Un altro colpo al Contratto collettivo di lavoro
Accordo Confindustria-sindacati sul salario collegato alla produttività

A luglio, prima della chiusura delle grandi aziende per la pausa estiva, è stato raggiunto un accordo tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria per consentire alle imprese prive di rappresentanze sindacali di “erogare premi di risultato aziendali collegati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione”. L’accordo, spiegano congiuntamente Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, “non introduce forme retributive territoriali”, ma semplicemente affida alle parti sociali del territorio “un ruolo propulsivo, per favorire, in particolar modo le piccole medie imprese (Pmi), a introdurre forme di salario variabile legate ai risultati aziendali.”
Al di là delle singole questioni appare chiaro che l'intesa rientra nel più generale dibattito sul “nuovo” modello contrattuale. Ad uscirne vincente è la visione degli industriali, e a dire il vero adottata da sempre anche dalla Cisl, di un ridimensionamento del contratto nazionale a vantaggio di quelli aziendali. Sarebbero quest'ultimi il luogo dove andrebbe definito lo scambio tra produttività e parte variabile della retribuzione, ovvero i premi di risultato. Uno scambio deleterio a sfavore dei lavoratori come dimostrano la Fiat e il modello Marchionne, scambio oramai accettato dai sindacati confederali.
Questa maggiore produttività passa per la piena flessibilità delle modalità lavorative nelle aziende. Si lavora molto o moltissimo quando ci sono gli ordini, si sta a casa quando ce ne sono pochi. Si liberalizzano gli straordinari praticamente abolendoli, così come il lavoro festivo e notturno, si accentuano ulteriormente le nuove regole del Jobs Act in cambio di un po' di soldi quando le cose vanno bene. Quando vanno male invece salari ancor più striminziti, periodi di fermo che si rimangiano gli “straordinari” (diventati monte ore) fatti in precedenza e alla fine il licenziamento, diventato una prassi facile e indolore per i padroni grazie ai contratti precari e al cosiddetto “contratto a tutele crescenti”.
Per favorire questa prassi ci sono degli incentivi per gli imprenditori (per l'ennesima volta) e per i dipendenti tramite un'imposta sostitutiva secca del 10% sulle cifre erogate fino a 2mila euro, estendibili a 2500 nel caso di “coinvolgimento paritetico dei lavoratori”. E qui si apre il capitolo della “partecipazione” dei lavoratori alle decisioni dell'azienda che farebbe avanzare ulteriormente il modello sindacale cogestionario e neocorporativo.
Questa direzione è stata presa da tempo da Cgil, Cisl e Uil, e la ritroviamo proposta in modo esplicito nel “moderno modello di relazioni industriali” presentato da Cgil, Cisl e Uil a gennaio di quest'anno che altro non è che la vecchia riproposizione del sindacato collaborazionista. Un'impostazione sindacale che rigetta l'idea del confronto e dello scontro con la controparte sociale per portare avanti le proprie rivendicazioni, sostituita dall'obiettivo dell'efficienza del capitalismo italiano. Ne esce fuori un sindacato corporativo di stampo mussoliniano che vuole mettere insieme sfruttato e sfruttatore, i quali invece di essere antagonisti si devono unire nell'interesse supremo di rendere competitivo il “sistema Italia”.
Non a caso si richiamano tra i punti fondamentali di questo nuovo modello contrattuale il rispetto del testo unico sulla rappresentanza che limita la democrazia sindacale ed esclude tutti coloro che non pongono la firma e non si riconoscono negli accordi, ne limita l'agibilità e tramite le cosiddette “clausole di raffreddamento” restringe il diritto di sciopero che è vietato durante il periodo di contrattazione e dopo la ratifica dei contratti. E allora quando si può scioperare? Praticamente mai! Un altro caposaldo di questa proposta è la “partecipazione” dei lavoratori nell'organizzazione del lavoro che dovrebbe sostituire la lotta di classe con la collaborazione e la sottomissione alle decisioni padronali.
Sembrano proprio delle prove libere di accordo generale sul nuovo modello contrattuale voluto da Confindustria e dal governo e rilanciato recentemente da Renzi durante il vertice di Ventotene tenutosi pochi giorni fa.
La Camusso vuol far credere ai lavoratori che il dialogo con la Confindustria rispecchia il ritrovato ruolo della Cgil e dei sindacati che Renzi vorrebbe mettere ai margini. In realtà passo dopo passo si perdono tutte le conquiste ottenute dai lavoratori nei decenni precedenti, come lo stesso contratto nazionale di lavoro (CCNL). Se si può derogare (ovvero ignorare) la contrattazione nazionale praticamente su tutto, in nome della crisi economica si possono trovare scorciatoie per i padroni tramite patti territoriali, il salario diventa variabile a livello aziendale, gli aumenti dati solo in cambio di produttività, stabilito un salario minimo, cosa ci sta a fare il CCNL? O meglio, che peso può avere se non una sbiadita cornice di salvaguardia generale molto ristretta e poco rilevante?

7 settembre 2016