L'Onu dichiara illegali le colonie di Israele
Per la prima volta gli Usa si astengono

 
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvava il 23 dicembre la risoluzione n. 2334 che condanna degli insediamenti coloniali israeliani definiti “illegali” e chiedeva a Tel Aviv di non costruire altre colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Una condanna che mai era stata pronunciata in questa sede Onu e che è stata resa possibile per la prima volta solo grazie all'astensione degli Usa che come di consueto non hanno fatto ricorso al loro potere di veto per bloccare la risoluzione votata dagli altri 14 membri del Consiglio.
La condanna dell'Onu è importante anche se è nata dalla constatazione che il continuo sviluppo delle colonie renderebbe vana la soluzione dei due Stati, la soluzione scelta dall'imperialismo seppur osteggiata dai sionisti imperialisti di Tel Aviv. Che comunque non realizzerebbe i diritti dei palestinesi come invece quella di un solo Stato e due popoli.
La risoluzione affermava che “ la costruzione da parte di Israele di insediamenti nei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritti internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento della soluzione dei due Stati”. Il Consiglio dell'Onu ribadiva che non riconoscerà alcuna modifica alle linee tracciate nel 1967 salvo diverso accordo tra le due parti attraverso i negoziati e quindi condannava “tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, incluse, tra le altre cose, la costruzione e espansione degli insediamenti, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento forzato di civili palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali e delle risoluzioni pertinenti”. Ribadiva quindi “la richiesta che Israele interrompa immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est, e che rispetti totalmente tutti i propri obblighi a questo proposito”.
Finora il veto dell'imperialismo americano aveva bloccato proposte di risoluzioni di condanna di questo tipo e l'amministrazione Obama, solo a un passo dal fare le valige dalla Casa Bianca, ha cambiato posizione per tentare di salvare la faccia. L'ambasciatrice Usa all'Onu, Samantha Power, spiegando l'astensione sulla mozione affermava che “gli Stati Uniti hanno inviato sia privatamente che pubblicamente per quasi cinque decenni il messaggio che le colonie devono cessare di esistere. Non si può simultaneamente difendere l'espansione degli insediamenti e difendere la soluzione praticabile dei due popoli, due Stati per arrivare alla fine del conflitto”. A giudicare dallo sviluppo delle colonie in Cisgiordania si può affermare che le “pressioni” di Washington non hanno ottenuto alcun risultato, ovvero l'imperialismo americano è stato complice per quasi cinque decenni, compresi gli ultimi due dell'amministrazione Obama, della negazione dei diritti dei palestinesi e del genocidio attuati dal regime imperialista sionista di Tel Aviv. E quando la Power affermava che Israele sarebbe “l'unica democrazia in Medio Oriente”, quella che discrimina financo le minoranze arabe al suo interno, risulta evidente l'ipocrisia imperialista che nega persino l'evidenza. Altrimenti la Casa Bianca non avrebbe dovuto firmare il 14 settembre scorso l'accordo per un piano di aiuti militari a Israele del valore di 40 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.
Obama fin dal 2009 aveva definito i negoziati tra israeliani e palestinesi la sua priorità in politica estera e aveva dato carta bianca al segretario di stato John Kerry per portare a casa una storica pace. La sua “svolta” nella politica mediorientale degli Usa non è mai avvenuta, si è dimostrata un bluff come tante altre e l’occupazione sionista della Palestina si è ampliata.
La risoluzione Onu faceva infuriare i sionisti. L'ambasciatore israeliano presso il Palazzo di Vetro denunciava la “risoluzione scandalosa” affermando che “né il Consiglio di sicurezza dell'Onu né l'Unesco possono spezzare il legame fra il popolo di Israele e la terra di Israele” che Tel Aviv rinsalda con la pulizia etnica e la cacciata dei palestinesi dalle loro case. L'ambasciatore criticava la posizione di astensione dell'amministrazione Obama e lanciava un appello alla prossima: “non ho dubbi sul fatto che la nuova amministrazione americana e il nuovo segretario generale dell'Onu apriranno una nuova era in termini di relazioni dell'Onu con Israele”. Gioco facile col nuovo presidente americano Donald Trump che ha già dichiarato di voler spostare l'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi riconoscere di fatto quella che anche per l'Onu è una illegale occupazione della città.
Il socialista e cattolico ex premier portoghese Antonio Guterres, dall'1 gennaio segretario generale delle Nazioni Unite al posto del sudcoreano Ban Ki-moon, non ha ancora detto la sua. Trump, via Twitter, avvertiva l'Onu che “le cose cambieranno dopo il 20 gennaio” quando sarà in carica. Già era intervenuto con successo, assieme al sionista Benyamin Netanyahu, sul presidente egiziano al Sisi che aveva presentato la risoluzione originaria per fargliela ritirare. Il testo era però riproposto dai rappresentanti di Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela; l'ambasciatore della Malesia spiegava poco prima della votazione che i quattro Paesi consideravano importante “cogliere l'opportunità del crescente consenso” in seno al Consiglio di una presa di posizione a fronte anche del progetto di legge che era in discussione al Parlamento israeliano per legalizzare in modo retroattivo le colonie ebraiche in Cisgiordania.
Il primo ministro israeliano Netanyahu telefonava tra gli altri al Ministro degli Esteri della Nuova Zelanda, Murray McCully, per avvertirlo che la risoluzione delle Nazioni Unite cosponsorizzata dal suo paese era considerata da Israele come una “dichiarazione di guerra. Sarà rottura delle relazioni e ci saranno conseguenze”. La Nuova Zelanda non faceva marcia indietro e Israele ritirava il suo ambasciatore dal paese, come dagli altri Stati presentatori della risoluzione, e cacciava quello neozelandese.
La risoluzione passava con 14 voti e l'astensione degli Usa mentre il regime sionista rispondeva arrogantemente il 26 dicembre con la decisione del Comune di Gerusalemme di dare il via ad un piano per la costruzione di altre 618 case nella parte est della città, quella a prevalenza araba.

4 gennaio 2017