Ispiriamoci a Engels nella lotta contro il governo nero fascista e razzista Salvini-Di Maio, contro il capitalismo per il socialismo

In occasione del 123° Anniversario della morte di Friedrich Engels, che cade il 5 Agosto, rendiamo omaggio al grande Maestro del proletariato internazionale e cofondatore del socialismo scientifico pubblicando l'opera di Engels "Considerazioni supplementari al 3° volume del 'Capitale'". Nel 2012, in occasione del 117° Anniversario avevamo proposto ai nostri lettori tre importanti opere economiche di Engels, ripromettendoci di completare la pubblicazione con queste Considerazioni scritte nel 1895 e poi pubblicate solo dopo la sua morte. Vi ricordiamo i titoli di quelle altre tre opere economiche proponendovi anche i relativi link, se vorrete rileggerle sul sito www.pmli.it. Si tratta di:
1. L'articolo "Il Capitale" di Marx, scritto all'inizio del 1868 e pubblicato per la prima volta il 21 e il 28 marzo a Lipsia, in cui presenta e illustra magistralmente agli operai tedeschi il contenuto del 1° Libro del "Capitale" che era stato appena pubblicato.
2. Un estratto della Prefazione al 2° Libro del "Capitale" che egli scrisse nell'Anniversario della nascita di Marx il 5 maggio 1885. Il Secondo e il Terzo Libro, come ben si sa, furono pubblicati rispettivamente nel 1885 e nel 1894 dopo la morte dell'autore, solo grazie al complesso lavoro di Engels che riuscì a dare alle stampe quei manoscritti e specie per l'ultimo Libro incontrò "difficoltà del tutto inaspettate". In particolare Engels mette bene in risalto il ruolo ricoperto da Marx in campo economico, e più precisamente come egli "pervenne a descrivere fin nei minimi particolari, e con ciò a spiegare, il processo della formazione del plusvalore nel suo effettivo svolgersi; ciò che nessuno dei suoi predecessori aveva compiuto".
3. L'opera
"Riassunto del 'Capitale'" , la cui stesura iniziò verso la fine del 1867 e terminò alla metà del '68, senza tuttavia essere terminata.
Nell'opera che ora pubblichiamo Engels peraltro polemizza aspramente con Achille Loria, un professore e senatore italiano che esercitava una forte influenza nel partito socialista di Turati con le sue teorie riformiste, revisioniste e idealiste contrapposte al socialismo scientifico di Marx ed Engels. E lo accusa di aver falsificato la teoria del valore di Marx bollandolo come un “esemplare divertente di economista volgare” . Teoria secondo cui il valore deriva dal lavoro, fondamentale per elaborare quella dottrina del plusvalore che gli permise di svelare le modalità dello sfruttamento capitalistico dell'operaio. Lenin così scrive: “L'operaio salariato vende la sua forza-lavoro al proprietario della terra, delle fabbriche, degli strumenti di produzione. L'operaio impiega una parte della giornata di lavoro a coprire le spese del mantenimento suo e della sua famiglia (il salario), e l'altra parte a lavorare gratuitamente, creando per il capitalista il plusvalore , fonte del profitto, fonte della ricchezza della classe dei capitalisti.
La dottrina del plusvalore è la pietra angolare della teoria economica di Marx”.
Engels venerava l'amico e compagno Marx, al punto da sobbarcarsi tutti quei compiti più gravosi e odiosi pur di metterlo in condizioni di completare “Il Capitale”, l'opera economica per la cui stesura Marx sacrificò l'intera sua esistenza e che sarebbe risultata fondamentale per la critica radicale e inappellabile del sistema economico capitalistico e per le sorti del socialismo scientifico. Engels era animato da una sconfinata modestia, non del tutto giustificata perché il suo ruolo non si limitava a quello della comparsa e del semplice esecutore. Senza il suo preziosissimo contributo, il suo acume e le sue straordinarie competenze il Secondo e il Terzo Libro non avrebbero mai visto la luce ma sarebbero rimasti sepolti sotto forma di manoscritti ancora da riordinare, integrare, aggiornare e in qualche passaggio correggere. Si pensi alle sue notazioni sul ruolo sempre più preponderante della Borsa che sembrano avvertire quelle prime avvisaglie del processo di fusione tra capitale industriale e capitale bancario in capitale finanziario che poi costituirà l'essenza dell'avvento dell'imperialismo, fase suprema del capitalismo.
Engels ha la rara qualità di rendere chiara, semplice e intellegibile la materia economica che un esercito di economisti borghesi hanno reso ancor più complessa e di difficile comprensione con ogni sorta di fumosità e teorie ingannatrici, pur di nascondere le verità del conflitto di classe tra capitale e lavoro salariato.
Non c'è miglior modo di rendere onore a Engels che ispirarsi a lui e studiarne i preziosi insegnamenti che scaturiscono dalle sue opere. Studiare e conoscere sempre meglio il mondo che ci circonda se vogliamo buttare giù lo sciagurato governo nero fascista e razzista Salvini-Di Maio, rovesciare il capitalismo e conquistare il socialismo.
