Minacce pericolose tra Usa e Iran

 
Nel commentare il primo vertice Usa-Russia tenuto a Helsinki il 16 luglio avevamo sottolineato che nel discorso della guerra al terrorismo Trump ha oramai inserito in pianta stabile gli attacchi, al momento apparentemente solo verbali, alla Repubblica islamica dell'Iran e aveva chiesto a Putin di “fare pressione sull'Iran per fermare le sue ambizioni nucleari e per fermare la sua campagna di violenza in tutta l'area, in tutto il Medio Oriente”, ossia per eliminare un ostacolo alla presenza dell'imperialismo americano nella regione e alle equivalenti mire egemoniche locali dei suoi alleati Arabia saudita e soprattutto degli imperialisti sionisti di Tel Aviv che tra le altre hanno già illegalmente le armi atomiche e seminano violenza e bombe in tutta la regione, dai territori palestinesi occupati a stati sovrani quali Siria e Libano.
Trump dalla capitale finlandese aveva rilanciato la campagna di provocazioni della Casa Bianca verso l'Iran, minacciando di appiccare un nuovo pericolosissimo incendio nella regione e non solo, e una volta tornato a Washington aveva continuato.
Il segretario di Stato Usa, l'ex direttore della CIA Mike Pompeo, il 22 luglio di fronte a una platea di iraniani americani incitava il popolo iraniano a rivoltarsi contro il governo di Teheran, definito un regime “da incubo”, “mafioso”, “corrotto” e “ipocrita”; definizioni che possono essere dedicate a qualsiasi governo borghese e imperialista, Usa in testa. E non appena il presidente iraniano Hassan Rohani rispondeva a Trump “non giochi con la coda del leone, altrimenti se ne pentirà”, partiva il tweet “atomico” del presidente americano “non minacciare mai più gli Stati Uniti o ne pagherai le conseguenze, come pochi hanno dovuto sopportare nella storia. Siamo un Paese che non tollererà più le tue stupide parole di violenza e morte. Fate attenzione”. Il governo iraniano lasciava ai vertici militari la replica agli attacchi bellicisti dell'imperialismo americano e invitava i paesi che hanno rapporti economici con l'Iran, in particolare la Ue, a mantenerli e respingere l'attuazione dell'embrago chiesto da Washington.
Per ora alla Casa Bianca più che alla guerra lavorano per far crollare il governo iraniano o comunque per indebolirlo e costringerlo a ridimensionare i suoi programmi militari, nucleari e convenzionali, assieme alle sue ambizioni regionali. Un indebolimento che tornerebbe utile anche all'aggressione militare dell'imperialismo americano e dei suoi alleati, difficile ma pur sempre possibile fintanto che Trump tiene il dito appoggiato sul grilletto.
L'attacco di Washington a Teheran era stato rilanciato da Trump lo scorso 8 maggio, quando gli Usa annunciarono il loro ritiro dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare iraniano del 14 luglio 2015 tra Teheran e i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina, più la Germania. La Casa Bianca minacciava di applicare sanzioni, “le più dure della storia” all'Iran e alle società di qualsiasi altro paese che avessero continuato a fare affari con Teheran; il Dipartimento di Stato americano specificava il 2 luglio che le sanzioni, parte di una campagna di massima pressione economica e diplomatica su Teheran, sarebbero entrate in vigore in due tranches, il 4 agosto e il 6 novembre e invitava gli alleati a chiudere in particolare le importazioni di petrolio iraniano, che rappresentano una voce importante nel bilancio iraniano.
Il presidente Rohani, parlando il 22 luglio a un incontro con gli ambasciatori iraniani, sottolineava che “l’America dovrebbe sapere che la pace con l’Iran è la madre di ogni pace e che la guerra con l’Iran è la madre di tutte le guerre”.
La rabbiosa e arrogante risposta di Trump non era una reazione a caldo ma, come tutte le altre sceneggiate presidenziali, preparata con cura, confermava il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che dichiarava: “ho parlato con il presidente negli scorsi giorni, e mi aveva detto che se l’Iran farà qualcosa di negativo, pagherà un prezzo come pochi Paesi hanno mai pagato prima”.
Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che il 26 luglio si dichiarava contrario alla rottura dei legami economici con l’Iran e sosteneva che tagliare i legami con alcuni Paesi, solo perché lo richiedono gli Stati Uniti, va contro l’essenza stessa dell’indipendenza degli Stati. E appoggiava la denuncia presentata il giorno precedente dal governo di Teheran contro gli Stati Uniti alla Corte internazionale di giustizia dell'Aia poiché le sanzioni statunitensi sono in contrasto con gli accordi sottoscritti e le risoluzioni Onu che li hanno recepiti.

31 luglio 2018