I militari insorti volevano “ristabilire l'ordine democratico e la libertà”
Fallito il colpo di stato in Turchia
Oltre 15mila arresti tra militari, giudici, poliziotti e giornalisti. Chiesta l'estradizione dagli Usa dell'oppositore Gülen. Chiuso lo spazio aereo della base Nato di Incirlik. Usa e Ue premono perché Erdogan rispetti lo “Stato di diritto”
Alta tensione tra Washington e Ankara

 
Alle ore 22 del 15 luglio la base di Akinci avvisava il controllo del traffico aereo civile turco che due caccia F-16 del Quarto Stormo stavano per decollare con massima priorità per una missione speciale. Una ventina di minuti dopo i due aerei si trovavano sopra la capitale Ankara, staccavano il trasponder, lo strumento che comunica la posizione e iniziavano a bombardare le sedi del parlamento, la residenza presidenziale, il quartiere generale dei reparti speciali del ministero dell'Interno, il comando della polizia e altri obiettivi. Era il segnale, poco prima o assieme al movimento di carri armati che bloccavano due ponti a Istanbul, dell'inizio del fallito golpe tentato da una parte dei militari, con alla testa l'Aviazione. Uno dei due piloti partiti da Akici era l'ufficiale che il 24 novembre scorso aveva abbattuto un aereo russo sui cieli siriani presso la frontiera turca, subito appoggiata dagli Usa e che aveva provocato la delicata crisi con Mosca, ricucita dal governo di Erdogan solo pochi giorni fa con le scuse ufficiali a Putin; potrebbe trattarsi solo una fortuita combinazione, o forse no.
Dalle ricostruzioni dei primi passi del tentato golpe risulta anche che a sostenere gli attacchi sulla capitale condotti da almeno sei caccia si sia mosso un grande aereo cisterna partito dalla base strategica turco-americana di Incirlik. Dalle basi di Dalaman, Erzurum e Balikesir partono invece i caccia F-16 di forze rimaste leali a Erdogan che contendono il controllo dello spazio aereo ai golpisti e permettono quantomeno all'aereo privato del presidente, che si trovava in vacanza a Marmaris, una località balneare nel sudovest del Paese, di decollare e dirigersi al momento opportuno su Istanbul.
L'aereo del presidente non si nasconde, la traccia del suo volo è monitorata persino dal sito Flightradar, ma i golpisti non riescono o non possono intercettarlo e abbatterlo. Le agenzie internazionali che seguivano lo sviluppo del tentato golpe davano erroneamente Erdogan in fuga verso Germania o Inghilterra in cerca di asilo politico per accreditare il successo del golpe.
Ci sono tanti altri particolari del tentato golpe durato neanche quattro ore che forse saranno chiariti per capire meglio come si sono svolti i fatti. Quelli noti sono relativi ai reparti dell'esercito che nella notte tra il 15 e il 16 luglio entravano in azione nella principali città del Paese, da Istanbul a Ankara, a Smirne chiudendo alcuni ponti sul Bosforo, bloccavano i social network, occupavano la sede della tivù di Stato e a Isrtanbul l'aeroporto internazionale Ataturk. I militari insorti attaccavano in particolare le sedi dei servizi segreti e della polizia in maggioranza fedeli al presidente Erdogan. E diramavano una serie di comunicati per annunciare di aver preso il potere in tutto il Paese, di aver imposto il coprifuoco e la legge marziale e annunciavano che "ripristineremo democrazia e laicità" e che "una nuova Costituzione sarà preparata il prima possibile".
Erdogan appariva con una videochiamata su FaceTime dove annunciava che "sono ancora il presidente della Turchia e il comandante in capo. Resistete al colpo di Stato nelle piazze e negli aeroporti. È opera di una minoranza delle forze armate" e accusava l'oppositore Fetullah Gülen, il leader islamico moderato rifugiato dal 1999 negli Usa, di esserne l'ispiratore; Gülen respingeva le accuse e ribaltava su Erdogan l'accusa di aver messo in scena un falso colpo di Stato servito soltanto a rafforzarsi.
Le moschee rilanciavano l'appello di Erdogan a difendere il governo islamico e a scendere in strada contro i golpisti mentre il capo della Marina militare comunicava che "le forze sotto il suo controllo non aderiscono alla sollevazione"; stessa presa di posizione del comandante della Prima Armata, quella di Istanbul. Era evidente che la situazione neanche tre ore dopo l'inizio del golpe volgeva dalla parte di Erdogan.
