Motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta
“Sulla strage di Borsellino uno dei più gravi depistaggi di Stato”
Chiesto il processo per tre poliziotti per l'indottrinamento di un falso pentito. Svelata la convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere dello Stato
La figlia di Borsellino: “Il CSM faccia luce sulle responsabilità dei magistrati”

Sulla strage del 16 luglio 1992 in via D'Amelio a Palermo, in cui rimasero uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, è stato compiuto "uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana", e a concepirlo e metterlo in atto furono apparati e funzionari dello Stato "nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l'opera del magistrato". Lo ha stabilito in maniera incontrovertibile il 1° luglio la Corte d'assise di Caltanissetta, depositando la sentenza del processo Borsellino quater, che il 20 aprile 2017 aveva condannato all'ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia i falsi collaboratori di giustizia Francesco Andriotta e Calogero Pulci.
Il primo processo fu costruito sulla base delle false dichiarazioni del sedicente pentito Vincenzo Scarantino, e portò alla condanna all'ergastolo di Salvatore Profeta, a nove anni di Giuseppe Orofino e a 18 anni dello stesso Scarantino, ma sono dovuti passare 25 anni dalla strage e altri tre processi per arrivare a stabilire la verità, e cioè che quella di Scarantino fu un'operazione suggerita e pilotata dall'alto per depistare le indagini, affinché non emergessero i legami occulti tra apparati dello Stato e Cosa nostra, e che quella strage fu compiuta per coprire la trattativa Stato-mafia allora in pieno svolgimento e sulla quale il giudice Borsellino aveva cominciato ad aprire gli occhi.
Secondo quanto scrive infatti la Corte d'assise di Caltanissetta nelle 1.867 pagine della sentenza, Scarantino fu indotto a mentire con "particolare pervicacia e continuità con l'elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno i giudici dei primi due processi", finendo così per produrre "uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana". Pertanto è lecito "interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di questo disegno criminoso", aggiungono significativamente i giudici.

Gli interrogativi sollevati dai giudici
Essi hanno anche trasmesso alla procura i verbali di tutte le udienze che "possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità" nel nuovo processo che vedrà sul banco degli imputati il funzionario di polizia Mario Bo e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Poliziotti all'epoca in forza al gruppo investigativo Falcone-Borsellino guidato dal capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), che la procura del capoluogo nisseno ha rinviato a giudizio con l'accusa di aver partecipato, con ruoli diversi, all'"indottrinamento" di Scarantino volto a depistare le indagini e costringendolo a confermare le sue false accuse anche nei processi, accuse che portarono alla condanna all'ergastolo di sette innocenti, finché il vero pentito Gaspare Spatuzza permise di svelare l'inganno.
I giudici pongono in evidenza alcuni interrogativi cruciali, come quello suggerito dal fatto che alcuni dei particolari riferiti da Scarantino erano veri, come il fatto che l'autobomba fosse una 126, la rottura del bloccasterzo e le targhe false applicate nella carrozzeria di Orofino: "E' del tutto logico ritenere - scrivono i magistrati - che tali circostanze siano state suggerite a Scarantino da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte. Un altro interrogativo importante riguarda la sparizione della famosa agenda rossa di Borsellino, sottratta da ignoti dall'auto del magistrato subito dopo la strage, e un terzo interrogativo riguarda "l'eventuale finalità di occultamento delle responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l'opera del magistrato".
A questo proposito citano le dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè, che parlò di "sondaggi" compiuti da Cosa nostra prima della stagione delle stragi con "persone importanti del mondo politico ed economico". E citano pure le confidenze di Borsellino alla moglie Agnese, secondo le quali "non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo... ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere", nonché la sua "drammatica percezione" dell'esistenza di un "colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato".

