Il giornale trotzkista accredita la pseudo “nuova sinistra” cinese
L'intellettuale cinese Wang Hui, pubblicato dal “manifesto”, deforma il pensiero di mao e la rivoluzione culturale

 
“Il manifesto” trotzkista ha dato grande risalto ad un inserto, pubblicato il 21 dicembre scorso, intitolato “Il movimento della politica”, che riporta un articolo dell'intellettuale cinese Wang Hui, presentato come un rappresentante della “nuova sinistra cinese”. In verità Wang non si riconosce nella “nuova sinistra”, una fazione riformista del tutto interna al partito revisionista cinese, tanto quanto non si riconosce – si affretta a precisare nella sua introduzione Simone Pieranni, corrispondente da Pechino – nel cosiddetto “neo-maoismo”.
Wang Hui è in realtà ideologicamente ambiguo: professore dell'Università Qinghua, la seconda più prestigiosa del Paese dopo quella di Pechino, ha acquisito notorietà a livello mondiale nei circoli dell'intellettualità della “sinistra” riformista e anarco-trotzkista per via delle sue analisi sul neoliberismo in Cina e dell'apparente difesa di Mao. In realtà Wang si è dichiarato apertamente contro il materialismo dialettico e storico e, nella sua voluminosa opera sul pensiero cinese moderno, ha opportunamente tagliato fuori Mao e il periodo socialista in Cina. Ciononostante, “il manifesto” lo accredita come l'esponente di punta della sinistra cinese e come tale ha pubblicato un suo intervento che tratta largamente della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (GRCP).
 
Una deformazione di Mao e della Rivoluzione culturale
E si tratta effettivamente di una “sinistra” che fa comodo ai riformisti, non certo ai rivoluzionari, poiché esclude completamente il discorso di classe. Wang Hui inserisce la storia nel binomio politicizzazione/depoliticizzazione, che coincidono rispettivamente con i moti sociali durante i quali i problemi politici coinvolgono la maggioranza della società (la politicizzazione), e con “l'opposizione rigida e intollerante e il pensiero polarizzato” (la depoliticizzazione). Rimuovendo totalmente la lotta di classe dalla sua elaborazione, Wang Hui fa corrispondere la depoliticizzazione con il momento in cui la classe oppressa, attraverso la sua lotta rivoluzionaria (la “politicizzazione”), prende il potere dello Stato e resta “imprigionata” nei meccanismi statali. Parafrasi: la rivoluzione diventa inevitabilmente controrivoluzione.
Secondo questo schema di auto-condanna della rivoluzione alla sconfitta, la guerra di resistenza contro il Giappone del 1937-45 e la rivoluzione di nuova democrazia che portò alla nascita della Cina popolare nel 1949 furono momenti di politicizzazione, ma già la guerra di Corea (1950-53), dove la Cina intervenne per evitare che gli imperialisti Usa occupassero l'intera penisola coreana, viene messa in contrasto con la guerra popolare rivoluzionaria in quanto “guerra di difesa nazionale”, sminuendo peraltro il suo profondo significato internazionalista proletario.
A questo punto lo stesso Mao viene deformato in senso anarcoide, stravolgendo passaggi delle sue opere, per presentare la GRCP come una “auto-rivoluzione all'interno di un Paese socialista” nei confronti “del partito rivoluzionario e dello Stato socialista”, fallita, a suo dire, perché conteneva in sé la tendenza alla “depoliticizzazione” (leggi controrivoluzione) e “le condizioni per un 'ritorno all'ordine' del partito e dello Stato”.
 
La vera natura della Rivoluzione culturale
Certo in questo gran trambusto, reso ancora più nebuloso dai fronzoli metafisici di Wang Hui, non si capisce nulla della Rivoluzione culturale proletaria (ma forse l'obiettivo del “manifesto” era proprio questo). Mao, in realtà, non aveva mai dimenticato la lotta di classe, anzi la definiva “l'asse attorno cui ruota tutto il resto”, e aveva ideato, guidato e spiegato la Rivoluzione culturale come “una grande rivoluzione politica che il proletariato conduce nelle condizioni del socialismo, contro la borghesia e tutte le altre classi sfruttatrici, la continuazione della lunga lotta che oppone il Partito comunista cinese e le larghe masse popolari rivoluzionarie che esso dirige alla reazione del Kuomintang, la continuazione della lotta di classe tra proletariato e la borghesia”. Non quindi una rivoluzione contro il partito e lo Stato del proletariato, ma contro la borghesia che si forma inevitabilmente al loro interno in conseguenza del fatto che anche nel socialismo esistono le classi e la lotta di classe. Certo questo è incomprensibile se si parla di “partito e stato” generici, senza connotati di classe.
È persino antistorico affermare, come pure fa Wang Hui, che dopo il 1969 (l'anno in cui il Partito comunista cinese, col suo IX congresso, si riorganizzò e riconsolidò) “tutte le questioni si sono ridotte a problemi di interesse nazionale”. A parte che mai Mao si era sognato di distruggere il Partito e lo Stato socialista (per sostituirli con cosa, poi?), ma soltanto le nuove centrali borghesi e revisioniste sorte al loro interno, questa interpretazione ignora i grandi movimenti, lotte e dibattiti di massa svoltisi dopo il '69 e fino al '76, anno della morte di Mao, soprattutto la grande campagna di critica contro Lin Biao e Confucio e la lotta contro il revisionismo di destra di Deng Xiaoping.
 
Teorizzazioni innocue per il capitalismo
Bisogna chiedersi perché “il manifesto”, con grande ritardo rispetto al 50° Anniversario della GRCP caduto il 16 maggio scorso, gli abbia dato tanto risalto. Evidentemente anche il foglio ex “maoista” di casa nostra si trova d'accordo con intellettuali riformisti come Wang Hui che, dopo essersi messi a posto la coscienza rompendo il regime di silenzio e di negazione integrale che vige sulla GRCP, escludono comunque il pensiero di Mao e la stessa esperienza della Rivoluzione culturale come validi e utili per il mondo di oggi. Con toni malinconici e pessimistici, riprendono la trita e ritrita tesi borghesi e trotzkista sulle rivoluzioni destinate alla sconfitta e così depotenziano le masse desiderose del cambiamento sociale, a partire dai loro elementi più avanzati e coscienti, e le deviano su strade fumose che poi non sono chiare nemmeno a chi le teorizza.
Wang Hui è in buona compagnia con altri filosofi pseudo-maoisti di fama mondiale, capeggiati dal francese Alain Badiou e dallo slovacco Slavoj Zizek, i quali si rammaricano che la Rivoluzione culturale non annientò il “partito-stato” cinese e la considerano pertanto il segno indelebile della fine dei partiti marxisti-leninisti e delle rivoluzioni proletarie. Alle masse offrono un “nuovo progetto comunista” che è in realtà uno strano impasto di anarchismo, idealismo hegheliano e piscanalisi freudiana-lacaniana, dove la grande assente è la lotta di classe.
In ultima analisi, queste teorizzazioni lasciano al sicuro il dominio della borghesia perché fanno passare come superata, archiviata e sconfitta quella che invece si è dimostrata l'unica alternativa concreta e vittoriosa al sistema di oppressione del capitalismo. E, nel caso della GRCP, la via giusta per impedire la restaurazione del capitalismo.

11 gennaio 2017