Studiare di più per condurre meglio la lotta di classe. Nel nome di Engels auguriamo buono studio ai nostri lettori.
 

 

Engels

Considerazioni supplementari al III volume del “Capitale”

 

Da quando il terzo volume del Capitale è stato sottoposto al giudizio del pubblico, ha dato luogo ad interpretazioni molteplici e di natura diversa. Non c’era altro da attendersi. Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando fosse assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre , come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo - perché dovevo considerare ciò una manomissione - l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe, sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario per interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche. Per coloro invece che vogliono effettivamente comprendere, l’originale stesso era la cosa più importante: per essi la mia rielaborazione avrebbe avuto al massimo il valore di un commentario e per giunta di un commentario a qualche cosa di non pubblicato, d’inaccessibile. Alla prima controversia sarebbe stato pur sempre necessario far ricorso al testo originale, ed alla seconda ed alla terza sarebbe stato inevitabile la sua pubblicazione in extenso .
Tali controversie sono naturali per un lavoro che apporta tanti contributi nuovi e per di più nella forma di una prima stesura rapidamente abbozzata e, in parte, lacunosa. E a questo proposito il mio intervento può certo essere utile, per dissipare difficoltà di interpretazione, per mettere in luce dei punti di grande interesse che nel testo non hanno sufficiente rilievo, per aggiungere alcune importanti integrazioni al testo scritto nel 1865, richieste dalle mutate condizioni del 1895. Vi sono infatti già due punti per i quali mi sembra necessaria una breve spiegazione.

1. Legge del valore e saggio del profitto.
Era da attendersi che la soluzione della contraddizione apparente fra questi due fattori avrebbe dato luogo a discussioni tanto prima che dopo la pubblicazione del testo di Marx. Più di uno aspettava un vero miracolo e rimane deluso perché in luogo dell’attesa magia si trova di fronte una mediazione semplice e razionale, prosaicamente sensata del contrasto. Il più felice di questi delusi è naturalmente il ben noto illustre [in italiano nel testo]Loria. Egli ha finalmente trovato il punto d’appoggio archimedico dal quale perfino uno gnomo del suo calibro può sollevare e frantumare la compatta e gigantesca costruzione di Marx. Forse che, egli grida indignato, questa sarebbe una soluzione? Questa è una pura mistificazione! Gli economisti, quando parlano di valore, parlano del valore che si stabilisce realmente nello scambio. «Del valore a cui le merci non si vendono, né possono vendersi mai [Questo e i due corsivi seguenti sono di Engels. Le parole: «né possono vendersi mai» sono ripetute in italiano nel testo] nessun economista che abbia fior di senno si è occupato né vorrà mai occuparsi... Coll’asserire che il valore a cui le merci non si vendono mai è proporzionale al lavoro in esse contenuto, che cosa ha egli fatto se non ripetere sotto una forma invertita la tesi degli economisti ortodossi, che il valore a cui le merci si vendono realmente non è mai proporzionale al lavoro in esse impiegato ?... Né punto vale a salvarla l’osservazione del Marx, che il prezzo totale delle merci coincide pur sempre, nonostante la divergenza dei prezzi dai valori singoli, col loro valore totale, ossia colla quantità di lavoro contenuto nella totalità delle merci stesse. Imperocché essendo il valore null’altro che il rapporto di scambio fra una merce ed un’altra, il concetto stesso di un valore totale è un assurdo, un nonsenso... una contradictio in adjecto ».
Proprio all’inizio del suo lavoro Marx dice che lo scambio potrebbe equiparare due merci unicamente in virtù di un elemento di uguale natura e di uguale grandezza in esse contenuto, precisamente la massa di lavoro di uguale grandezza in esse contenuta. Ed ora egli si contraddice gravemente affermando che le merci si scambiano secondo un rapporto semplice completamente diverso dalla massa di lavoro in esse contenuta. « Quando mai si ebbe una riduzione all’assurdo così piena, un fallimento teorico più completo? quando mai suicidio scientifico fu con maggior pompa e con più grande solennità consumato?» (Nuova Antologia, 1° febbraio 1895, pp. 478-479).
Come si vede il nostro Loria è al colmo della felicità. Non ha egli avuto ragione di trattare Marx come un suo pari, come un volgare ciarlatano? Voi lo vedete: Marx si prende giuoco del suo pubblico precisamente come Loria, egli vive di mistificazioni proprio come il più meschino dei professori italiani di economia. Ma, mentre Dulcamara può permettersi ciò perché conosce il suo mestiere, il grossolano nordico Marx non fa altro che commettere spropositi, dice sciocchezze e assurdità, cosicché alla fine non gli rimane se non il suicidio solenne.
