Rapporto Istat 2016
Nell'Italia del nuovo duce crescono le disuguaglianze sociali e la povertà e i giovani non hanno lavoro
La povertà colpisce tre volte più al Sud che al Nord
Renzi, chiacchiera di meno e dai lavoro ai giovani

La fotografia del quadro socio-economico che emerge dal rapporto annuale dell'Istat appena pubblicato parla chiaro: nell'Italia che il nuovo duce Renzi governa ormai da più di due anni e che ci racconta essere in piena ripresa, crescono le disuguaglianze sociali e la povertà e i giovani continuano a non avere lavoro.
Nei due decenni tra il 1990 e il 2010 le disuguaglianze in Italia sono aumentate in misura maggiore che in tutti gli altri paesi europei di cui si hanno dati disponibili. Il coefficiente Gini della distribuzione dei redditi individuali lordi è aumentato infatti dallo 0,40 allo 0,51. Ricordiamo che tale coefficiente statistico, che può variare tra 0 e 1, più è alto e più è indice di disuguaglianza sociale (il valore limite 0 significa perfetta uguaglianza della distribuzione del reddito tra la popolazione e il valore limite 1 indica al contrario che un solo individuo possiede l'intero reddito del paese considerato).
A livello assoluto per indice di disuguaglianza l'Italia si colloca immediatamente dopo il Regno Unito, paese che con la Thatcher ha subito più precocemente i massacri sociali avvenuti negli ultimi decenni in Europa. E lo stesso vale in particolare per la disuguaglianza di distribuzione del reddito derivante dalla pura e semplice origine familiare di classe: ovverosia, nella determinazione del reddito 2011 delle persone della fascia 30-39 anni, essere nati da una famiglia con status sociale “alto” (casa di proprietà, almeno un genitore laureato e professione manageriale) incide in Italia nel 63% dei casi, percentuale quasi doppia della Francia (37%) e Danimarca (39%) e ancora molto superiore alla Spagna (51%), mentre solo il Regno Unito ci supera anche in questo, col suo marcatamente classista 79%.
Il rapporto conferma un aumento della povertà e una riduzione della spesa sociale che colpisce soprattutto il Sud (dove la povertà colpisce tre volte più che al Nord) e le famiglie il cui capofamiglia è disoccupato, precario o lavoratore part-time. E a farne in particolare le spese, in termini di povertà e deprivazione, sono i figli minori, le cui condizioni si stanno aggravando in maniera allarmante. Come si può vedere dal grafico allegato, le curve indicanti l'andamento della povertà assoluta, di quella relativa e della deprivazione grave riferite ai minori, sono tutte negli ultimi anni non solo in crescita come quelle della popolazione totale, ma addirittura le superano e mostrano una tendenza a crescere più velocemente a partire proprio dagli anni della crisi. Tra il 1997 e il 2011 la povertà relativa era del 12%, nel 2014 la povertà relativa dei minori è schizzata al 19%. E la forbice si allarga ancora di più rispetto alle generazioni più anziane, che nel 1997 erano di 5 punti più povere dei minori e oggi registrano un rovesciamento di posizione calando di 10 punti rispetto alle generazioni più giovani.