Le responsabilità dei magistrati coinvolti
La sentenza evidenzia anche "un collegamento tra il depistaggio e l'occultamento dell'agenda rossa", poiché emerge almeno "un protagonista di entrambe le vicende", identificato con Arnaldo La Barbera, che tra l'86 e l'88 era affiliato al Sisde con il nome di Rutilius, e che per i giudici è stato il regista della "costruzione delle false elaborazioni" di Scarantino e "intensamente coinvolto" anche nella sparizione dell'agenda rossa.
Ma non ci furono solo poliziotti coinvolti nel depistaggio. I giudici sospettano infatti che anche dei magistrati possano avervi contribuito direttamente o indirettamente, quantomeno nel non aver tenuto un "atteggiamento di particolare cautela e rigore" nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, specialmente di fronte alle sue "numerose oscillazioni e ritrattazioni". Tra questi magistrati, anche se non nominati espressamente, ci sono la pm al Borsellino uno, Anna Palma, oggi avvocato generale di Palermo; Carmelo Petralia, oggi procuratore aggiunto a Catania; Ilda Boccassini, applicata a Caltanissetta nell'ottobre '92, poco dopo l'arresto di Scarantino, al quale dice di non aver mai creduto fino in fondo, ma che ciononostante autorizzò lo stesso dieci colloqui investigativi del falso pentito da parte di La Barbera; Giuseppe Ayala, che nel '92 era parlamentare e fu tra i primi in via D'Amelio a prendere in mano la borsa del giudice assassinato dalla quale poco dopo sparì l'agenda, e che ha reso nel tempo diverse versioni contrastanti dei momenti immediatamente successivi alla strage; e Francesco Caruso e Gianluigi Zulian, presidente e giudice a latere del Borsellino bis, che nella sentenza accreditarono con particolare decisione la "narrazione di Scarantino", definendola "precisa, analitica, motivata in relazione a ciascun passaggio", nonostante le evidenti contraddizioni del falso pentito.
Ma è soprattutto sull'allora procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra, morto nel 2017, che si addensano le ombre sollevate dalle motivazioni della Corte d'assise. I giudici ricordano infatti che il 20 luglio '92 il procuratore chiese in maniera del tutto irrituale collaborazione al dirigente del Sisde Bruno Contrada, che fu poi arrestato per ordine della procura di Palermo per complicità con Cosa nostra. Ricordano anche la nota trasmessa il 10 ottobre dal centro Sisde di Palermo alla squadra mobile di Caltanissetta "redatta su richiesta dello stesso Tinebra, benché non fosse possibile per legge instaurare un rapporto diretto tra i servizi e la procura".

Mattarella e il Csm facciano luce
L'ex pm di Palermo, Antonio Ingroia, allievo di Borsellino (al quale Salvini ha tolto di recente la scorta), ha rivelato in proposito che poco prima di morire Borsellino gli disse che fu invitato dall'allora capo della polizia Parisi a recarsi al ministero dell'Interno diretto da Mancino, dove gli volevano far incontrare Contrada, per mandargli il messaggio che dietro di lui c'erano tutti i vertici politici e della polizia. Dopo la strage Ingroia ne informò subito Tinebra, ma rimase stupito che il procuratore di Caltanissetta non lo mettesse mai a verbale, né quel giorno né nelle settimane successive. Solo anni dopo l'ex pm fu chiamato a formalizzare questa rivelazione di Borsellino dai pm Ilda Boccassini e Fausto Cardella: "Cosa potrebbe aver indotto tale depistaggio - si chiede Ingroia commentando la sentenza della corte nissena - se non una responsabilità diretta nella strage di via D'Amelio?. Borsellino sapeva della trattativa tra pezzi dello Stato e uomini di Cosa nostra, per questo doveva essere eliminato".
Alla luce delle motivazioni della Corte d'assise la figlia di Borsellino, Fiammetta, si è augurata che adesso non ci si fermi a indagare solo sui tre poliziotti, e ha rivolto un appello al presidente della Repubblica Mattarella, che presiede anche il Consiglio superiore della magistratura, affinché il Csm faccia luce anche "sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini e nei processi sulla morte di mio padre". Finora "a noi e alla mia famiglia il Consiglio ha sempre risposto picche", salvo dopo una sua intervista alla Rai risponderle che bisognava attendere il deposito delle motivazioni della sentenza: "Ora la sentenza c'è", ha detto la figlia del giudice, ed è una sentenza "che accerta il depistaggio, questa è la novità".
"Paolo è stato ucciso perché era un pericolo per i centri di potere, oltre che per Cosa nostra", ha commentato a sua volta Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato e fondatore del movimento Agende rosse, intervenendo a Radio Cusano Campus. "C'era qualcuno al corrente di quanto sarebbe successo, che attendeva di potersi avvicinare alla macchina di Paolo e prendere la borsa dove era contenuta l'agenda", ha aggiunto puntando il dito contro i servizi dello Stato.
E a proposito delle responsabilità dei magistrati che hanno gestito le indagini e i processi su Capaci e via D'Amelio, ha detto parole molto gravi: "Paolo stava indagando sulla strage di Capaci, e gli venne impedito di andare a testimoniare, è stato ucciso anche per questo. Con la sentenza sappiamo che quei magistrati che gli impedirono di testimoniare a Caltanissetta erano al corrente del depistaggio, sono colpevoli di averlo avallato. La sua audizione è stata ritardata per dare il tempo di ucciderlo".

11 luglio 2018