Rimandiamo a più tardi l’asserzione che le merci non sono mai vendute ai loro valori determinati dal lavoro, né possono esserlo. Atteniamoci, qui, semplicemente all’assicurazione fattaci dal signor Loria che « il valore è null’altro che il rapporto di scambio fra una merce ed un’altra, il concetto stesso di un valore totale è un assurdo, un nonsenso» ecc. Il rapporto secondo il quale due merci si scambiano, il loro valore, è dunque qualche cosa di puramente accidentale, caduto sulle merci dall’esterno, che può essere oggi uno e domani un altro. Che un quintale metrico di frumento venga scambiato contro un grammo od un chilogrammo di oro, non dipende affatto da condizioni che sono inerenti a questo grano o all’oro, ma da circostanze completamente estranee ad entrambi. Se così non fosse, queste condizioni dovrebbero esse pure farsi valere nello scambio, dominarlo nell’insieme e avere una esistenza autonoma, indipendentemente dallo scambio, di modo che si potrebbe parlare di un valore totale delle merci. Tutto ciò è un nonsenso, dice l’illustre Loria. Il rapporto, qualunque esso sia, secondo cui due merci si scambiano è il loro valore ed ecco tutto. Il valore è dunque identico al prezzo ed una merce ha un valore corrispondente al prezzo che essa può ottenere. Ed il prezzo è determinato dall’offerta e dalla domanda e chi, ponendo altra questione, si attende una risposta è uno stolto.
La cosa tuttavia presenta una piccola difficoltà. In condizioni normali domanda ed offerta si bilanciano. Dividiamo dunque tutte le merci esistenti nel mondo in due metà, il gruppo della domanda ed il gruppo di pari grandezza dell’offerta. Supponiamo che ciascuno dei due gruppi rappresenti un prezzo di 1.000 miliardi di marchi, franchi, lire sterline od altro. Ciò, secondo le regole dell’aritmetica, rappresenta in tutto un prezzo o un valore di 2.000 miliardi. Nonsenso, assurdità dice il signor Loria. I due gruppi possono complessivamente rappresentare un prezzo di 2.000 miliardi. Ma per il valore è un’altra cosa. Se noi intendiamo il prezzo allora 1.000 + 1.000 = 2.000. Ma se noi intendiamo il valore allora 1.000 + 1.000 = 0. Almeno in questo caso dove si tratta della totalità delle merci. Perché, qui, la merce di ognuno dei due gruppi vale 1.000 miliardi unicamente per il fatto che ognuno dei due vuole e può dare questa somma per la merce dell’altro. Ma se noi riuniamo il complesso delle merci dell’uno e dell’altro nelle mani di un terzo, il primo non ha più in mano valore alcuno, il secondo neppure ed il terzo non ha niente del tutto — alla fine nessuno ha qualche cosa. E noi ammiriamo una volta di più l’abilità con cui il nostro Cagliostro del Sud è riuscito a manipolare così bene il concetto di valore da non lasciar neppure la traccia più lieve. Ecco il colmo della economia volgare!(1)
Nell’Archiv für soziale Gesetzgebung di Braun, VII, fascicolo 4, Werner Sombart fa un riassunto eccellente, nel suo insieme, del sistema di Marx. È la prima volta che un professore d’università tedesco riesce a vedere, negli scritti di Marx, più o meno, quello che Marx ha effettivamente detto, fino a dichiarare che la critica del sistema marxista non può consistere in una confutazione — «della quale s’incarichi pure l’arrivista politico» — ma in un ulteriore sviluppo del sistema stesso. Anche Sombart, come è naturale, si occupa del nostro soggetto. Egli esamina la questione dell’importanza del valore nel sistema di Marx e giunge ai risultati seguenti: il valore non appare nel rapporto di scambio delle merci prodotte secondo il sistema capitalistico; esso non vive nella coscienza degli agenti della produzione capitalistica; non è un fatto empirico, ma un fatto logico, di pensiero; il concetto di valore nella sua determinazione materiale presso Marx non è altro se non l’espressione economica del fenomeno della forza produttiva sociale del lavoro come base della realtà economica; la legge del valore, in un ordine economico capitalistico, domina in ultima istanza i processi economici; ed ha per questo ordine economico in generale il seguente contenuto: il valore delle merci è la forma specifica e storica, nella quale si fa valere in modo determinante la forza produttiva del lavoro, che domina, in ultima istanza, tutti i fenomeni economici. — Fin qui Sombart; non si può dire che questa concezione della importanza della legge del valore nella forma capitalistica di produzione sia inesatta. Mi sembra tuttavia che essa sia formulata con troppa genericità e sia suscettibile di una formulazione più serrata, più precisa: inoltre, secondo il mio punto di vista, non pone in luce in modo esauriente tutta l’importanza della legge del valore per le fasi dello sviluppo economico della società, dominata da questa legge.
Anche nel Sozialpolitisches Zentralblatt di Braun, 25 febbraio 1895, fascicolo 22, si trova un articolo eccellente sul III volume del Capitale , di Conrad Schmidt. Va messo qui in particolare rilievo la dimostrazione che Marx, facendo derivare il profitto medio dal plusvalore, ha risposto per la prima volta ad una questione che l’economia non aveva mai posta: ossia in qual modo questo saggio medio del profitto è determinato e per quale motivo esso è, poniamo, del 10 o del 15%, e non del 50 o 100%. Da quando sappiamo che il plusvalore, che si appropriano di prima mano i capitalisti industriali, è la fonte unica ed esclusiva da cui defluiscono profitto e rendita fondiaria, questo problema si risolve da sé, Questa parte del lavoro di Schmidt potrebbe essere stato scritto direttamente per gli economisti à la Loria qualora non fosse fatica inutile aprire gli occhi a coloro che non vogliono vedere.