Aumentate tutte le disuguaglianze
Anche questo è un segno evidente che la crisi capitalistica è stata un potente acceleratore delle disuguaglianze sociali, allargandole a tutti i livelli: tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud, tra uomini e donne e tra le diverse generazioni. Solo l'indice della deprivazione grave, dopo l'impennata del 2012, quando era salito al 17%, è leggermente calato negli ultimi anni, attestandosi nel 2015 all'11,5%. Ma è comunque un valore molto alto e comunque ben superiore agli anni pre-crisi. Soprattutto se invece di riferirlo all'intera popolazione lo si riferisce alle famiglie in cui il capofamiglia è disoccupato e con figli a carico. Addirittura ci sono oggi 2,2 milioni di famiglie che vivono senza redditi da lavoro, pari a ben 6 milioni di persone. Dal 2004 al 2015 sono passate dal 9,4% al 14,2%, e al Sud raggiungono addirittura il 24,5%: cioè una famiglia su quattro sopravvive praticamente senza un reddito certo.
E qui arriviamo al dato più drammatico, la mancanza di lavoro, e in particolare la disoccupazione giovanile. Dalla tabella sulla disoccupazione pubblicata dall'Istat e qui riprodotta, emerge che pur essendo leggermente sceso dal 2014, attestandosi all'11,9% nel 2015, il tasso generale di disoccupazione è comunque sempre ancora quasi doppio rispetto agli anni pre-crisi e marcatamente più alto della media Ue (9,4%). E soprattutto col 23,2% la disoccupazione è ancora elevatissima tra i giovani tra i 15 e i 34 anni, tra gli immigrati (16,2%), nonché nel Mezzogiorno, dove col 19,4% è più del doppio di quella al Nord (8,1%).
Ma il quadro si aggrava ulteriormente se oltre ai disoccupati (lavoratori inattivi iscritti alle liste di collocamento), e che ammontano a 3.033.000 unità, si considerano anche gli inattivi che non cercano lavoro (ma sarebbero disposti a lavorare se lo trovassero), di cui tiene conto il “tasso di mancata partecipazione” tra i 15 e i 74 anni: quest'ultimo allora sale a ben il 22,5% (il doppio del tasso di disoccupazione ufficiale e quasi il doppio della media Ue), mentre tra i giovani arriva al 36,1% e nel Sud al 37,9%. Cioè quasi 4 giovani su 10 sono disoccupati o inattivi e altrettante persone lo sono nel Sud. Per un totale in tutto il Paese di ben 6,5 milioni di persone, tra disoccupati e forze lavoro potenziali. Alle quali vanno aggiunti 2,3 milioni di cosiddetti Neet, giovani tra i 15 e i 29 anni che non risultano occupati, né iscritti alle liste, e nemmeno frequentanti corsi di formazione.

Declassamento dell'istruzione e vita coi genitori
Dello stesso desolante quadro, restando ai giovani, fa parte anche la divaricazione crescente tra i titoli di studio e i lavori effettivamente svolti: un giovane su tre è sovraistruito rispetto al lavoro che svolge e uno su quattro è precario. Sempre di più sono i laureati costretti a fare i camerieri, baristi, cuochi, magazzinieri, commessi, operatori di call-center, e così via. Non a caso, dai dati dell'occupazione suddivisi per attività produttiva, emerge che nel periodo 2008-2015 quasi tutti i settori registrano una falcidie di posti di lavoro, con un leggero rallentamento solo tra il 2014 e il 2015: quasi un milione di posti di lavoro nell'industria e costruzioni, 11 mila nell'agricoltura, 258 mila nel commercio, 140 mila nella pubblica amministrazione, 88 mila nell'istruzione, 642 mila nelle professioni qualificate e tecniche e un altro milione tra artigiani e autonomi. E aumentano viceversa solo posti di lavoro in settori meno qualificati, come alberghi e ristorazione, trasporti e magazzinaggio, sanità e assistenza sociale, servizi alle famiglie e così via.
L'impossibilità di avere un reddito adeguato per potersi pagare un alloggio costringe ben 6 giovani su 10 a vivere con i genitori fino a 34 anni e oltre. Ormai le famiglie e i pensionati sostituiscono lo Stato nel fornire gli ammortizzatori sociali e la sopravvivenza di milioni di giovani senza lavoro e senza prospettive per il futuro, in un paese sempre più invecchiato (l'Italia è tra i paesi più vecchi al mondo, insieme a Giappone e Germania, con 161 over 64 per ogni 100 giovani), e dove i giovani di oggi sono destinati a lavorare fino a 75 anni e senza praticamente percepire una pensione.
Altro che “bamboccioni”, altro che Italia della “ripartenza”, dell'“ottimismo” e del “cambiamento”! Questa descritta dai numeri dell'Istat è invece l'Italia del nuovo duce Renzi, che dovrebbe chiacchierare meno e dare lavoro ai giovani se volesse avere un minimo di credibilità. Lavoro vero, stabile, adeguatamente retribuito e sindacalmente tutelato, e non quello finto pagato a caro prezzo al padronato coi soldi della collettività denominato Jobs Act. Che come dimostra anche il rapporto Istat non ha avuto alcun effetto rilevante sulla disoccupazione giovanile, e del resto ha già mostrato la corda non appena sono calati gli incentivi alle imprese.

1 giugno 2016