Renzi aveva invitato a pranzo in estate a Palazzo Chigi il capo mondiale della banca Usa, Dimon
JP Morgan con l'avallo di Renzi mette le mani su Montepaschi

“In Italia c'erano, e ci sono ancora, troppe banche. E ancora poco credito. Noi come governo abbiamo messo le mani in una situazione difficilissima con un obiettivo chiaro: via la politica dalle banche”: parola di Matteo Renzi, pronunciata solennemente nel corpo di in una lunga intervista al quotidiano compiacente La Repubblica del 31 luglio, in piena crisi del Monte dei Paschi di Siena, alle prese con una difficile operazione di ricapitalizzazione per 5 miliardi, chiesta dalla Bce per evitare il bail-in , in pratica il salvataggio a prezzo della rovina dei suoi azionisti ed obbligazionisti, mentre il suo valore in Borsa continuava a precipitare di giorno in giorno.
Peccato però che quello stesso giorno Il Fatto Quotidiano rivelasse che il 6 luglio il bugiardo di Rignano sull'Arno aveva invitato a pranzo a Palazzo Chigi il numero uno mondiale di JP Morgan, James Dimon (sì, proprio quella del famigerato memorandum contro le Costituzioni “ancora troppo antifasciste” di alcuni Paesi europei, tra cui l'Italia), per dare il suo entusiastico via libera ad un piano della banca d'affari americana per il “salvataggio” della storica banca senese: vale a dire per impadronirsene a prezzi da saldo, con l'avallo e la compartecipazione interessata del presidente del Consiglio, cominciando subito con la defenestrazione degli amministratori in carica e la loro sostituzione con uomini graditi ai banchieri americani e al premier. Operazione che infatti è andata felicemente in porto ai primi di settembre.
Dimon era accompagnato dal capo di JP Morgan per il Sud Europa Vittorio Grilli, ex ministro del Tesoro nel governo Monti ed ex direttore generale del Tesoro per molti anni, e dal presidente della Cassa depositi e prestiti Claudio Costamagna, ex manager della Goldman Sachs. La banca JP Morgan, insieme a Mediobanca e altri istituti era ed è tutt'ora anche advisor di Montepaschi per l'operazione di ricapitalizzazione avviata dall'allora amministratore delegato Fabrizio Viola e dal presidente Massimo Tononi, successore di Alessandro Profumo, chiamati dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco a “risanare” i conti del disastrato istituto senese. Per questo ruolo di advisor per la collocazione sul mercato di 5 miliardi di azioni Mps il pool di banche guidato da JP Morgan pretende tra l'altro un ricca parcella da quasi 300 milioni, e indipendentemente dal successo o meno dell'operazione.

“Salvataggio” di Mps a prezzi stracciati
Nel corso del pranzo Dimon ha esposto a Renzi il suo piano di “salvataggio”: JP Morgan avrebbe rilevato tutte le sofferenze di Mps, e avrebbe provveduto direttamente alla ricapitalizzazione chiamando a partecipare anche banche “amiche”, diventandone così l'azionista di maggioranza. Con effetto immediato chiedeva però anche la sostituzione dei vertici, cioè l'ad Viola e il presidente Tononi, per dare ai mercati un “segnale di discontinuità” con la vecchia dirigenza e facilitare la collocazione azionaria.
Renzi sposava il piano di Dimon a scatola chiusa, ma il ministro dell'Economia Padoan, che col 4% è il maggior azionista di Mps, non era altrettanto d'accordo: non tanto perché tenesse alla “italianità” della banca senese, o alla dignità dei due dirigenti entrati del tutto immeritatamente nel mirino di Renzi, quanto perché JP Morgan pretendeva di acquistare i crediti inesigibili di Montepaschi ad un prezzo stracciato, il 18% del loro valore. E questo avrebbe rappresentato un brutto segnale per i mercati, deprezzando automaticamente anche le sofferenze in pancia all'intero sistema bancario italiano, che sono una massa enorme. Avrebbe in altre parole detto ai mercati che le banche italiane sono tutte marce. Inoltre ciò avrebbe comportato una perdita secca di 5 miliardi per Mps, per cui l'aumento di capitale deciso da Viola avrebbe dovuto salire ad almeno 8 miliardi.
Il braccio di ferro sotterraneo tra Renzi e Padoan, appoggiato anche da Visco, è andato avanti per qualche settimana, ma poi si è concluso come da copione con la ritirata di Padoan, che ha finito per lavarsene le mani. Pur di spianare la strada agli amici di JP Morgan e arrivare al siluramento di Viola, Renzi è arrivato al punto di bloccare il piano di ricapitalizzazione che l'ex ministro Passera avrebbe dovuto presentare per conto dell'ad di Mps al Consiglio di amministrazione del 29 luglio.
Al pilatesco Padoan è toccato quindi l'imbarazzante compito di telefonare a Viola per chiedergli, “a nome del presidente del Consiglio”, le sue dimissioni “volontarie”. Il che avveniva l'8 settembre, annunciato da un burocratico comunicato del Consiglio di amministrazione che informava che la banca e l'ad Viola “hanno convenuto sull'opportunità di un avvicendamento al vertice”. Al suo posto è stato nominato Marco Morelli, oggi responsabile delle attività europee della banca d'affari americana Merrill Lynch, ma proveniente guarda caso da JP Morgan, dove occupava la poltrona di capo della sezione italiana oggi occupata da Grilli.