Anche Schmidt ha le sue riserve formali a proposito della legge del valore. Egli la chiama una ipotesi scientifica fatta per spiegare il processo di scambio reale, ipotesi che, come punto di partenza teorico necessario, luminoso, inevitabile, ha dimostrato la sua validità anche per i prezzi di concorrenza, fenomeni che in apparenza sembrano esserne la contraddizione assoluta; senza la legge del valore, secondo il suo punto di vista, cade anche ogni conoscenza teorica del meccanismo economico della realtà capitalistica. Ed in una lettera privata che mi ha permesso di citare, Schmidt definisce la legge del valore, nella forma di produzione capitalistica, addirittura una finzione, anche se teoricamente necessaria. - Questa concezione, secondo il mio punto di vista, non è affatto esatta. La legge del valore ha per la produzione capitalistica una importanza molto maggiore e ben più precisa di quella di una semplice ipotesi, senza parlare poi di una finzione, sia pur necessaria.
Sombart e Schmidt — l’illustre Loria mi è servito qui solo come esemplare divertente di economista volgare — non tengono abbastanza in considerazione che non si tratta qui solo di un puro processo logico, ma di un processo storico e del suo riflesso interpretativo nel pensiero, la ricerca logica dei suoi nessi interni.
Il passo decisivo si trova in Marx, III vol. p. 200: «Tutta la difficoltà consiste nel fatto che le merci non vengono scambiate semplicemente come merci , ma come prodotti di capitali, che in proporzione alla loro grandezza, o parità di grandezza, pretendono una uguale partecipazione alla massa complessiva del plusvalore». Si supponga, per illustrare questa distinzione, che gli operai siano in possesso dei loro mezzi di produzione, che lavorino in media per periodi di tempo di uguale lunghezza, con una intensità uguale e scambino direttamente fra di loro le loro merci. Due operai, allora, avrebbero in un giorno aggiunto al loro prodotto mediante il loro lavoro, una eguale quantità di valore nuovo, ma il prodotto di ciascuno di essi avrebbe un valore diverso in relazione al lavoro già incorporato precedentemente nei mezzi di produzione. Questa ultima parte di valore rappresenterebbe il capitale costante dell’economia capitalistica, la parte del valore nuovo aggiunto, impiegato sotto forma di mezzi di sussistenza dell’operaio rappresenterebbe il capitale variabile, la parte residua del nuovo valore costituirebbe il plusvalore che in questo caso apparterrebbe all’operaio. Entrambi gli operai riceverebbero dunque, detrazione fatta della sostituzione della parte «costante» del valore, che essi hanno solamente anticipata, valori uguali; il rapporto fra la parte che rappresenta il plusvalore ed il valore dei mezzi di produzione — che corrisponderebbe al saggio di profitto capitalistico — sarebbe però diverso per ciascuno di essi. Ma, poiché ognuno di essi recupera nello scambio il valore dei mezzi di produzione, questa circostanza sarebbe completamente trascurabile. «Lo scambio delle merci ai loro valori, o approssimativamente ai loro valori, richiede dunque un grado di sviluppo economico assai inferiore che non lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario un determinato livello di sviluppo capitalistico... Anche astraendo dall’azione decisiva della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque conforme alla realtà considerare i valori delle merci non solo da un punto di vista teorico , ma anche storico , come il prius dei prezzi di produzione. Quanto si afferma trova riscontro in situazioni nelle quali il lavoratore è proprietario dei mezzi di produzione , e precisamente nel mondo antico come in quello moderno, presso il contadino che possiede la terra che lui stesso lavora, o presso l’artigiano. E si accorda anche con l’opinione da noi precedentemente espressa, che i prodotti si trasformano in merci quando lo scambio non è limitato ai membri di una stessa comunità, ma avviene fra comunità diverse. E ciò che trova applicazione in questi stadi primitivi, trova ugualmente applicazione in stadi posteriori, i quali sono fondati sulla schiavitù e sulla servitù della gleba, come pure nell’organizzazione corporativa degli artigiani fintanto che i mezzi di produzione investiti in ogni ramo produttivo, solo con difficoltà sono trasferibili da una sfera all’altra e perciò le diverse sfere di produzione si trovano, entro certi limiti l’una rispetto all’altra, nella stessa situazione di paesi stranieri o di collettività comuniste» (Marx, Il Capitale [ed. tedesca], III volume, p. 202 sgg.).
Qualora Marx avesse potuto elaborare ulteriormente il terzo Libro, egli avrebbe, senza dubbio, dato a questo passo uno sviluppo molto più ampio. Così come è redatto, rappresenta solo un abbozzo di ciò che vi è da dire sulla questione. Approfondiamo dunque la nostra indagine.
