In virtù del Jobs act, e coll'accordo dei sindacati capitolazionisti, il governo col Def 2017 introduce il “welfare aziendale”
Le mutue uccidono la sanità pubblica
È questa la linea di Renzi e del governo Gentiloni

“Le imprese sono disponibili a concedere aumenti salariali solo sotto forma di welfare aziendale”. Questa frase la sentiamo ripetere come un disco rotto ogni volta che si tratta di rinnovare il contratto di una qualsiasi categoria di lavoratori. Ma di che cosa si tratta? Sostanzialmente di una nuova forma di servizi sociali e sanitari non più erogati dallo Stato, quindi dal pubblico, ma dal privato e specificatamente dall'azienda in cui si lavora.
Per essere più precisi occorre dire che non si tratta di un'invenzione dell'ultima ora. A dire il vero si tratta di un balzo all'indietro di 50 anni, ai tempi delle mutue, l'assicurazione sanitaria obbligatoria che garantiva solo chi aveva un'occupazione e, in certi casi, i suoi familiari, tutti gli altri ne erano esclusi e dovevano pagare le cure mediche. Una situazione dalle mille sfaccettature, confusionaria ed estremamente differenziata e piena di disuguaglianze durata fino alla fine degli anni '70 del secolo scorso quando l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha garantito universalità e uniformità, almeno nei limiti della forte differenziazione regionale che caratterizza il nostro Paese.
Rimanendo in tempi più recenti i primi tentativi dei vari governi borghesi d'istituire una “sanità integrativa” risalgono ad almeno 15 anni fa. L'avanzata della forma neoliberista del capitalismo ha preso di mira prima il sistema previdenziale pubblico, poi quello sanitario. Con l'intenzione di contenere il deficit attraverso il taglio della spesa pubblica, si è cercato di tamponare l'inevitabile peggioramento dei servizi attraverso l'istituzione del “secondo pilastro”, ovvero del sistema privato da affiancare al sistema pubblico.
Il nuovo duce Renzi ha dato nuova linfa al welfare aziendale che a differenza della previdenza privata era rimasto sostanzialmente al palo. Uno dei decreti attuativi del Jobs Act ha detassato una parte del salario (i premi) erogato dall'azienda mentre sono totalmente esentasse le quote utilizzate per finanziare servizi sanitari e altri bonus. Una legge che rende appetibile all'azienda versare fondi in favore del welfare aziendale e spiega il perché di tanto entusiasmo da parte dei padroni. Anche i lavoratori avranno degli sgravi fiscali per cui questo doppio vantaggio lega e frena il dipendente che si trova ingabbiato in una sorta di condivisione di interessi tra impresa e lavoratori al punto da prefigurare una idea di azienda come ‘bene comune’ ma che in realtà procede contro la comunità, i diritti, la sanità e il welfare pubblico.
Questo è potuto accadere grazie anche al collaborazionismo di Cgil, Cisl e Uil: negli ultimi contratti è inserito dappertutto; emblematico l'ultimo rinnovo dei metalmeccanici dove, con l'avallo della Fiom, la quasi totalità del misero aumento va a finanziare il welfare aziendale. Praticamente il lavoratore non avrà alcun euro in più, ma solo una certa cifra al raggiungimento degli obiettivi aziendali, se questi non saranno raggiunti oppure il dipendente non spenderà questi bonus, i soldi andranno a finanziare i Consigli di amministrazione che gestiscono queste mutue di cui fanno parte anche i sindacati confederali, un'ottima ragione per avere il sostegno di Cgil, Cisl e Uil.
Gentiloni adesso continua il lavoro di Renzi. La manovra finanziaria per il 2017 prevede l’estensione del campo di applicazione delle agevolazioni per l’erogazione dei premi di produttività e potenzia il ruolo del welfare aziendale. Punta a consolidare il percorso intrapreso ampliando il raggio dei beneficiari e gli importi dei premi: il tetto massimo di reddito di lavoro dipendente che consente l’accesso alla tassazione agevolata viene innalzato da 50.000 a 80.000 euro; gli importi dei premi erogabili aumentano da 2.000 a 3.000 euro nella generalità dei casi, e da 2.500 a 4.000 per le aziende che coinvolgono i lavoratori nell’organizzazione del lavoro.
Questa nuova legislazione da una parte demolisce il contratto nazionale, comprime i salari e taglia il costo del lavoro, allo stesso tempo pone le condizioni per sgretolare definitivamente la sanità pubblica.
Più che le mutue anni '70 nate anche per dare una copertura finanziaria ai lavoratori che si ammalavano, si copia più che altro il sistema delle assicurazioni private caratteristiche degli Stati Uniti. Con la differenza che storicamente il welfare aziendale, nelle forme assunte negli Usa, è stato in grado di garantire ai loro dipendenti rilevanti benefici sotto forma di piani sanitari. In questi piani, a beneficio definito, il rischio in caso di evoluzione negativa per mancata costituzione delle riserve oppure per cattivo andamento dei mercati finanziari era interamente a carico delle imprese, così come a loro carico era il rischio connesso all’allungamento della vita media dei lavoratori in pensione o all’aumento delle spese mediche.
Qui in Italia invece il rischio è completamente a carico dello Stato utilizzando la leva fiscale. In Italia, a differenza dall’America, il Jobs act si basa interamente su un sistema fiscale totalmente a favore dell’impresa e interamente a carico dello Stato nella speranza che la prima, accrescendo il suo profitto, accresca la produzione di ricchezza. Non a caso nel Jobs Act queste tematiche le troviamo nel paragrafo “produttività”. Lo scopo del welfare aziendale è incentivare le plusvalenze dell’impresa. Quindi in sintesi il welfare privato non è altro che la concessione di un sistema di agevolazioni sotto forma di deduzioni o di detrazioni d’imposta subordinate alla demonetizzazione di parte del salario e alla contestuale stipulazione di mutue aziendali.
Non ci vuole molto a capire che mentre salgono le risorse destinate al welfare privato scendono e scenderanno quelle destinate alla sanità pubblica che già da alcuni anni sta mostrando tutti i suoi limiti. I continui tagli finanziari e di personale, unito a un sistema corruttivo radicato in ogni zona d'Italia, hanno ridotto un servizio che solo poco tempo fa era ritenuto dai governanti tra i più efficienti ed inclusivi, in un girone dantesco fatto di lunghissime liste d'attesa, ticket, ospedali in stato di abbandono, malati parcheggiati nelle corsie, costringendo molti cittadini a rivolgersi alle strutture private per molte esigenze sanitarie.
L'ottica è proprio quella di riservare l'intervento dello Stato alle situazioni più marginali, assicurando una sanità “povera” a chi non si può permettere la mutua aziendale perché è disoccupato o un precario. Un modello che porta inevitabilmente con sé forti diseguaglianze tra un settore e l'altro, tra chi ha un lavoro e chi non ce l'ha, cancellando la caratteristica principale introdotta dal Servizio sanitari nazionale, ossia il diritto universalistico alla salute e alle cure mediche indipendentemente dalla propria collocazione sociale, finanziato dalla contribuzione generale basata sulla tassazione progressiva.
 

10 maggio 2017