Una proposta di stampo keynesiano per aumentare investimenti e consumi e sostenere il capitalismo in crisi
Il Piano del Lavoro della Cgil non porta alcun vantaggio ai lavoratori

Il 13 settembre, presso la sede nazionale della confederazione in Via del Corso a Roma la Cgil ha presentato il suo Piano del Lavoro. E tuttavia vogliamo avvertire che non si tratta di una vera e propria novità, poiché tale Piano è una sintesi e una riproposizione di quello del 2013 e poi tirato fuori di nuovo nel 2015, con qualche aggiustamento e aggiornamento. Il vero atto di nascita risale quindi a più di tre anni fa, con l'uscita di un lungo ed articolato documento di 27 pagine mentre quello attuale si riduce a poco più di sei, grafici compresi.
Le date sono importanti per collocare gli avvenimenti nel loro contesto temporale. Quando nel 2013 vide la luce il Piano del Lavoro alla testa della Cgil, che si approssimava al congresso, c'era ancora Guglielmo Epifani ed eravamo alla vigilia (mancava poco più di un mese) delle elezioni politiche, che facevano presagire una scontata vittoria della “sinistra” borghese a guida Bersani-Vendola sulla destra che vedeva il suo capo Berlusconi ridimensionato per i suoi scandali finanziari e sessuali e “sfiduciato” dall'Unione Europea (UE). Il Piano del Lavoro appariva a tutti gli effetti una specie di “manifesto” dove la Cgil elencava le proprie rivendicazioni a un futuro governo “amico” di “centro-sinistra”.
Le cose andarono diversamente a causa della tripartizione dei voti validi tra “centro-sinistra”, destra e Movimento 5 Stelle, la quale creò un blocco alla formazione del nuovo esecutivo. Per ovviare a ciò si formò il “governo delle larghe intese” guidato da Letta e sostenuto da Berlusconi, fino all'arrivo del nuovo cavallo scelto dalla borghesia e dall'UE, Renzi, che siglò con il capo di Forza Italia il Patto del Nazareno con l'intenzione di scrivere insieme la controriforma della Costituzione, il che ci fa capire come sia strumentale il NO di Berlusconi al referendum del 4 dicembre. Il Piano del Lavoro è finito presto nel dimenticatoio e tutti e tre i governi hanno ignorato le richieste della Cgil. Renzi si è spinto più avanti di tutti schierandosi con Marchionne e ha attaccato ripetutamente la Cgil mettendo in discussione il ruolo e l'esistenza stessa del sindacato, tollerando solo un sindacato unico corporativo e di regime.
Adesso si rispolvera il Piano del Lavoro, con un chiaro ed esplicito riferimento a quello assai più famoso lanciato dalla Cgil di Di Vittorio nel 1949-50, in una situazione nazionale e internazionale completamente diversa, anche se entrambi nati con lo scopo dichiarato di ridurre la disoccupazione. Tutti e due hanno comunque un altro comune denominatore: hanno una visione corporativa del sindacato, che assume un ruolo di soggetto apparentemente autonomo ma facente parte esso stesso delle istituzioni borghesi e integrato nel sistema capitalistico, portatore non delle istanze dei lavoratori ma di “interessi generali”, come diceva lo stesso sindacalista pugliese.
Il Piano del Lavoro del dopoguerra era profondamente riformista e d'ispirazione socialdemocratica, aveva sì lo scopo di ridurre la disoccupazione che aveva raggiunto livelli drammatici, ma l'obiettivo più generale era quello di ricostruire l'economia post-bellica dell'Italia attraverso l'alleanza dei lavoratori con la borghesia, perpetuando la linea dell' ”unità nazionale” che aveva avuto senso durante la Resistenza e fino alla fine della guerra, ma era insostenibile in quel frangente storico in cui la DC, sotto pressione americana, aveva cacciato il PCI dal governo, era stata lanciata una pesante offensiva padronale contro i lavoratori e si era aperta la caccia e la persecuzione nelle fabbriche contro i comunisti, era iniziata la Guerra Fredda.
Il Piano non ebbe alcun seguito nonostante fosse moderato e conciliatorio con il capitale tanto che non piacque nemmeno all'allora PCI di Togliatti e perfino al PSI che invitavano la Cgil di Di Vittorio a occuparsi più delle condizioni degli operai e dei contadini che di piani nazionali di sviluppo. È la stessa Cgil della Camusso, a cui piace tanto rifarsi al revisionista e riformista Di Vittorio, a ricordarci come il suo Piano del Lavoro “ nulla aveva a che fare con un programma di riforme volto a un cambiamento radicale dei rapporti sociali. Non si trattava di un progetto socialista, in altre parole”, e su questo noi marxisti-leninisti siamo perfettamente d'accordo.