Noi tutti sappiamo che agli inizi della società i prodotti erano consumati dai produttori stessi e che questi produttori erano organizzati primitivamente in comunità aventi una struttura più o meno comunista: che lo scambio dell’eccedenza di questi prodotti con gli stranieri, dal quale trae origine la trasformazione dei prodotti in merci, è di data posteriore, avviene dapprima solo fra alcune comunità di stirpe diversa, e si afferma più tardi nell’interno della comunità contribuendo fortemente alla sua dissoluzione in gruppi di famiglie più o meno grandi. Ma anche dopo questa dissoluzione, i capifamiglia che praticano lo scambio fra di loro, restano dei contadini che lavorano, che producono nel proprio podere con l’aiuto della loro famiglia quasi tutto ciò di cui hanno bisogno e che acquistano all’esterno, barattando l’eccedenza dei loro prodotti, solo una piccola parte degli oggetti necessari. La famiglia non si dedica solamente all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, essa trasforma i prodotti così ottenuti in articoli di consumo finiti, macina essa stessa ancora in qualche località, con l’aiuto del mulino a mano, cuoce il pane, fila, tinge, tesse lino e lana, concia la pelle, erige e ripara delle costruzioni in legno, fabbrica strumenti di lavoro e utensili, pratica non di rado il mestiere del falegname e del fabbro, di modo che la famiglia o il gruppo familiare è autosufficiente per le cose principali.
Il poco che una tale famiglia doveva barattare o acquistare dagli altri, consisteva in Germania, fino alla metà del XIX sec., soprattutto di oggetti prodotti dagli artigiani, vale a dire oggetti la cui fabbricazione era ben familiare al contadino, e che egli non produceva direttamente, perché la materia prima non gli era accessibile, o perché l’articolo acquistato era molto migliore o molto più a buon mercato. Il contadino del Medioevo conosceva dunque abbastanza esattamente il tempo di lavoro richiesto per la fabbricazione degli oggetti che egli acquistava con lo scambio. Il fabbro, il carpentiere del villaggio lavoravano sotto i suoi occhi: del pari il sarto ed il calzolaio che ancora ai tempi della mia giovinezza andavano presso i nostri contadini renani, di casa in casa, trasformavano in vestiti ed in scarpe le materie prime prodotte dai loro stessi clienti. Sia il contadino che coloro da cui egli acquistava erano essi stessi operai [produttori diretti] [le parole fra parentesi sono cancellate nel manoscritto di Engels, ndr], gli articoli che essi scambiavano erano i prodotti propri di ciascuno. Che cosa essi avevano speso nella fabbricazione dei prodotti? Lavoro e solamente lavoro: per sostituire gli strumenti di lavoro, produrre la materia prima, per lavorarla, essi non hanno dato che la propria forza-lavoro: come possono essi dunque scambiare questi loro prodotti con quelli di altri produttori lavoratori se non in ragione del lavoro in essi speso? Il tempo di lavoro speso in questi prodotti non era solamente l’unica misura adatta per la determinazione quantitativa delle grandezze da scambiare: era assolutamente l’unica possibile. O forse si pensa che il contadino e l’artigiano siano stati così stupidi da scambiare il prodotto di un tempo di lavoro uguale a dieci ore contro quello di una sola ora di lavoro dell’altro? Per tutto il periodo dell’economia naturale contadina, non vi è altro scambio possibile che quello dove le quantità di merci scambiate hanno la tendenza a misurarsi di più in più secondo le masse di lavoro in esse incorporate. Dal momento in cui il denaro fa la sua apparizione in questa organizzazione economica, la tendenza a conformarsi alla legge del valore (nella formulazione di Marx, nota bene!) diviene da un lato ancora più evidente, ma d’altro lato, essa è ostacolata dagli interventi del capitale usurario e dalla rapacità fiscale; i periodi necessari perché i prezzi si avvicinino in media ai valori fino ad una grandezza trascurabile, sono già più lunghi.
Lo stesso si può affermare per lo scambio fra i prodotti dei contadini e quelli degli artigiani delle città. All’inizio esso avviene direttamente, senza l’intervento del commerciante, nei giorni di mercato, nelle città dove il contadino vende e fa i suoi acquisti. Anche qui non soltanto il contadino conosce le condizioni di lavoro dell’artigiano, ma l’artigiano quelle del contadino. Poiché anche l’artigiano è ancora, parzialmente, contadino, egli possiede non soltanto orto e frutteto, ma anche molto sovente un pezzo di terra, una o due mucche, dei maiali, del pollame ecc. Nel Medioevo si era dunque in grado di rifare reciprocamente con sufficiente esattezza il conto dei costi di produzione per le materie prime, le materie ausiliarie, il tempo di lavoro — almeno per gli articoli di uso giornaliero e generale.
