Invece di imbellettarle con l'inglese chiamiamo le cose con il loro vero nome e significato

Qualche giorno fa ho chiesto ai miei studenti perché ritengono che sia importante imparare l'inglese. Molti naturalmente hanno risposto che è utile per lavorare, per viaggiare, per navigare su Internet e così via, ma mi ha colpito una ragazza la quale, argutamente, ha detto che oggi i media e il linguaggio della politica sono pieni di termini inglesi che spesso l'ascoltatore comune non conosce.
In effetti questo oggi è sotto gli occhi di tutti e Renzi è un campione di tale metodo volutamente truffaldino di nascondersi dietro la presunta “autorevolezza” e “modernità” delle parole inglesi. Ora, lasciando da parte il fatto che basta che svariati politicanti nostrani aprano la bocca per dimostrare quanto scadente sia il loro inglese e che molto spesso certi termini sono usati lessicalmente a sproposito, evidentemente l'abuso degli anglicismi serve per far passare la politica e l'economia come un affare da tecnici ed esperti per le quali occorre imparare un linguaggio specifico e nebuloso. Le masse “ignoranti” vanno tenute fuori, perché non se ne intendono.
Nel suo importantissimo discorso sulla propaganda e il lavoro giornalistico alla Commemorazione di Mao del 2013, il compagno Mino Pasca, che parlava a nome del CC del PMLI, aveva spiegato che un'espressione stra-abusata da Monti e soci come “Spending review” “è stata introdotta non perché mancasse in italiano una parola con lo stesso significato ma allo scopo di sostituire alla parola italiana taglio ovvero macelleria sociale, che ha un'evidente e riconosciuta accezione negativa, una locuzione inglese incomprensibile ai più e soprattutto più accattivante, una pallottola inzuccherata sparata contro il popolo, che nobilita quella politica antipopolare spacciandola come una salutare revisione volta a ottimizzare spese e risorse e la assimila a una sorta di proiezione su scala nazionale della contabilità aziendale attuata da ragionierini dell'alta finanza e del grande capitale modello Monti e Tremonti”. Quindi attenzione, avvertiva Pasca: le classi dominanti borghesi “inquinano la comune lingua nazionale col loro lessico mercantilistico di sfruttatori assetati di profitto e la influenzano imponendo le loro parole ed espressioni e i relativi significati. Molte parole ed espressioni di uso comune non risultano neutre ma si portano impressa a fuoco l'impronta di classe che le ha originate”.
Ancora, Renzi avrebbe sicuramente messo in allarme i lavoratori fin da subito se avesse parlato non di “Jobs Act” ma di “riforma del lavoro” (interessante notare che la stampa anglosassone non ha pressoché mai riutilizzato il termine “Jobs Act” ma ha parlato appunto di “labour market reform”: “riforma del mercato del lavoro”). L'indignazione generale sarebbe molto maggiore se anziché di “bailout” per le banche si dicesse “prelievo forzoso dei depositi”. E avanti così con “spread”, “default”, “rating”, “subprime”, eccetera, eccetera.
Chi lotta per il vero cambiamento ha invece il compito di chiamare le cose con il loro nome e mandare in frantumi lo scudo “moderno” e “attraente” dietro cui il regime neofascista e i media conniventi nascondono i provvedimenti da macelleria sociale adottati per salvare il capitalismo a spese dei diritti, quelli dei lavoratori in primis.
Ritengo inoltre che questa esperienza e la riflessione che ha generato possano essere degli spunti per i docenti anticapitalisti o comunque progressisti che non vogliono impostare il loro insegnamento su criteri meramente tecnici, bensì integrarlo alla pratica e stimolare la crescita politica e intellettuale dei propri studenti e di se stessi attraverso il dibattito e la critica.
Un insegnante di lingue membro del PMLI

8 giugno 2016