Discorso al Congresso Usa
Il dittatore fascista Trump vuole una “grande America” armata per dominare il mondo
“Stiamo elaborando un piano per demolire e distruggere l'Isis”
“Dobbiamo ricominciare a vincere le guerre”

 
Il primo discorso al Congresso americano di Donald Trump, il 28 febbraio, è stata l'occasione per formalizzare in modo ufficiale le misure fasciste, razziste e liberiste realizzate nel suo primo mese di governo, in linea con quanto annunciato in campagna elettorale e nelle occasioni pubbliche dopo il suo insediamento lo scorso 20 gennaio. Diversi commentatori hanno sottolineato che per la prima volta il “demagogo populista”, leggi fascista, ha tenuto un intervento certamente di destra ma mantenendo un decoro presidenziale; quasi un annuncio di “normalizzazione” e quindi di una versione in parte accettabile del fascista, razzista, misogino e mliardario Trump. In fin dei conti era evidente che l'intervento di fronte ai parlamentari non poteva avere i toni dei comizi precedenti ma pur cambiando un poco la forma resta invariata la sostanza del suo programma fascista, dal rafforzamento di polizia e esercito alle misure contro gli immigrati, al sostegno a sanità e istruzione private, che vuole risollevare le sorti dell'imperialismo americano in declino e costruire una “grande America” armata per dominare il mondo.
Trump, esauriti i saluti di rito, iniziava il suo intervento condannando le “minacce recenti rivolte a centri della comunità ebraica e gli atti di vandalismo dei cimiteri ebraici, come la scorsa settimana a Kansas City”; più di un osservatore ha notato che forse lo ha fatto anche per rispondere alle accuse di essere stato zitto fino a una settimana prima sugli atti antisemiti delle formazioni di destra; che per la maggior parte sono tra i suoi sostenitori. In ogni caso Trump si metteva una nuova medaglia al petto ricordando che “mentre possiamo essere una nazione divisa sulle politiche, siamo un paese che si trova unita nel condannare l'odio e il male in tutte le sue forme (sic!)”. E senza indugi passava a uno dei temi cari della politica della sua amministrazone, quella che punta a rifare una “grande l'America”.
“Ogni generazione americana passa la fiaccola della verità, libertà e giustizia in una catena ininterrotta tutta la strada fino ad oggi. Questa torcia è ora nelle nostre mani. E lo useremo per illuminare il mondo. (…) Un nuovo capitolo della grandezza americana sta cominciando”, annunciava sostenendo che “i nostri alleati sapranno che l'America è ancora una volta pronta a guidare il mondo, tutte le nazioni del mondo, amici o nemici capiranno che l'America è forte, l'America è orgogliosa”. E prometteva che “non permetterò gli errori degli ultimi decenni per definire il corso del nostro futuro”.
Certo oggi gli Usa non sono più quella superpotenza egemone e incontrastata al mondo di una trentina di anni fa e devono fronteggiare altre superpotenze, a cominciare da Cina e Russia; un confronto necessario per ridefinire le rispettive aree di influenza. Trump ne prendeva atto e rilanciava per “far tornare grande l'America”. D'altra parte “il mio lavoro non è quello di rappresentare il mondo. Il mio lavoro è quello di rappresentare gli Stati Uniti d'America”, affermava.
L'imperialismo americano perde forza mentre il rivale socialimperialismo cinese sale economicamente e si riarma fino ai denti, quello russo ha ripreso nuova vita con Putin. Gli Usa di Obama avevano aperto lo scontro con entrambe le rivali; in Ucraina avevano sobillato e aiutato la rivolta contro il regime filosovietico sostituendolo con un governo reazionario a Kiev mentre nella regione Asia-Pacifico avevano stretto l'asse militare con Giappone in funzione esplicitamente anticinese. Gli Usa di Trump hanno capito che non sono in grado di tenere aperti due fronti così impegnativi, in questo modo l'imperialismo americano sarebbe stato certamente perdente, e provano a mettere in fila le due concorrenti adoperando il bastone e la carota verso la prima concorrente globale Cina e la carota e il bastone verso la meno forte Russia.
Le basi per il ritorno di una “grande America” cominciano a essere realizzate, affermava davanti al Congresso il dittatore fascista Trump che elencava quanto fatto dalla sua amministrazione in poco più di un mese per sigillare le frontiere, rastrellare e cacciare gli immigrati entrati negli Usa, dare il via al piano di costruzione di infrastrutture compreso l'oleodotto nella riserva dei Dakota e quanto messo in programma per far saltare la già fallimentare riforma sanitaria di Obama, il cosiddetto Obabacare, e favorire assicurazioni e strutture ospedaliere private. Tagli alla sanità pubblica e alla scuola pubblica, anche questi per favorie le scuole private e risparmiare sul bilancio pubblico. Fra i “risparmi” Trump si autoelogiava per aver concordato un prezzo più basso del “fantastico nuovo jet da combattimento F-35”, uno degli elementi del riarmo americano.