Una carriera all'ombra del bancarottiere Mussari
Naturalmente il sostituto di Viola era già bell'e pronto da tempo, ma per salvare le forme, prima di annunciarlo, si è fatto finta per qualche ora di “cercare” il successore tra una rosa di possibili candidati, tra cui ovviamente lui è risultato il “prescelto”. Anche la Bce di Draghi, che ha il compito di vigilare sugli avvicendamenti ai vertici bancari, non ha invece trovato nulla da obiettare, e anzi ha avallato l'operazione chiamando a Francoforte per avere delucidazioni sulla nuova dirigenza il presidente Tononi e il presidente del Comitato nomine, Alessandro Falciai. Ma, in maniera del tutto irrituale e grottesca, li ha fatti accompagnare da Morelli, riconoscendolo quindi come nuovo ad di Mps prima ancora di essere stato nominato. Il filo diretto Renzi-Draghi, evidentemente, funziona a meraviglia.
La sporca manovra di Palazzo Chigi provocava perciò anche le dimissioni per protesta del presidente Tononi, ex assistente di Romano Prodi all'Iri e poi suo sottosegretario al tesoro nel 2006, che fino all'ultimo aveva cercato inutilmente di difendere Viola. In pole position per sostituirlo figura, sempre guarda caso, Antonino Turicchi, alto dirigente del ministero dell'Economia e da sempre vicino all'ex ministro Grilli, regista dell'operazione concordata tra Dimon e Renzi.
La cosa ancor più scandalosa è che il supposto “segnale di discontinuità” ai mercati col quale si è voluto giustificare il siluramento dei vertici Mps è rappresentato da uno, come Morelli, che è stato nel management di Mps, come vicedirettore generale e direttore finanziario, al tempo della presidenza di Giuseppe Mussari, colui che insieme al direttore generale Antonio Vigni ha portato nel baratro lo storico istituto senese. Tant'è che da quando Morelli ha scalzato Viola i famosi mercati, per nulla rassicurati, hanno reagito facendo crollare di un ulteriore 24% il valore delle azioni Mps, portandolo a soli 19 centesimi, alla faccia del “segnale di discontinuità”.
Morelli aveva un ruolo rilevante come collaboratore dei maneggi di Mussari, tanto che ciò gli ha comportato anche un paio di inchieste giudiziarie per un'operazione finanziaria sospetta, dalle quali se l'è cavata con solo una pesante sanzione amministrativa dalla Banca d'Italia. Ma il nuovo ad fu anche invischiato in una vicenda di prestiti al buio per 60 milioni al gruppo Btp di Riccardo Fusi, sul quale è in corso un processo a Firenze. Milioni in parte girati all'amico Denis Verdini, che non sono più rientrati, e Morelli figura nelle intercettazioni come l'uomo chiave messo in campo per ottenere il prestito. E Verdini, guarda caso, è colui che col suo gruppo parlamentare tiene in piedi il governo Renzi al Senato.
L'eterno ritorno del “giglio magico”
Ma le coincidenze non terminano qui, e finiscono sempre per portare non a caso al famigerato “giglio magico” toscano, dando ragione a chi sente “odore di massoneria” nelle vicende bancarie in cui è invischiato da qualche tempo il nuovo duce e il suo codazzo di cortigiani e cortigiane: chi è stato infatti a preparare l'incontro del capo di JP Morgan con Renzi? È stato il capo area per l'Italia e vicecapo della divisione banking per Europa, Medio Oriente e Africa, Francesco Rossi Ferrini. E chi è costui? È un manager bancario internazionale di Firenze, già rinviato a giudizio e assolto per una vicenda di derivati rifilati al Comune di Milano. Il di lui padre, professor Pierluigi, è il vicepresidente della fondazione Cassa di risparmio di Firenze.
Presidente dell'Ente cassa dal 2014 è l'avvocato Umberto Trombadori, fondatore dello studio legale in cui ha fatto pratica Maria Elena Boschi. La banca Cr Firenze è anche azionista al 6,6% di Toscana Aeroporti, molto cara al nostro premier, di cui è presidente il suo amicone e uomo di fiducia, Marco Carrai. Che è anche nel board di Carifirenze ed è amico di Rossi Ferrini. Tutto si tiene. E pensare che solo due giorni prima del siluramento di Viola, per insediare al suo posto un uomo che trafficava col suo amico massone Verdini ed è al servizio di JP Morgan, il nuovo duce ha avuto la faccia tosta di sentenziare ancora una volta, a Porta a porta , che adesso “la politica non mette più bocca nelle banche”!
 

5 ottobre 2016