I dipendenti pubblici impoveriti dal blocco dei contratti dal 2009
Renzi stanzia spiccioli per il rinnovo dei contratti

“Il governo mette sul piatto i soldi per i contratti del pubblico impiego”, una frase buona per fare il titolo dei giornali e aprire i tg, scelta in questi giorni da quasi tutti i mass-media, oramai nella maggior parte allineati con Renzi oppure incapaci di andare oltre le apparenze. Nella sostanza stiamo parlando di altri 600 milioni di euro da mettere a disposizione e da aggiungere ai 300 già stanziati, una cifra ridicola che lo stesso nuovo duce Renzi e il ministro della Pubblica Amministrazione (PA) Madia definirono “simbolica”.
Si raggiungono così complessivamente 900 milioni di euro che all'apparenza possono sembrare una cifra considerevole ma se calcoliamo che il governo ha intenzione di spalmarla nel triennio 2017-2019 e dividendola per i 3,3 milioni di dipendenti pubblici ai lavoratori arriverebbero nelle tasche solo pochi spiccioli. Di tutt’altre cifre parlano i sindacati. La UilPa ha piazzato l'asticella delle risorse che il governo dovrebbe mettere sul tavolo del rinnovo del contratto degli statali a 7 miliardi nel triennio. Se la cifra sarà inferiore, il sindacato annuncia che non sarà disponibile a trattare. Sulla stessa linea anche CGIL e CISL che hanno chiesto rispettivamente un aumento di 220 euro lordi al mese (132 euro al netto delle tasse), e di 150 euro.
Ma di fronte alle proposte del governo il fronte sindacale si divide: la CGIL sostiene che non si tratta di uno stanziamento adeguato e, se dovesse essere confermato, saranno possibili azioni di protesta. La Uil chiede di più mentre la CISL è più tiepida, ritenendo la mossa del governo un primo passo, pur ammettendo che non si tratta di un intervento risolutivo e che, per poter sortire qualche effetto concreto sulle buste paga dei dipendenti pubblici, avrà bisogno di una robusta iniezione di risorse da parte delle Regioni, quasi tutte le altre sigle sindacali rispediscono al mittente la proposta del governo.
Le stesse richieste sindacali sono comunque al di sotto della perdita del potere d'acquisto degli stipendi subita dal lunghissimo stop che prosegue dal 2009. In tutto questo tempo la perdita secca è di quasi il 10%. Con le loro richieste i sindacati confederali si adeguano alla controversa sentenza della Corte Costituzionale che ha giudicato illegittimo il blocco dei salari nella PA, ma non ha dichiarato retroattiva la sentenza, in pratica la Consulta ha “approvato” il congelamento dei contratti degli statali degli anni precedenti, ma ha giudicato illegittima la riconferma del blocco. La cifra necessaria al totale recupero di questi 7 anni si aggira intorno ai 35 miliardi di euro per i rimborsi più 13 miliardi a regime come riporta il Sole 24 ore. Numeri che ci fanno capire che montagna di soldi i vari governi hanno sottratto alle tasche dei dipendenti pubblici.
Tutto è iniziato nel 2010, quando il quarto governo Berlusconi impose per decreto il blocco delle retribuzioni di circa 3,3 milioni di dipendenti statali per gli anni 2010-2013. Non revocato dal governo Monti, il blocco è stato rinnovato dall’esecutivo Letta fino alla fine del 2014. Il governo Renzi, con il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia promise lo sblocco degli stipendi statali nella legge di stabilità per il 2015, ma a settembre fece marcia indietro sostenendo che le risorse disponibili non erano sufficienti. Nel frattempo a giugno dello stesso anno era arrivata la sentenza della Consulta, seguita dalla promessa del governo di “sanare un'ingiustizia”.
Una presa in giro perché basta vedere quanto alla fine viene fuori in “soldoni” (si fa per dire). Pur aggiungendoci ulteriori 600 milioni di risorse in carico a Regioni e Comuni (un milione e 200mila dipendenti equamente divisi) si potrà arrivare a un aumento di 50 euro lordi, 35 euro netti al mese che non recupereranno certo l'impoverimento causato dal blocco dei contratti dal 2009, la distanza rimane abissale. Nelle prossime settimane sindacati e governo dovrebbero tornare a incontrarsi, ma la discussione non sarà soltanto sulle risorse che il governo intende spendere nella Legge di stabilità per i contratti statali, ma anche le regole con cui intende procedere al rinnovo dei contratti.
L’ultima riforma del pubblico impiego infatti, quella targata Renato Brunetta, ha introdotto il concetto di “meritocrazia” per la distribuzione dei bonus produttività previsti dal contratti degli statali. Questa prevede che oltre il 50% del salario accessorio, cioè i soldi che i contratti integrativi aggiungono allo stipendio base del contratto nazionale, sia destinato al salario di “produttività”, una sorta di premio individuale. Tale salario di produttività assorbe gran parte delle risorse stanziate, quindi, deve essere distribuito ai lavoratori statali divisi in tre fasce: il 50% dei premi va al 25% degli statali più “meritevoli”; l’altra metà dei premi al 50% degli statali “intermedi” e il restante 25% resta a bocca asciutta. In pratica quindi per 700-800 mila persone, cioè a quel 25% di lavoratori pubblici che dovrebbero rimanere senza premi, il rinnovo del contratto rischia di non dare neppure quei pochi spiccioli previsti.
La riforma Brunetta non è mai stata attuata per il blocco dei rinnovi contrattuali ma la “meritocrazia” è sostenuta anche dal governo Renzi. Una norma che viene presentata come necessaria per colpire eventuali “furbetti del cartellino” (generalmente conniventi con i dirigenti) ma che inevitabilmente si ritorcerà su chi ha lunghi periodi di malattia, su chi ha situazioni familiari difficili e sui lavoratori più combattivi. In ultima analisi anche questo atto del governo, come già quello sulle pensioni, si dimostra un intervento demagogico che non elimina ingiustizie e soprusi ma, sostenuto da una martellante campagna propagandistica di regime, utile per carpire consensi elettorali, in questo caso per indirizzare un voto favorevole al referendum del 4 dicembre sulla controriforma costituzionale voluta dal nuovo duce Renzi.

19 ottobre 2016