Lo certifica l'indagine Istat sulle condizioni lavorative di diplomati e laureati
L'Università è asservita al capitalismo

 
A fine settembre è uscito uno studio dell'Istat su “I percorsi di studio e lavoro dei diplomati e laureati”. L'indagine coinvolge poco più di 36mila diplomati e laureati nel 2011 e riguarda la loro situazione occupazionale nel 2015, cioè a quattro anni dalla conclusione degli studi.
Il primo dato riguarda proprio il calo inesorabile dei diplomati che lavorano a cinque anni dal titolo: sono il 43,5% (solo il 40% per le ragazze), rispetto al 45,7% del 2011. Fra chi lavora, meno del 30% ha un contratto a tempo indeterminato. Due giovani su tre prendono la strada dell'università, anche per rimandare la disoccupazione e il precariato, poi però oltre il 30% abbandona per cercare lavoro. Peraltro: le immatricolazioni sono crollate di ben 50.000 unità all'anno dal 2005-06.
Quanto ai laureati, dal campione in esame risulta che, fra chi ha una laurea in ambito letterario, linguistico, psicologico, politico-sociale o persino geo-biologico, lavora solo poco più della metà. Meno del 10% dichiara di avere buone prospettive di carriera e trattamento economico. Il reddito mensile medio per i laureati in discipline letterarie, psicologiche e di educazione fisica non raggiunge nemmeno i 1000 euro.
Non che la situazione sia poi molto più rosea per i laureati delle facoltà “prescelte”, come gli ingegneri: basti pensare che, in una recente brochure dedicata agli investitori internazionali, il Ministero dello Sviluppo economico diretto dall'ex Confindustria Carlo Calenda si vanta che un ingegnere in Italia guadagna meno della media europea.
C'è poi un discreto divario sulla base del sesso: fra i laureati triennali lavora il 75,6% degli uomini e il 70,8% delle donne; fra i laureati magistrali le percentuali sono rispettivamente l'87,5% e l'80,1%.
Questi dati hanno rinfocolato il dibattito in corso da tempo fra chi, come il vicedirettore del “Fatto quotidiano”, il bocconiano (ma pensa un po') Stefano Feltri, addirittura quasi gongola e gioisce ai dati sul crollo degli studi umanistici, e chi, come la FLC-Cgil e diverse organizzazioni studentesche, sostiene che intraprendere questi studi sia in realtà redditizio e che aiuti a formare una “coscienza critica”. Non ci interessa ora entrare nel merito di questo dibattito. Noi comunque abbiamo sempre sostenuto che gli studi umanistici, diversamente da quanto affermato da certi intellettuali piccolo-borghesi e velleitari, non aiutano a liberarsi della concezione borghese e capitalista del mondo: essi sono senz'altro utili a ottenere maggiori strumenti intellettuali e conoscenze culturali, inoltre è evidente che la maggior parte di docenti progressisti sono umanisti, ma questo non basta a cambiare la società, tantomeno se si accompagna al rifiuto del socialismo e del ruolo centrale della classe operaia per cambiare il sistema economico-produttivo che condiziona e determina tutto il resto.
Lo studio dell'Istat, semmai, conferma che l'istruzione è asservita al capitalismo e che ha un carattere di classe: oggi al capitalismo servono quadri e tecnici capaci di far girare i gangli del sistema economico, quindi ecco piogge di denaro sulle facoltà scientifiche, ingegneristiche ed economiche, tagli e sforbiciate alle facoltà umanistiche.
Siamo insomma davanti all'ennesima prova che non c'è altro modo per liberare l'istruzione dalle catene del mercato senza abbattere il capitalismo, che tutto asservisce alle proprie esigenze, a scapito degli interessi economici e culturali delle larghe masse popolari.

12 ottobre 2016