Contro lo sfruttamento selvaggio e le condizioni di lavoro
Presìdi e mobilitazione dei fattorini Foodora
Pagati 3 euro l'ora

Lo scorso 8 ottobre a Torino è partita la protesta dei fattorini di Foodora - l’azienda tedesca che si occupa della consegna di cibi a domicilio - che si è progressivamente allargata nei giorni successivi anche all’altra città italiana nella quale opera l’impresa, Milano.
I lavoratori hanno protestato per chiedere maggiori tutele contrattuali e una retribuzione più dignitosa, visto che si tratta di un lavoro precario e rischioso: a fronte di decine di chilometri che in media vengono percorsi in bicicletta o in motorino in mezzo al traffico di grandi città l’azienda ha deciso arbitrariamente di passare dalla paga di 5 euro l’ora a 2,70 euro per ogni consegna effettuata, imponendo di fatto unilateralmente un vero e proprio cottimo senza una paga fissa, con l’ovvia conseguenza che tutto il tempo in cui non ci sono ordini i lavoratori non vengono retribuiti.
A conti fatti, i fattorini rischiano di mettersi in tasca meno di 3 euro l'ora.
Inoltre sono a esclusivo carico dei fattorini le spese per la manutenzione dei mezzi che utilizzano, bici e motorino, nonché le spese telefoniche, e per di più i loro spostamenti vengono continuamente monitorati dall’azienda tramite una apposita app telematica.
Tra le richieste dei lavoratori c’è naturalmente quella più ovvia, cioè di essere riconosciuti come dipendenti, come ha spiegato chiaramente in una nota il comitato spontaneo sorto subito dopo l’inizio della protesta: “il nostro contratto è una sorta di Co.co.co fatto male, una forma contrattuale superata ormai da anni che definisce una collaborazione tra un’azienda committente e un libero professionista. Tuttavia noi rider siamo a tutti gli effetti dipendenti di Foodora: costretti ad indossare la loro divisa, sottoposti a rapporti gerarchici, in balia delle loro decisioni e sottoposti a delle valutazioni per cui se non siamo accondiscendenti nei loro confronti ci vengono dati meno turni ”.
Si tratta, come è chiaro, di un vero e proprio lavoro dipendente mascherato però da collaborazione, esattamente come quello delle false partite IVA o dei lavoratori pagati con i voucher, con la conseguenza peraltro che, non essendo ufficialmente inquadrati come lavoratori subordinati, essi non hanno diritto a ferie retribuite, tredicesima, contributi, accesso a sussidi di disoccupazione e per malattia, limitandosi l’azienda a garantire un’assicurazione che copre solo le spese mediche per gli incidenti sul lavoro, ma se stanno male e non possono lavorare non vengono pagati, così come non vengono pagati se si fanno male mentre lavorano e devono restare a casa.
Dopo che la protesta aveva raggiunto anche Milano, i lavoratori di Foodora hanno quindi organizzato il 20 ottobre un’assemblea pubblica che si è svolta nel cortile del Campus Luigi Einaudi di Torino alla presenza di alcune centinaia di persone, allo scopo di creare un momento di confronto con tutto il mondo del lavoro, e soprattutto quello generato dalle moderne start up che si contraddistingue per dinamiche ancora poco conosciute e che comunque si caratterizza per una sistematica precarietà sconosciuta nelle tradizionali forme di lavoro e si presta ancora di più, rispetto a queste ultime, allo sfruttamento illimitato dalla forza-lavoro.
All’assemblea hanno partecipato circa seicento persone, di cui solo una piccola parte erano i lavoratori della Foodora interessati alla protesta, con il coinvolgimento anche di lavoratori di altre realtà produttive, di studenti e di sindacalisti, e proprio dalle Confederazioni Cgil, Cisl e Uil di Torino è arrivata, tramite un comunicato stampa congiunto, la piena solidarietà alla protesta dei fattorini.
Il sistema di consegne a domicilio sul quale si fonda l’attività di Foodora segna un salto di qualità nello sfruttamento capitalista di manodopera, in quanto utilizza il meccanismo dell’algoritmo per gestire la fluttuazione della domanda, ovvero si basa sull’avere a disposizione una forza-lavoro flessibile, che può venire mobilizzata o smobilizzata in base alla domanda dei consumatori, e il tentativo di questo tipo di impresa di passare a un sistema di compensi stabilito a prestazione piuttosto che al classico sistema di retribuzione fissa, cioè alla classica retribuzione prevista dai contratti collettivi, permette alle piattaforme di eludere totalmente i costi dei potenziali tempi morti o di bassa domanda sui lavoratori stessi, operando dunque una stretta al ribasso sui costi del lavoro, e addossando in definitiva sui lavoratori tutti gli altri rischi.
Il modello sul quale si fonda un’impresa come Foodora è assai simile al settore della logistica, nel quale la maggior parte dei profitti vengono estratti attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi dei facchini, e questo modello, pur spacciato per un nuovo modello di economia nel quale viene data ai lavoratori una opportunità di lavoro flessibile e gestibile dagli stessi quasi fossero piccoli imprenditori, nasconde per essi una vera e propria trappola, innanzitutto sul piano giuridico, in quanto i fattorini di Foodora sono a tutti gli effetti dei lavoratori dipendenti e non dei lavoratori autonomi in grado di gestire i loro servizi con un sufficiente grado di autonomia: infatti essi hanno nei confronti dell’azienda una serie di doveri quali quello di esclusività, in quanto il contratto con Foodora li obbliga a non poter lavorare per aziende concorrenti ad essa, quello di attenersi alle disposizioni aziendali quali l’uso dell’abbigliamento aziendale, il rispetto dei tempi e in generale la piena sottoposizione a regole aziendali, ma hanno in compenso una retribuzione da fame, un regime di estrema precarietà e soprattutto un regime di rischi lavorativi addossati esclusivamente su di loro, senza considerare la mancanza assoluta di ferie retribuite, indennità di malattia, retribuzione base, il che comporta che questo nuovo tipo di regime lavorativo, sotto le mentite spoglie di modernità, si pone nello stesso ambito dei famigerati voucher e delle finte partite IVA.
 

2 novembre 2016