ministro Padoan, il ministro Delrio, la Finocchiaro, fino ad arrivare al “giglio magico” di Renzi, con al centro l'onnipresente Lotti e l'onnipotente Carrai. Una guerra senza esclusione di veleni e di intrighi, spinta fino al ricatto mediante dossieraggio, come quello che è emerso nei confronti di Delrio.
E di fronte a tutto questo verminaio che puzza di petrolio e non solo, lui che si vanta di essere “diverso” dai vecchi politici della prima e della seconda repubblica che voleva rottamare, come ha reagito il nuovo duce Renzi? Esattamente come prima di lui hanno fatto i suoi maestri Berlusconi e Craxi: attaccando i magistrati, le loro inchieste e le intercettazioni. Non c'è nessuna trivellopoli, ma solo un complotto della magistratura e “un'offensiva mediatica”, è la parola d'ordine che ripete ad ogni pie' sospinto come un mantra.
Ha cominciato subito sparando ad alzo zero sulla procura di Potenza: “Ci sono indagini della magistratura di Potenza che hanno la cadenza delle Olimpiadi, ogni quattro anni”, ha tuonato dal podio della Direzione del PD del 4 aprile. E accusando i giudici, che proprio in quelle ore erano venuti a Roma per interrogare la Boschi, di “un'invasione di campo assurda, nel cuore dell'azione legislativa del parlamento”, li ha sfidati con piglio mussoliniano ad “arrivare a sentenza”. “Noi siamo diversi – li ha apostrofati il nuovo duce – gli altri parlavano di legittimo impedimento, io dico interrogatemi se avete qualcosa da chiedermi. Gli altri puntavano alla prescrizione, io chiedo le sentenze subito, veloci. Il mio compito è sbloccare le opere e se è reato farlo, allora io lo sto commettendo”.

Attacchi ai magistrati, al parlamento e all'informazione
In questo attacco di Renzi sembra di risentire in sedicesimo (ma forse non tanto), il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 in cui sfidava il parlamento a metterlo sotto accusa per il delitto Matteotti: “Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa!”, con quel che segue. Da parte sua, con altrettanto disprezzo, la fedelissima Boschi, mostrando come intende la sua funzione di ministra per i “rapporti col parlamento”, si occupava di bastonare le opposizioni per aver presentato due mozioni di sfiducia contro il governo: “Ormai le sfiducie sono un appuntamento fisso, ce n'è una a settimana, come la Champions League...”, attaccava dal salotto televisivo di Vespa.
Nei giorni successivi, poi, gli attacchi di Renzi si sono indirizzati decisamente sulle intercettazioni, proclamando in più occasioni l'intenzione di rimettere subito in moto la legge bavaglio ferma al Senato, che è un vecchio progetto di Berlusconi e della P2: una legge delega che dà al governo ampia facoltà di “regolamentare” la pubblicazione delle intercettazioni, e che se fosse già stata in vigore niente avremmo saputo di questo scandalo, dato che la Guidi non è indagata e sarebbe potuta rimanere tranquillamente al suo posto.
Se non lo si butta giù al più presto, perciò, c'è il concreto pericolo che il nuovo duce riesca a trasformare questo ennesimo scandalo in un pretesto per mettere il basto ai magistrati e la mordacchia a quel poco di informazione non ancora asservita. Ma non c'è da farsi illusioni che ciò avvenga per via giudiziaria o parlamentare. Per cacciarlo via occorre la lotta di piazza. Cominciando, come ha indicato Scuderi nell'editoriale per il 39° Anniversario della fondazione del PMLI, impegnandoci tutti “affinché il 17 aprile vinca il SÌ al referendum contro le trivellazioni, alle elezioni comunali di giugno ci siano molti voti astensionisti con la consapevolezza di darli al PMLI e al socialismo, al referendum di ottobre la controriforma del Senato venga sepolta da una valanga di NO ”.

13 aprile 2016