A due anni dalla firma
Il fallimento dell'Accordo di Parigi sul riscaldamento globale
Non solo il ritiro degli Usa di Trump. Le grinfie di grande industria e finanza sulla riconversione. Macron si propone quale leader verde mentre la Francia saccheggia e devasta la Guiana alla ricerca dell'oro

A due anni dalla firma sul protocollo della COP21, considerato storico dai firmatari dell’accordo sul clima, la Francia del liberale Macron, assieme alla Banca Mondiale e all’ONU, ha promosso la giornata del “One Planet Summit”, alla presenza di una cinquantina di capi di Stato, associazioni e organizzazioni private, per parlare nuovamente di clima e dell’efficacia del protocollo parigino. Tra i leader mondiali, assenti insieme a Trump anche Putin, Merkel e Xi Jinping; in sostanza i rappresentanti dei paesi principalmente responsabili delle problematiche ambientali globali. Ancora una volta, come a Bonn alla scorsa conferenza dell’ONU sul clima, i potenti del mondo non hanno perso occasione per ribadire che sarebbe il solo Trump ad essere uscito dall’accordo e non gli USA, sostenendo dunque che l’accordo è ancora integro e condiviso. Nonostante la grande teatralità con la quale alcuni politici americani (come il segretario di Stato Kerry ed il governatore della California Schwarzenegger), magnate ed attori famosi, facciano di tutto per affermare il ruolo attivo americano, nel tentativo di rientrare dalla finestra nella comunità ambientalista istituzionale mondiale, il disimpegno degli Stati Uniti, primo grande inquinatore mondiale in progressione storica, è l’elemento che ha svelato di quanto l’accordo di Parigi fosse un “gigante” coi piedi d’argilla.

La ricerca di finanziamenti
Il tema centrale del summit sponsorizzato da Macron – e ne è stata testimonianza la presenza massiccia del mondo dell’economia e della finanza – era stato individuato nel recupero di finanziamenti necessari a dare gambe all’accordo. Anche in questo l’uscita di scena degli USA non è stata indolore; anche se fa capire quanto davvero si voglia risolvere la questione del riscaldamento globale, la notizia rilanciata che anche l’impegno preso a Copenhagen nel 2009 di finanziare con 100 miliardi di dollari i programmi di attenuazione e adattamento al riscaldamento nei paesi in via di sviluppo, sia tutt’ora ben lontano dall’essere stato realizzato. Macron ha lanciato un allarme, in prima analisi coerente con chi sta dalla parte della natura, sostenendo che al momento nessun obiettivo è stato centrato: ”Stiamo perdendo la battaglia sul clima (…) Non andiamo abbastanza in fretta, se continuiamo così arriveremo ad un aumento di 3/3,5°”. Un livello dunque ben lontano dai 2° (già insufficienti rispetto al + 1,5°, soglia stabilita dalla comunità scientifica di settore) di riscaldamento massimo previsto dall’Accordo di Parigi. Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha dichiarato che la causa dell’attuale fallimento sarebbe l’assenza di “fiducia”, con molti stati che nei fatti si defilano anche senza uscire formalmente così come annunciato dagli USA. In questo quadro, ecco che emerge, preponderante, il vero motivo della convocazione del Summit poiché un coro unanime, chiama i privati ad agire.