Ma, in questo scambio regolato dalla misura della quantità di lavoro, come calcolare quest’ultima, sia pure in modo indiretto, relativo, per i prodotti che richiedono un lavoro lungo, interrotto da intervalli irregolari, di rendimento incerto, ad es. il grano, il bestiame? E ciò per di più, trattandosi di gente che non sa far di conto? Evidentemente mediante un lungo e tortuoso processo di approssimazione, che brancola qua e là nell’oscurità, dove come del resto altrove si diventa saggi a proprie spese. Ma la necessità per ciascuno di rientrare, complessivamente, nelle proprie spese, aiuta a trovare la direzione giusta e il numero esiguo dei tipi di oggetti messi in commercio, come pure la stabilità sovente secolare del sistema della loro produzione facilitò il compito. E che non si sia impiegato troppo tempo per stabilire con una certa approssimazione la grandezza relativa del valore di questi prodotti, lo dimostra di già il fatto che la merce dove questa determinazione appare più difficile a causa del lungo tempo di produzione richiesto da ogni singola unità, il bestiame, fu la prima merce-denaro quasi universalmente riconosciuta. Perché ciò potesse verificarsi, bisognava che il valore del bestiame, il suo rapporto di scambio con tutta una serie di altre merci, avesse trovato una determinazione relativamente larghissima e riconosciuta, senza contestazione nell’ambito di numerose tribù. E le genti di allora erano certamente abbastanza intelligenti — gli allevatori di bestiame al pari dei loro clienti — per non dar via, senza riceverne un equivalente, il tempo di lavoro da essi speso. Al contrario: più le genti si approssimano allo stato primitivo della produzione delle merci — come i russi e gli orientali ad esempio — e maggiore è il tempo che essi perdono ancora oggi per ottenere mediante contrattazioni lunghe, ostinate, la completa rimunerazione del loro tempo di lavoro speso in un prodotto.
Tutta la produzione delle merci si è dunque sviluppata partendo da questa determinazione di valore per mezzo del tempo di lavoro e con essa le molteplici relazioni secondo cui si affermano i diversi aspetti della legge del valore, come si trovano esposti nella prima sezione del primo volume del Capitale : vale a dire le condizioni per le quali solo il lavoro è produttore di valore. E precisamente, sono queste delle condizioni che si formano senza che coloro che vi partecipano ne abbiano conoscenza e che possono essere astratte dalla pratica quotidiana solo mediante una ricerca teorica difficile; che agiscono quindi come le leggi naturali, il che, secondo quanto Marx ha dimostrato, è una necessaria conseguenza della natura della produzione di merci. Il progresso più importante e più radicale si ebbe con il passaggio alla moneta metallica, la cui conseguenza fu tuttavia da allora in poi che la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro non apparve più visibilmente alla superficie dello scambio delle merci. Il denaro divenne praticamente la misura decisiva del valore e in grado tanto maggiore quanto più le merci messe nel commercio si moltiplicarono, furono importate da paesi più lontani, cosicché meno facile divenne il controllo del tempo di lavoro necessario per la loro fabbricazione. Il denaro stesso venne per lo più all’inizio da paesi stranieri ed anche quando il metallo prezioso fu prodotto nel paese, da un lato il contadino e l’artigiano non potevano calcolare nemmeno approssimativamente il lavoro che esso rappresentava, d’altro lato la coscienza della proprietà del lavoro come misura del valore era già abbastanza oscurata presso di loro per l’abitudine di calcolare con il denaro; il denaro cominciò a rappresentare nella concezione popolare il valore assoluto.
In una parola, la legge del valore di Marx ha validità generale, nella misura in cui le leggi economiche la possono avere, per tutto il periodo della produzione semplice delle merci, quindi fino al momento in cui questa subisce una trasformazione con l’apparizione della forma capitalistica di produzione. Fino a questo periodo i prezzi gravitano attorno ai valori determinati secondo la legge di Marx, ed oscillano attorno a questi valori, cosicché quanto più la produzione semplice delle merci si sviluppa, più i prezzi medi di lunghi periodi non interrotti da violente perturbazioni esterne coincidono, con scarti trascurabili, con i valori. La legge del valore di Marx ha dunque una validità economica generale per un periodo di tempo che va dall’inizio dello scambio che trasforma i prodotti in merce, fino al XV sec. della nostra era. Ma lo scambio delle merci risale ad una epoca anteriore a qualsiasi storia scritta, che rimonta in Egitto ad almeno 3.500, forse 5.000 anni, in Babilonia a 4.000 forse 6.000 anni prima della nostra era: la legge del valore ha dunque regnato per un periodo che va da 5 a 7 mila anni. Non ci resta quindi che ammirare la profondità del signor Loria, che chiama il valore affermantesi direttamente ed universalmente durante questo periodo, un valore al quale le merci non sono mai vendute o non possono esserlo, e di cui un economista, che abbia un briciolo di buon senso, non può occuparsi!
