Lo testimonia il fascista doc Accame in un'intervista di 8 anni fa
L'attuazione dell'articolo 46 della Costituzione è da sempre un obiettivo dei fascisti
Ora fa parte della Carta dei diritti universali del lavoro promossa dalla Cgil
La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende era “il sogno della Repubblica sociale” di Mussolini

Giano Accame è stato un intellettuale fascista, morto nel 2009. Per ricordarlo, il 21 aprile di quest'anno il sito Barbadillo ha riproposto una sua intervista senza data ma dai riferimenti è riconducibile a otto anni fa. Sia la rivista politico-culturale che il personaggio in questione sono espressione dell'ideologia fascista. In particolare di quella parte che si autodefinisce “destra sociale” e rivendica apertamente le radici fasciste, il nazionalismo mussoliniano, un'“economia sociale” che, a suo dire, si preoccupi del “popolo” e delle masse lavoratrici, collusa con bombaroli e golpisti ma che spesso non ha disdegnato di strizzare l'occhio a socialisti e anarchici. Accame si definiva “eretico” rispetto al MSI ma ha diretto il suo giornale, il “Secolo d'Italia”, per diversi anni.
Perché mai siamo andati a scovare i discorsi di un fascista deceduto sette anni fa e riportati da un oscuro sito web? Essenzialmente per il tema che tratta, ossia la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Un tema oggi richiamato spesso da molte parti politiche, trasversalmente, sia a destra che a “sinistra” e in special modo dai sindacati. In particolare la Cgil nella sua recente Carta dei diritti universali del lavoro ha rivendicato l'attuazione dell'articolo 46 della Costituzione, che recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”
Accame nella sua intervista affermava che la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è sempre stato un obiettivo del fascismo. In special modo di quello definito “rivoluzionario”, ovvero ammantato di fraseologia simil socialista, che a parole diceva di essere innovativo, laico e progressista ma che nel concreto si rivelò per quello che era: strumento della borghesia impaurita dall'avanzare della classe operaia e del socialismo, ammanigliato con le gerarchie cattoliche, che riservò dittatura e sfruttamento ai lavoratori, guerre e morte alle masse popolari italiane e ai popoli oppressi dal colonialismo italico.
Il corporativismo prima e la cosiddetta “socializzazione” che fu tentata nella “repubblica di Salò” di Mussolini dopo il 1943 (fu emanato in proposito un apposito decreto) sono lì a dimostrare e supportare le tesi di Accame. Certo lui non dice che i lavoratori non vi abboccarono e capirono benissimo, specie nel periodo della cosiddetta “repubblica sociale italiana”, che era solo uno strumento per soggiogare la classe operaia ai piani del regime e in seguito tenerla obbediente per soddisfare i bisogni dell'industria militare nazista. E' indubbio però che il tentativo mussoliniano di contrabbandare il fascismo come una terza via tra socialismo e capitalismo poggiava proprio sul corporativismo e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende.
Accame ci ricorda che il Movimento Sociale Italiano (MSI) e la Cisnal, partito e sindacato eredi diretti del fascismo, nel dopoguerra hanno sempre presentato progetti e proposte per attuare la partecipazione dei lavoratori nelle aziende ma negli anni '50 e '60 erano entrambi emarginati e non avevano voce in capitolo sulla scena politica italiana. Poi bisogna considerare che i lavoratori in maggioranza seguivano la Cgil e il PCI che, seppur a guida opportunista e revisionista, in un periodo di aspre lotte sociali, non avrebbero accettato di legare le mani e i piedi del movimento operaio italiano. Difatti Accame ci ricorda come “Alla base della socializzazione c’è un’idea sociale e nazionale collaborativa, che non si poteva realizzare in un clima acceso di lotta di classe”.
Oggi la situazione è ben diversa rilevava Accame otto anni fa: “ormai la lotta di classe non è più un obiettivo delle grandi forze politiche ”, tutti i partiti sono appiattiti su di un unico modello di società. E poi, si compiaceva, la partecipazione “coincide con l’art.46 tuttora inattuato della Costituzione, con una Quinta direttiva europea e con la dottrina sociale della Chiesa”. Nonostante sia stata accantonata per tanti anni ne intravedeva sviluppi futuri e si augurava che i sindacati se ne facessero promotori. Lui indicava nella Cisl, allora guidata da Bonanni, la forza trainante in grado di rimettere al centro questa teoria che fu il sogno della “repubblica sociale” di Mussolini come ribadisce più volte lo stesso Accame. Non poteva sapere che la Cgil la riesumasse pochi anni dopo mettendola al centro della Carta dei diritti universali del lavoro.
Chiedere l'attuazione dell'articolo 46 sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende contenuto nella Costituzione significa abbandonare l'idea stessa per cui è nato il sindacato, ossia difendere e rappresentare gli interessi e le rivendicazioni dei lavoratori di fronte al capitale e sposare il corporativismo, il collaborazionismo di classe e servire gli interessi della borghesia. Il fascismo, neppure nella sua versione “repubblicana” di Salò, non si è mai sognato di eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione, e vedeva nel corporativismo, nella “socializzazione” e nella partecipazione nient'altro che mezzi utili a ridurre la conflittualità e rendere i lavoratori, in nome dell'interesse nazionale, totalmente succubi della propria borghesia. Oltretutto senza riuscire nemmeno a racimolare niente perché, come afferma lo stesso fascista Accame, “la partecipazione agli utili, diviso per migliaia di lavoratori si tratta di spiccioli”.
 
 
 
 
 
 

25 maggio 2016