No a Gerusalemme capitale di Israele
L'ONU condanna la decisione di Trump su Gerusalemme
Gli Usa minacciano ritorsioni verso i paesi che hanno votato contro
I palestinesi in piazza contro Trump

La stragrande maggioranza dei paesi dell'Assemblea generale dell'Onu ha condannato il 21 dicembre la decisione del presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e spostarvi in futuro l'ambasciata Usa. La mozione ha avuto 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astenuti; un risultato politicamente importante, anche se le decisioni dell'Assemblea generale non sono vincolanti, tanto più dopo che l'imperialismo americano aveva esplicitamente minacciato di rappresaglia i Paesi che si sarebbero espressi contro la decisone di Washington.
I 7 paesi che si sono schierati a fianco dell'imperialismo americano e dei sionisti di Tel Aviv sono stati Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, e Togo. Tra i 35 astenuti, Australia, Canada, Argentina, Polonia, Romania, Filippine, Colombia e diversi paesi africani: Camerun, Ruanda, Malawi, Lesotho, Sud Sudan, Uganda e Begin. Con questi e il Togo il regime imperialista sionista di Tel Aviv da anni tesse una tela di rapporti e di accordi commerciali e infrastrutturali. Con Ruanda e Uganda ha accordi per la deportazione di rifugiati africani presente in territorio israeliano, compresi i richiedente asilo.
La convocazione dell'Assemblea generale era stata richiesta dai rappresentanti di Turchia e Yemen, dopo il veto del 19 dicembre degli Stati Uniti a una bozza di risoluzione simile portata dall'Egitto al Consiglio di Sicurezza. L'ambasciatore dello Yemen presentando il testo della risoluzione definiva l'azione di Trump “una palese violazione dei diritti del popolo palestinese e delle nazioni arabe, e di tutti i musulmani e cristiani nel mondo”. La mozione esprimeva “profondo dispiacere per le recenti decisioni relative allo status di Gerusalemme” e ribadiva che “ogni decisione o azione che mira ad alterare il carattere, lo stato o la composizione demografica della Città Santa di Gerusalemme non ha effetti legali e deve essere resa nulla in conformità con le risoluzioni pertinenti del Consiglio di Sicurezza”; invitava perciò gli Stati Uniti “a non stabilire missioni diplomatiche nella Città Santa di Gerusalemme”.
L'ambasciatrice americana all'Onu, Nikki Haley, aveva definito la risoluzione “un insulto che non sarà dimenticato”, la prima di una serie di minacce degli Usa contro i paesi che avevano condannato la scelta dell'amministrazione Trump. Che il 24 dicembre veniva seguita dal Guatemala, col presidente Jimmy Morales che annunciava il trasferimento della propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
In vista del passaggio della mozione in Assemblea generale, il 20 dicembre scendeva in campo Trump a minacciare “taglieremo i fondi a chi vota contro”.
Dopo la condanna dell'assemblea l'ambasciatrice Haley ribadiva che “l'America sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme, ed è questa la cosa giusta da fare. Nessun voto alle Nazioni Unite farà la differenza. Ma questo è un voto che gli Stati Uniti ricorderanno, ricorderanno il giorno in cui sono stati attaccati per aver esercitato il loro diritto come nazione sovrana. Questo voto farà la differenza su come gli americani guarderanno l'Onu e i Paesi che ci mancheranno di rispetto. Ricorderemo questo voto”. L'amministrazione Trump confermava che per i paesi imperialisti l'Onu torna utile solo quando copre la loro politica arrogante e interventista contro i diritti sovrani di paesi minacciati o aggrediti, altrimenti le sue mozioni finiscono sotto lo zerbino.
La prima rappresaglia degli Usa scattava il 27 dicembre con l'anuncio di Washington del taglio di 285 milioni di dollari al loro contributo al budget operativo delle Nazioni Unite per il biennio 2018-2019. Gli Stati Uniti contribuiscono per il 22% del budget operativo dell'Onu e nel 2016-2017 hanno versato 1,2 miliardi su un totale di 5,4 miliardi di dollari.
Senza neanche aspettare la decisione dell'assemblea Onu, il premier sionista Benjamin Netanyahu aveva definito le Nazioni Unite “la casa delle bugie” e annunciato che “Israele respinge il voto ancor prima del suo esito... la sorte di Gerusalemme non può essere decisa da un negoziato. Gerusalemme è la capitale di Israele, qualunque sia il risultato del voto” all'Onu. E il 31 dicembre faceva approvare per acclamazione al Comitato centrale del Likud, il suo partito, un documento per l'annessione diretta a Israele delle terre occupate dai coloni in Cisgiordania.
Contro la decisione Usa a favore del regime di Yel Aviv continuavano nei territori occupati le proteste palestinesi, da Gerusalemme a tutta la Cisgiordania, alla Striscia di Gaza; il 23 dicembre e nei giorni seguenti scendevano in piazza migliaia di manifestanti che si scontravano con l'esercito sionista.
Altrettanto importante era la contemporanea protesta di 63 giovani israeliani che il 28 dicembre annunciavano il loro rifiuto del servizio militare obbligatorio. In una lettera inviata a vari ministri denunciavano che “l’esercito implementa la politica razzista del governo che viola i diritti umani fondamentali e applica nello stesso territorio una legge per gli israeliani e un’altra per i palestinesi”. “Pertanto – scrivevano i firmatari – abbiamo deciso che non prenderemo parte all’occupazione e alla repressione del popolo palestinese che separa gli esseri umani in due campi ostili. Da 50 anni la situazione ‘temporanea’ va avanti e non ne saremo complici”. E chiudevano la lettera ribadendo: “noi giovani in età di arruolamento provenienti da zone diverse del Paese e da background sociali differenti rifiutiamo di credere al sistema d’incitamento e di partecipare al braccio della repressione e dell’occupazione del governo”.

10 gennaio 2018