Fino ad ora non abbiamo parlato del commerciante. Noi abbiamo potuto risparmiarci lo studio del suo intervento fino a questo momento, quando dalla produzione semplice delle merci passiamo a quella capitalistica. Il commerciante rappresenta l’elemento rivoluzionario in questa società nella quale altrimenti tutto era stabile, stabile per così dire per eredità; nella quale il contadino acquistava non solamente il suo podere per eredità ed in modo quasi inalienabile, ma anche la sua posizione di proprietario libero, di colono libero o dipendente o di servo della gleba; l’artigiano della città acquistava il suo mestiere ed i suoi privilegi corporativi, ed ognuno di essi per di più la sua clientela, il suo mercato, come pure la sua capacità di lavoro acquisita fin dalla giovinezza in vista della professione che avrebbe dovuto ereditare. In questo mondo fece la sua apparizione il commerciante, che doveva essere la causa della rivoluzione. Ma non come un rivoluzionario cosciente; al contrario come carne della sua carne, sangue del suo sangue. Il commerciante del Medioevo non era affatto un individualista, egli era essenzialmente un membro di associazione, come tutti i suoi contemporanei. Nella campagna regnava l’associazione di marca [Markgenossenschaft: associazione cooperativa di contadini di una stessa provincia o di uno stesso comune,ndr] sì derivata dal comunismo primitivo. Ogni contadino aveva, all’origine, un podere di uguale grandezza, con uguali appezzamenti di terreno di ogni qualità e corrispondentemente diritti uguali sulla terra comune. Quando la comunità della marca divenne una comunità chiusa e non fu più ripartita alcuna nuova terra, si produsse, in conseguenza dell’eredità ecc., una suddivisione delle terre e suddivisioni corrispondenti dei diritti sulla terra comune; ma l’unità di misura rimase l’appezzamento di terreno completo [Vollhufe] cosicché si ebbero delle metà, quarti ed ottavi di Vollhufe, a cui corrispondeva una metà, un quarto ed un ottavo di diritti sulla terra comune. Sul modello dell’associazione di marca si orientarono tutte le successive associazioni di mestiere, e soprattutto le corporazioni cittadine, il cui ordinamento non era altro se non l’applicazione della costituzione della marca ad un privilegio di mestiere in luogo che ad una terra limitata. Il fulcro di tutta l’organizzazione era la partecipazione uguale di ogni associato ai privilegi e vantaggi assicurati all’insieme dell’associazione, ciò che si riscontra ancora in modo evidentissimo nel privilegio della Garnnahrung di Elberfeld e Barmen nel 1527 (Thun, L'industria del Basso Reno , II, p. 164 sgg.). Lo stesso si può dire per le aziende minerarie, dove ogni quota mineraria era uguale e poteva essere divisa come la parcella di terra del membro dell’associazione comunale con i suoi diritti ed i suoi obblighi. E lo stesso si può dire in grado non minore per le associazioni di mercanti che iniziarono il traffico marittimo. I veneziani e i genovesi nei porti di Alessandria e di Costantinopoli, ogni «nazione» nel proprio fondaco [in italiano nel testo, ndr] [casa di abitazione, albergo, magazzino, locale dove si esponevano e vendevano le merci, e ufficio centrale] formavano delle associazioni commerciali complete, chiuse ai concorrenti e ai clienti, essi vendevano a prezzi concordati, le loro merci avevano una qualità determinata, garantita da un controllo pubblico e spesso da un marchio, essi stabilivano insieme i prezzi da pagare agli indigeni per i loro prodotti ecc. Non diversamente si comportavano gli anseati al Ponte Tedesco (Tydske Bryggen) a Bergen, in Norvegia e del pari i loro concorrenti olandesi ed inglesi. Guai a chi avesse venduto al di sotto o comprato al di sopra del prezzo! Il boicottaggio che lo colpiva, significava allora la rovina inevitabile, senza tener conto delle punizioni dirette che l’associazione infliggeva al colpevole. Delle associazioni più ristrette furono ancora fondate con degli scopi determinati; per es. la Maona di Genova, signora per molti anni delle miniere di allume di Focea in Asia minore e dell’isola di Chio durante i secoli XIV e XV; la grande associazione commerciale di Ravensberg, che dopo la fine del XIV sec. commerciò con l’Italia e la Spagna e vi fondò delle filiali; e la società tedesca dei Fugger, Welser, Vöhlin, Hochstetter ecc. di Augusta, gli Hirschvogel ed altri di Norimberga, che con un capitale di 66.000 ducati e tre navi presero parte alla spedizione portoghese nelle Indie del 1505 e 1506 e realizzarono un guadagno netto del 150, secondo altri del 175% (Heyd, Commercio con Levante, II, p. 524); e tutta una serie di altre associazioni «monopolia», che accesero tanta collera in Lutero.
Noi incontriamo qui per la prima volta un profitto ed un saggio di profitto. Lo sforzo dei commercianti è rivolto coscientemente e intenzionalmente a rendere uguale questo saggio di profitto per tutti i partecipanti. I veneziani nel Levante, gli anseati nel Nord, pagavano per le merci gli stessi prezzi dei loro vicini, esse costavano loro le stesse spese di trasporto, ne ricevevano il medesimo prezzo ed acquistavano del pari il carico di ritorno agli stessi prezzi di qualsiasi commerciante della loro «nazione». Il saggio del profitto era dunque eguale per tutti. In queste grandi società commerciali è ovvio che la ripartizione dei guadagni si faccia pro rata [in proporzione] delle quote di capitale impiegato, precisamente come la ripartizione dei diritti sulle terre comunali pro rata delle parcelle di terra, o quella dei benefici della miniera pro rata delle quote minerarie. L’eguaglianza del saggio di profitto che, nel suo completo sviluppo, è una delle conseguenze finali della produzione capitalistica, si mostra qui nella sua forma più semplice, come uno dei punti da cui il capitale è uscito storicamente, o addirittura come un discendente diretto dell’associazione di marca, che a sua volta discende direttamente dal comunismo primitivo.