Prima ancora di addentrarsi nelle questioni miliari e della politica estera Trump evidenziava il suo impegno contro lo Stato islamico e il sostegno a Israele. “Come promesso, ho dato disposizioni al Dipartimento della Difesa per sviluppare un piano per demolire e distruggere l'ISIS. (…) Lavoreremo con i nostri alleati, tra cui i nostri amici e alleati nel mondo musulmano, per eliminare questo nemico vile dal nostro pianeta”, affermava riprendendo uno dei temi fissi dei suoi ultimi interventi.
Altro tema fisso il sostegno ai sionisti nel ribadire “la nostra alleanza indissolubile con lo Stato di Israele”, confermata pochi giorni prima al premier israeliano Benjamin Netanyahu tra i primi leader mondiali a correre alla Casa Bianca a rendere omaggio al nuovo presidente.
Trump affermava che il declino economico dell'imperialismo americano, accentuato in seguito alla crisi scoppiata proprio negli Usa nel 2008, sarebbe una conseguenza di accordi commerciali quali il Nafta col Messico o di intese come quelle dell'Organizzazione mondiale del commercio, il Wto, in seguito all'adesione della Cina, piuttosto che la conferma della legge dello sviluppo ineguale del capitalismo. Una versione di comodo che gli serve per giustificare il ritorno al protezionismo della sua amministrazione, perché sosteneva che per recuperare anche i “tragici disastri ereditati in politica estera” occorreva anzitutto “riavviare il motore dell'economia americana”. E annunciava che per avviare la “ricostruzione nazionale” avrebbe chiesto al Congresso “di approvare una legislazione che produrrà un investimento di 1 trilione di dollari di infrastrutture degli Stati Uniti, finanziata con capitali pubblici e privati, creando milioni di nuovi posti di lavoro”.
Molto più semplice sarà per la Casa Bianca mantenere la promessa di rafforzare il lavoro repressivo di “polizia e sceriffi” e “lavorare con, non contro, gli uomini e le donne delle forze dell'ordine”.
“Infine, per mantenere l'America sicura, dobbiamo fornire gli uomini e le donne delle forze armate degli Stati Uniti degli strumenti necessari per prevenire la guerra - se necessario - devono combattere e devono solo vincere”, “dobbiamo ricominciare a vincere le guerre” sosteneva Trump annunciando l'invio al Congresso di una proposta di aumento del budget delle spese militari, “uno dei più grandi aumenti di spesa per la difesa nazionale nella storia americana”; l'aumento sarebbe di almeno 30 miliardi di dollari in più per il 2017, ed altri 54 miliardi per l'anno fiscale 2018, per un totale di spesa pari a 578 miliardi di dollari.
Come già dichiarato in sedi ufficiali da esponenti del suo esecutivo Trump confermava che la sua amministrazione avrebbe sostenuto “fortemente la Nato, un'alleanza forgiata attraverso i legami di due guerre mondiali che ha battuto il fascismo e da una guerra fredda che ha sconfitto il comunismo. Ma i nostri partner - avvertiva - devono soddisfare i loro obblighi finanziari. E ora, sulla base di nostre discussioni molto forti e franche stanno cominciando a fare proprio questo. Ci aspettiamo che i nostri partner, sia nella Nato, in Medio Oriente o nel Pacifico, prendano un ruolo diretto e significativo nelle operazioni strategiche e militari, e paghino la loro giusta quota di costi”.
Trump chiudeva la questione del futuro della Nato ma non diceva ancora una parola su tante situazioni di crisi mondiali che sembrano ancora non comparire nella sua agenda, da quella ucraina a quella siriana e irachena, da quelle “vecchie” ancora aperte come la guerra in Afghanistan a quelle recenti come la Libia. Al momento il nuovo presidente sembra interessato a aprire solo la vertenza con l'Iran
rilanciando le sanzioni alle aziende Usa, occidentali e europee che hanno aperto linee di credito con Tehran prima e dopo gli accordi sul nucleare iraniano siglati da Obama e Rohani; per cancellare così un altro passaggio della “disastrosa” politica estera del suo predecessore e fare un altro favore all'amico Netanyahu nelle cui mani ha consegnato anche la soluzione della questione palestinese, con la cancellazione definitiva dei diritti del popolo palestinese.

8 marzo 2017