Tre ore di clamoroso silenzio da parte di governi occidentali che avrebbero dovuto sin dall'inizio fare il tifo per l'alleato Erdogan. Solo attorno all'1,30 gli Stati Uniti prendevano ufficialmente posizione sul colpo di stato in corso, col segretario di Stato John Kerry, che si trovava a Mosca e che si limitava a comunicare che Washington stava con il governo democraticamente eletto. Una dichiarazione formale e ambigua che risultava inferiore a quella di Mosca del ministro degli Esteri Sergey Lavrov che affermava: "occorre evitare che si arrivi a scontri sanguinosi e risolvere tutti i problemi nell'ambito delle norme costituzionali", come dire no al golpe. Poi Barack Obama dichiarava che "tutte le parti in Turchia devono sostenere il governo eletto democraticamente, mostrare moderazione ed evitare qualsiasi violenza o bagno di sangue", che poteva sembrare già una indicazione a Erdogan di non essere spietato coi golpisti sconfitti. Sulla posizione degli Usa si allineavano la Nato, la Merkel e gli altri alleati europei. Da notare tra l'altro che la Nato durante la fase in cui le sorti del golpe sembravano ancora incerte, in un paese che è uno dei pilastri dell'Alleanza atlantica, aveva mantenuto un atteggiamento defilato, di attesa e anzi aveva escluso un'immediata convocazione di emergenza del Consiglio Atlantico.
In ogni caso il tentato golpe era già arrivato al capolinea. I militari insorti si ritiravano dallo scalo Ataturk dove atterrava l'aereo di Erdogan che assieme al premier Yildirim rilanciava le accuse contro l'oppositore Gülen e attaccavano gli Usa perché lo proteggevano: "Non riesco a immaginare un Paese che possa sostenere quest'uomo, questo leader di un'organizzazione terroristica, soprattutto dopo la scorsa notte. Un Paese che lo sostenga non è amico della Turchia. Sarebbe persino un atto ostile nei nostri confronti", affermava Yildirim. La sera del 16 luglio Erdogan chiedeva formalmente agli Usa l'estradizione dell'ex imam, il segretario di Stato Kerry replicava ad Ankara di "produrre le prove" sulle accuse.
Il bilancio della repressione contro le forze golpiste era stilato al 18 luglio del premier Yildirim che parlava di "7.543 persone arrestate, tra cui 100 agenti di polizia, 6.038 soldati, 755 tra giudici e procuratori, e 650 civili. Per 316 è stata confermata la custodia preventiva". Circa 1.500 dipendenti erano sollevati dai loro incarichi dal ministero delle Finanze. Il premier forniva anche un bilancio delle vittime del fallito golpe: 312 morti di cui 145 civili, 60 poliziotti e 3 soldati, quasi 1.500 i feriti. Altre fonti parlano di oltre 15mila arresti tra militari, giudici, poliziotti e giornalisti. Fra questi oltre 6.000 i membri dell'esercito e del corpo giudiziario tra cui spiccano 103 tra ammiragli e generali, un terzo del totale degli alti ufficiali in Turchia, e due giudici della corte costituzionale. Tra i militari arrestati, il consigliere militare del presidente Erdogan, colonnello Ali Yazici, il comandante della Seconda Armata, generale Adem Huduti, il comandante della Terza Armata, Erdal Ozturk, l'ex comandante della forza aerea, Akin Ozturk, ritenuto il leader dei golpisti, e il comandante della base aerea Nato di Incirlik, generale Bekir Ercan. Completavano il quadro la sospensione di 30 prefetti su 81 e di 47 governatori di distretti provinciali, di 8.777 dipendenti del ministero dell'Interno in gran parte poliziotti.
Fra le misure decise dalle autorità turche spiccava la chiusura dello spazio aereo attorno alla base aerea turca e Nato di Incirlik, la base fondamentale per la presenza statunitense in Medio Oriente, attiva dal 1943, e al momento trampolino di lancio della campagna contro lo Stato Islamico. La misura decisa il 16 luglio era solo in parte modificata due giorni dopo con la ripresa le operazioni contro l'IS da parte solo dei ricognitori Tornado tedeschi e dei droni.
Cosa sia accaduto nella base di Incirlik potrebbe essere determinante per chiarire la posizione dell'imperialismo americano nel tentato golpe, che presenta vari aspetti simili a quello riuscito in Egitto col golpista Al Sisi che ha seppellito il governo islamico del presidente Morsi. In ogni caso gli Usa, assieme alla Ue, hanno premuto affinchè Erdogan rispetti lo “Stato di diritto” e non usi il pugno di ferro nella la repressione non solo dei gruppi golpisti ma di tutta l'opposizione, continuando quella polemica che viaggiava sottotraccia contro la repressione che il regime di Erdogan aveva già messo in atto incarcerando giornalisti e oppositori, togliendo l'immunità ai parlamentari filocurdi e mettendo a ferro e fuoco le città curde. Proprio mentre l'imperialismo americano stringeva i rapporti coi curdi siriani per combattere assieme l'IS, un'alleanza vista come il fumo negli occhi a Ankara.