Ma torniamo ai giorni nostri e al “Piano del Lavoro, un piano straordinario per l'occupazione giovanile e femminile”, come è stato denominato nell'ultima sua versione. Un progetto che parte dal pensiero keynesiano, come ammette la Cgil, nel senso che si ispira alle teorizzazioni dell'economista borghese britannico Keynes il quale sosteneva l'intervento statale nell'economia di mercato in particolari momenti di crisi, favorendo l'occupazione e i salari in modo da far ripartire i consumi e superare più agevolmente i periodi di magra, non tanto per andare incontro ai lavoratori ma con lo scopo di far ripartire e perpetuare l'economia e il sistema capitalistico.
Da “keynesiani” a renziani il passo è breve. Perché alla fine per la Cgil le cause della crisi e dell'impoverimento dei lavoratori e delle masse popolari sono attribuibili alla politica di austerità, dei vincoli troppo stretti sul debito pubblico e della rigidità dell'Unione Europea che non tiene di conto della diversità dei vari Paesi che compongono l'UE. In ultima analisi sposa il tormentone di Renzi che chiede maggiore flessibilità sui conti pubblici e un occhio di riguardo per l'Italia e gli altri paesi in maggiore difficoltà.
Nel concreto il documento ci ricorda le conseguenze di 8 anni di crisi economica capitalistica: 1,6 milioni di posti di lavoro in meno, gli individui in condizione di povertà assoluta passati da 1 milione 789 mila a 4 milioni e 102 mila, l'aumento dell’indice di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l'aumento della cassa integrazione, la diminuzione dei salari e tanti altri drammatici dati di cui ci siamo occupati spesso anche sulle pagine del Bolscevico.
Attraverso un'agenzia nazionale, dove accanto al pubblico opera anche il privato, attraverso accordi con le amministrazioni locali, si potrebbe ottenere, secondo la Cgil l'assunzione a tempo indeterminato di 20.000 ricercatori, 100.000 persone nella pubblica amministrazione, 300.000 contratti straordinari 3 anni+3 in prevenzione del territorio e 100.000 contratti triennali nella cultura ovvero contratti a termine, 60.000 occupati in nuove cooperative, 20.000 occupati in nuove imprese giovanili innovative, le cosiddette start up . Le risorse, 50-60 miliardi di euro in tre anni, andrebbero trovate sperando in un allentamento delle redini della UE sulla spesa pubblica o, seconda possibilità, con una patrimoniale ( che nessun governo pensa minimamente di attuare).
Il Piano del lavoro è molto lontano dai tanti progetti di intervento pubblico diretto in economia del passato, è ancora meno incisivo. La Cgil punta a definire un “nuovo ruolo del settore pubblico”, partendo dal presupposto che la crescita si può ottenere solo agendo sul lato della domanda: aumentando investimenti e consumi. Per ottenerli il ruolo dei privati è quello principale, mentre quello statale è subordinato ed entra in scena solo per “stimolare” quello privato, in particolare detassando e agevolando le imprese, cosa che del resto sta già facendo, e alla grande, il nuovo duce Renzi.
Certo che servirebbe un Piano straordinario per l'occupazione, ma non è certo quello della CGIL. Il “piano del lavoro” non potrà essere tale senza mettere in discussione il tema dell’intervento pubblico in economia, dell’avocazione allo Stato della proprietà di infrastrutture, banche, settori strategici dell’industria. Consapevoli che nel capitalismo non potrà esserci mai la piena occupazione, occorre rivendicare l'assunzione stabile di tutti i precari nella pubblica amministrazione, eliminare tutte le forme di precariato e quelle che legalizzano il lavoro nero come i voucher, ridurre l'orario di lavoro a 35 ore, bloccare le privatizzazioni, nazionalizzare le banche, gli enti e le grandi aziende d'interesse generale, dare sostegno adeguato a chi perde il lavoro, pensioni dignitose, e tanto altro.
Tutto questo richiederebbe anche di svincolarsi dalla gabbie imposte dalla UE imperialista e dal Fondo monetario internazionale e sopratutto servirebbe una mobilitazione forte per sostenere richieste di questo tipo che qualsiasi governo borghese si rifiuterebbe di concedere. Ma la Cgil, pur richiedendo un allentamento delle restrizioni della UE non la mette in discussione e ne riconosce l'autorità. Allo stesso modo con il governo nazionale ricerca continuamente il dialogo e la concertazione, come abbiamo visto con le pensioni e il contratto del pubblico impiego e la legge di bilancio, quando invece servirebbe alzare il livello dello scontro per opporsi alla politica reazionaria e antioperaia del governo duce Renzi.

2 novembre 2016