Una riconversione finalizzata a generare profitti e favorire la grande finanza
Ciò che sostanzialmente ha prodotto la giornata francese, sono state una decina di linee guida – alcune nuove ed alcune rilanciate – che hanno tutto l’odore di essere il cavallo di troia per le grinfie della finanza; finanza che fin dalla promozione dell’accordo, si è rivelata ben attenta a recitare un ruolo di spiccato primo piano sulle nuove politiche ambientali mondiali. La Banca Mondiale ha annunciato che dal 2019 metterà fine ai finanziamenti per il petrolio e il gas; un fatto positivo, anche se essa è la prima banca – ed al momento l’unica - multilaterale che ha annunciato una scelta del genere. La questione sarà poi quella di capire se continueranno i finanziamenti indiretti, ad esempio quelli al settore automobilistico che, pur annunciando la conversione “verde”, fanno della combustione benzina e diesel il principale ed in qualche caso esclusivo asset di produzione e di mercato. Parliamo in questo caso di industria automobilistica. È un fatto che la stessa COP 21 fu sponsorizzata da due delle più grandi industrie automobilistiche francesi, oltre che dalle solite banche d’affari. Le assicurazioni Axa, per esempio, hanno promesso di disimpegnarsi dalle energie fossili, Edf (l’Enel francese) ha previsto un mega-investimento di 25 miliardi di euro su 5 anni per recuperare il terreno perduto nell’energia solare. E non sono mancati altri proclami. Ad esempio, una coalizione di fondi sovrani, guidata dalla Norvegia con Qatar, Kuwait, Emirati, Arabia saudita e Nuova Zelanda, si è impegnato a destinare parte dei propri fondi alla cosiddetta “economia verde”. Paiono interessate anche la Cina e Singapore, così come multinazionali dalla finanza e dell’informatica del calibro di Bloomberg ed Apple, che hanno promesso di aumentare la parte del loro portafoglio finanziario nelle attività compatibili con la preservazione del clima. Anche alcuni fondi internazionali d’investimento hanno dichiarato l’impegno nella trasparenza sull’impatto degli strumenti finanziari sul clima. Lasciando intendere che il fallimento di Parigi sia riconducibile alla scarsità di finanziamenti sopraggiunti, e non dal disinteresse dei governi capitalisti nella difesa della natura e dell’ambiente e contemporaneamente delle popolazioni mondiali povere e più colpite dalle conseguenze climatiche del riscaldamento globale. Ora, dando ai fatti un taglio del genere, ecco una nuova occasione di profitto per costoro. Plaude infatti a tali frenetici movimenti il ministro francese Bruno Le Maire, che si compiace affermando che “il rischio climatico è ormai preso sul serio dal mondo finanziario, è una buona notizia, era tempo”.

I fatti smentiscono le promesse
Nonostante, come ampiamente detto, da tempo le banche annuncino ad ogni occasione la “riconversione verde” e finanziamenti mirati per la transizione energetica, gli investimenti nelle centrali a carbone, secondo l’ONG “Amis de la Terre”, sono aumentati del 135% tra il 2015 e il 2016, per un totale di oltre 300 miliardi di dollari ancora destinati alle energie fossili. La contraddizione principale fra le promesse e la realtà è però che certi finanziamenti, continuino tutt’ora a distanza di due anni dalla COP 21. Al summit si è anche discusso della cosiddetta “Alleanza solare internazionale”, nata nel 2015 su impulso di Francia e India per facilitare lo sviluppo dell’energia solare in 121 paesi tropicali; ad oggi sui 46 paesi firmatari, solo 19 hanno ratificato l’impegno – il che non vuol dire che lo rispetteranno – ma è stato ancora auspicato l’intervento dei fondi, facendo rimanere anche questo protocollo del tutto legato alla possibilità di profitto della finanza privata, l’unica che dovrebbe metterci i soldi. In ultimo, Macron ha cavalcato ancora una volta la cosiddetta “tassa sulle transazioni finanziarie”, che dovrebbe essere destinata al finanziamento della “transizione climatica” seppur, senza stupirci più di tanto, questo “apprezzabile” passo non sia citato nella lista finale degli “impegni”. Per concludere, nessun riferimento o accelerazione alla fondamentale questione dei trasporti – in particolare per l’inquinamento urbano e le ricadute sulla salute degli abitanti delle città, prima ancora del riscaldamento globale – e quindi rimane sullo sfondo l’impegno Ue di diminuire le emissioni di Co2 dei veicoli del 30% entro il 2030. Ad oggi un miraggio.