Le crepe nel rapporto tra la Turchia di Erdogan e gli ex alleati di ferro Usa si stavano da tempo allargando; il fallito golpe potrebbe accentuarle. Registrando l'alta tensione creatasi tra Washington e Ankara al momento non è possibile ipotizzare la rottura di quest'asse e l'avvicinamento all'imperialismo russo del nuovo zar Putin, oggetto comunque di recenti segnali distensivi; più probabile che Erdogan voglia giocare al rialzo e portare a casa un risultato che premi le sue ambizioni di riportare l'imperialismo turco ai fasti dell'impero ottomano, una delle indiscusse potenze egemoni quantomeno nella regione.
Per il momento possiamo solo mettere in fila le dichiarazioni delle parti e osservarne l'evoluzione.
Gli Usa hanno chiesto a Erdogan di porre fine alle violenze, gli assicurano la collaborazione ma hanno chiesto "prove vere, non accuse" contro Fetullah Gulen, e con John Kerry hanno minacciato che l'appartenenza della Turchia alla Nato "potrebbe essere a rischio" in caso di reazione "sproporzionata" al golpe. Minaccia ripetuta anche dal segretario della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg. All'ipotesi di Erdogan di ripristinare la pena di morte si opponeva la Ue con la cancelliera Merkel che garantiva in quel caso "la fine delle trattative per l'ingresso nell'Unione europea". Il presidente Erdogan "aveva le liste" di epurazione dei giudici e dei militari turchi "già pronte" e l'immediata reazione al tentato golpe in Turchia da parte delle autorità di governo "indica che loro erano preparati", rincarava la dose il commissario per la politica di vicinato e i negoziati per l'allargamento dell'Ue, Johannes Hahn.
Successivamente John Kerry smorzava i toni affermando che "speriamo che tutto si calmi senza un'accelerazione delle rappresaglie, e senza che si approfitti della situazione per trarne vantaggi. Comunque sembra che Erdogan abbia il pieno controllo della situazione, e noi pensiamo che sia positivo. Naturalmente ci sono i golpisti, che dovranno rispondere di ciò che hanno fatto e ne risponderanno. Ma siamo tutti preoccupati, e abbiamo espresso questa preoccupazione, che si alimenti una repressione che vada ben oltre i responsabili del golpe".
Ben diverso il tono dei rapporti con Mosca. Secondo le agenzie russe Interfax e Tass Putin e Erdogan si sono sentiti per telefono e hanno concordato di incontrarsi di persona "presto". Mentre il capo del comitato per gli affari internazionali del parlamento di Mosca, Alexej Pushkov, affermava il 18 luglio "ritengo che da questo confronto Erdogan sia uscito più forte di prima. L'esercito e la sua dirigenza saranno ripuliti attraverso l'individuazione e la rimozione dei sostenitori del colpo di stato. L'esercito ha sostenuto in massa Erdogan e gli elementi inaffidabili saranno adesso rimossi" e sottolineava che "per quanto riguarda la politica estera, il fatto che Erdogan sia rimasto al potere significa che gli accordi raggiunti con la Russia sono salvi, non vedo motivi per cui Ankara dovrebbe rinunciarvi. E penso che le correzioni che Erdogan ha gradualmente cominciato a introdurre in politica estera per migliorare le relazioni con la Russia e con i paesi vicini, con i quali la Turchia è in rapporti complicati, andranno avanti".
Il parlamentare si riferiva alle recenti "novità" della politica estera di Erdogan, quali l'accordo di riconciliazione coi sionisti di Tel Aviv che avevano ucciso pacifisti turchi sul convoglio navale di solidarietà diretto a Gaza; coi sionisti israeliani, anche essi non in buonissimi rapporti con l'amministrazione Obama, Mosca ha stretto un accordo per non pestarsi i piedi nella guerra in Siria contro l'IS. Dopo le scuse e la riappacificazione con la Russia per l'aereo abbattuto sui cieli siriani voluta da Erdogan il premier turco ha assicurato che Ankara "continuerà a migliorare le relazioni con i vicini. Non ci sono molti motivi per scontrarsi con l’Iraq, la Siria o l’Egitto mentre ne abbiamo molti per sviluppare la nostra cooperazione. Miglioreremo i nostri rapporti di amicizia con tutti i Paesi che circondano il mar Nero e il Mediterraneo. Manterremo i nostri disaccordi al minimo".
Queste le nuove direttive della politica del dittatore fascista turco che finora ha svolto un ruolo imperialista di primo piano, in accordo con il Qatar per sostenere i Fratelli musulmani di Morsi in Egitto, con Qatar e con l'Arabia saudita per "contenere" l’Iran, abbattere il presidente Bashar Assad, cancellare ogni aspirazione dei curdi e posizionare la Turchia come prima potenza egemone locale. Una politica che può procedere con un Erdogan più forte nel rapporto con gli Usa e anche con nuove alleanze.

20 luglio 2016