Lo dichiara il presidente Duterte
Le Filippine si separano dagli Usa e si schierano con la Cina e la Russia

 
La volontà del presidente filippino Rodrigo Duterte di allentare i rapporti “troppo stretti” con Washington e migliorare il dialogo con Pechino era nota da tempo e non sorprende quindi il suo formale annuncio del 21 ottobre quando ha confermato il cambio di politica estera del Paese, la separzione delle Filippine dagli Usa, dei quali è ferreo alleato dal 1946, e il passaggio dalle parte di Cina e Russia.
Annuncio “la mia separazione dagli Stati Uniti, non dal punto di vista sociale ma da quello militare ed economico. L’America ha perso”, dichiarava Duterte nella Grande sala del popolo a Pechino dove si trovava da alcuni giorni in visita ufficiale. Alla platea di capitalisti cinesi presenti annunciava “mi separo da loro e quindi sarò dipendente da voi per tutto il tempo. Ma non abbiate paura, anche noi vi aiuteremo, come voi ci aiuterete”, prospettando loro nuovi e lucrosi affari. Ma il presidente filippino non si limitava a dipingere nuovi scenari solo economici, pensava ancora più in grande e, dopo essersi dichiarato socialista durante la vittoriosa campagna elettorale presidenziale del giugno scorso, affermava che “mi sono spostato nel vostro flusso ideologico e forse dovrò anche andare in Russia per parlare con Putin e dirgli che siamo in tre contro il resto del mondo: Cina, Filippine e Russia”.
Un programma a dir poco ambizioso, nel quale il ruolo delle Filippine non è centrale, ma che mette certamente in difficoltà i paesi imperialisti rivali: è un colpo allo schieramento imperialista costruito con pazienza da Obama e guidato dagli Usa che sulla alleanza economica e militare di paesi lungo l'arco che parte dalla Corea del Sud e passa da Giappone e Filippine fino al Vietnam ha costruito la cintura di contenimento dell'espansionismo cinese nella regione e non solo.
Il presidente cinese Xi Jinping definiva Cina e Filippine due Paesi "vicini di casa attraverso il mare" che "non hanno ragione" di avere un atteggiamento "ostile o di confronto". E il comunicato ufficiale diffuso alla fine dell'incontro con Dutarte evidenziava come i due leader avessero intrattenuto colloqui "ampi" e "amichevoli".
La nuova intesa tra Cina e Filippine era rappresentata anzitutto dalla firma di 13 memorandum di intesa, che vanno dai commerci al controllo dei narcotici, dalla sicurezza marittima alle infrastrutture, per definire una serie di accordi commerciali dal valore di 13,5 miliardi di dollari. Solo un acconto, affermava il ministro filippino del Commercio, Ramon Lopez, dato che gli scambi tra i due partner potrebbero raggiunge i 60 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. “In termini di rapporti economici, non termineremo gli scambi e gli investimenti con l’America”, precisava il ministro per tentare di parare le inevitabili proteste che partivano dalla Casa Bianca.
Un Obama a fine mandato incassava il colpo e affidava al portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby una debole replica. Al momento il governo americano si limitava a dichiarasi “sorpreso” dalle parole del presidente filippino che sono “senza alcuna ragione in contrasto con gli stretti rapporti che abbiamo con il popolo filippino e con il governo”. Mentre il capo del Pentagono Ashton Carter si limitava a sottolineare che gli Usa intendono conservare il loro alleato e ricordava tra gli altri l’accordo di cooperazione militare, firmato col predecessore di Duterte, che consente agli Usa di utilizzare cinque basi aeree e navali nell’arcipelago e le prossime esercitazioni militari congiunte non ancora cancellate.
Che le esercitazioni congiunte erano state concellate lo comunicherà una settimana dopo lo stesso presidente filippino in visita ufficiale in Giappone dal premier Shinzo Abe che nell'occasione rivestiva anche i panni del mediatore per evitare una rottura definitiva fra Manila e Washington. Duterte il 27 ottobre a Tokyo firmava accordi militari e commerciali per 210 milioni di dollari ma annunciava anche di voler mandare via i militari Usa dalle Filippine.
Solamente tre mesi fa Cina e Filippine sembravano ai ferri corti dopo la sentenza del 12 luglio della Corte permanente di arbitrato (Cpa) sulla Legge del Mare dell’Aja, in base alla quale Pechino “non ha alcun diritto” di sovranità sui isole e atolli contesi nel mar Cinese meridionale. Il governo di Pechino respingeva la sentenza del tribunale internazionale sostenendo che la Cina sarebbe stata “la prima ad aver scoperto, dato un nome, esplorato e sfruttato” l’area, esercitando in modo “continuativo e pacifico” sovranità e la giurisdizione. Il governo di Manila replicava tramite una nota ufficiale del ministro degli Esteri Perfecto Yasay che chiedeva ala Cina il rispetto della sentenza e annunciava di voler discutere della controversia col premier cinese Li Keqiang al successivo summit Asia-Europa (Asem) di Ulan Bator, in Mongolia.
Il presidente Duterte invece definiva la sentenza una “pietra miliare” ma non elogiava la decisione del tribunale del'Aja e di fatto manifestava l'intenzione di abbandonare lo schieramento imperialista a guida Usa rilanciando il proposito del suo governo di voler condividere le risorse naturali con la Cina. La conferma arriverà due mesi dopo. Duterte definiva l’arbitrato solo “un pezzo di carta con quattro angoli” e in uno dei memorandum firmati a Pechino, Cina e Filippine si accordavano per la creazione di una “Commissione congiunta di guardia costiera e cooperazione marittima” nel mar Cinese meridionale.

2 novembre 2016