I colonizzatori si tingono di verde
Dunque è la Francia di Macron che si ritiene la custode mondiale dell’accordo sul clima della ventunesima conferenza dell’ONU, quella COP21 ad oggi disattesa. Ma quale attendibilità ha il neo presidente, e quale il suo Paese, da secoli uno dei maggiori paesi imperialisti globali? La Francia, fra l’altro, è proprietaria, dai tempi della violenta colonizzazione europea dell’Amazzonia, e quindi senza titolo né legale acquisto, del sottosuolo di quasi 84.000 km quadrati di foresta equatoriale nella Guiana, che ha ribattezzato in larga parte “Montagna d’Oro”. Sull’area grande 150 km quadrati, situata nel bacino di Mana, a nord del villaggio di Awala-Yalimapo, la Francia ha affidato a due multinazionali il compito di prospezione e sfruttamento dei giacimenti d’oro qui sepolti, e l’ha fatto nella più bieca vocazione imperialista, e cioè andando a scegliere due delle multinazionali più compromesse a livello mondiale: la Nord-Gold, società mineraria russa nota per aver calpestato i diritti delle popolazioni in Burkina-Faso, proprio dove il Presidente francese si è recentemente recato per riconoscere ipocritamente “i crimini incontestabili della colonizzazione”, mentre la seconda, la canadese Colombus-Gold, il cui nome pare un programma esplicito del suo progetto di colonizzazione dell’America.
Per estrarre l’oro, la Francia scaverà per oltre due chilometri in lunghezza, 500 metri di larghezza e 400 metri di profondità la miniera industriale a cielo aperto che genererà milioni di tonnellate di fanghi di cianuro che saranno stoccati in due aree di un centinaio di metri ciascuna, ad alto accumulo. Il tutto senza considerare la distruzione immediata di oltre 7 ettari di foresta. Nel 1997 un decreto della prefettura di Aude, raccomanda tutt’ora agli abitanti dei dintorni di Salsigne, che ha ospitato fino al 2004 la più grande miniera d’ oro francese, di non utilizzare né l’acqua piovana né quella dei corsi d’acqua, di non utilizzare la frutta e le verdure ritenute mortali lì prodotte e di non fare il bagno nei fiumi; secondo gli esperti del Bureau de Recherches Géologiques et Minières, il decreto dovrà probabilmente essere rinnovato per altri “diecimila anni”, viste le tragiche condizioni del terreno denso di inquinanti derivanti dall’estrazione dell’oro. È questo il rischio al quale la Francia sottopone oggi la Guiana, terra di acque per eccellenza poiché è probabilmente già destinata a diventare, sotto l’egida del tricolore d’oltralpe, una di quelle “zone di sacrificio” che l’imperialismo sta disseminando sul pianeta. A Salsigne furono “importati” lavoratori algerini provenienti dall’allora colonia per eccellenza dei francesi, che andarono incontro a malattie e morte ma nel bacino di Mana, la Francia potrà sacrificare liberamente intere popolazioni autoctone, insieme alla natura; le stesse che si trovano in condizioni di arretratezza e povertà ed alle quali saranno promessi posti di lavoro mortali direttamente dal web.
La Francia di Macron assicura che sorgerà una miniera “responsabile” e le plaudono le istituzioni compiacenti; un qualsiasi ingegnere minerario però può capire dove sta l’inganno, poiché non esiste una miniera industriale ecologicamente e socialmente virtuosa, così come non esiste un imperialismo progressista o un capitalismo buono. Siamo di fronte dunque alla solita propaganda truffaldina e demagogica. L’accordo di Parigi, già insufficiente alla sua nascita poiché scadente negli obiettivi e non vincolante, sta facendo la fine dei suoi predecessori e, perdurando il capitalismo, lo stesso esito avranno le COP che seguiranno l’ultima di Bonn, che ha registrato anch’essa l’ennesimo nulla di fatto.

10 gennaio 2018