Questo primitivo saggio di profitto era necessariamente molto elevato. L’attività commerciale [innanzitutto attività monopolistica, quindi eccezionalmente rimunerativa] (Le parole fra parentesi sono cancellate nel manoscritto di Engels, ndr) era piena di rischi, non solamente a causa della pirateria che infieriva fortemente: anche le nazioni concorrenti si permettevano sovente ogni sorta di violenze non appena se ne offriva l’occasione; finalmente, la vendita e le condizioni di vendita erano fondate su privilegi accordati da principi stranieri che troppo sovente venivano violati o revocati. Il guadagno doveva quindi includere un forte premio di assicurazione. Inoltre lo smercio avveniva con lentezza, lo svolgimento degli affari richiedeva molto tempo, e nelle epoche migliori, che non erano mai di lunga durata, l’attività commerciale era un commercio di monopolio con profitto di monopolio. Che il saggio di profitto fosse in generale molto elevato, lo dimostrano anche gli elevati saggi di interesse allora in vigore, che nell’insieme dovevano sempre essere inferiori al saggio dei profitti commerciali ordinari.
Ma questo elevato saggio di profitto uguale per tutti i membri, conseguito con il lavoro associato, non aveva che valore locale all’interno dell’associazione, qui della «nazione». Veneziani, genovesi, anseati, olandesi, ognuna di queste nazioni aveva un saggio di profitto particolare, che inizialmente, in misura più o meno grande, variava anche secondo le diverse zone di smercio. Il livellamento di questi diversi saggi di profitto delle associazioni si operò per il cammino inverso, tramite la concorrenza. In un primo tempo furono livellati i saggi di profitto dei diversi mercati per una stessa nazione. Se Alessandria offriva alle merci veneziane un profitto maggiore che Cipro, Costantinopoli o Trebisonda, i veneziani impiegavano un capitale maggiore in Alessandria e lo ritiravano dal commercio con gli altri mercati. Poi dovette prodursi il livellamento graduale dei saggi di profitto fra le diverse nazioni che apportavano sui medesimi mercati le stesse merci o delle merci simili e molto sovente alcune di queste nazioni furono schiacciate e scomparvero dalla scena. Questo processo fu però continuamente interrotto da avvenimenti politici, che condussero poi alla distruzione di tutto il commercio del Levante con le invasioni mongole e turche mentre le grandi scoperte geografico-commerciali non fecero che affrettare questa rovina a partire dal 1492 e la resero infine definitiva.
Il successivo improvviso ampliamento dei mercati e la conseguente rivoluzione delle linee commerciali non apportarono all’inizio modificazioni sostanziali alla struttura del commercio. Nelle Indie, in America, furono ancora le associazioni che si impadronirono in un primo tempo della parte più importante del commercio. Ma innanzitutto le nazioni che sostenevano queste associazioni erano ora più grandi. In luogo del catalano che commerciava con il Levante, tutta la grande Spagna riunita faceva il commercio con l’America: accanto ad essa due grandi paesi, l’Inghilterra e la Francia; ed anche i paesi più piccoli, l’Olanda e il Portogallo erano almeno così grandi e così forti come Venezia, la più grande e la più forte nazione commerciale del periodo precedente. Ciò offrì al commerciante viaggiatore, al merchant adventurer del XVI e XVII sec. un appoggio che rese sempre più inutile l’associazione, che proteggeva i suoi membri anche con le armi e che pertanto richiedeva spese sempre più gravose. Inoltre la ricchezza dei singoli si sviluppò allora con molta maggiore rapidità, cosicché ben presto dei commercianti isolati potevano ora investire in un’impresa dei fondi uguali a quelli che precedentemente erano stati forniti dalle associazioni. Le associazioni commerciali, dove esse ancora esistevano, si trasformarono per la maggior parte in corporazioni armate, che con la protezione e sotto la sovranità della madrepatria, conquistarono paesi interi da poco scoperti e li sfruttarono in forma monopolistica. Ma più si moltiplicarono in queste nuove regioni le colonie fondate principalmente dagli Stati e più il commercio associativo dovette cedere il passo al commercio del singolo, ed in conseguenza di ciò il livellamento dei saggi di profitto divenne sempre più dominio esclusivo della concorrenza.
Fino ad ora noi abbiamo conosciuto un saggio di profitto unicamente per il capitale commerciale. Infatti fino a questo momento erano esistiti solo il capitale commerciale ed il capitale usurario, il capitale industriale dovendosi ancora sviluppare. La produzione era per la maggior parte in mano di lavoratori, che possedevano ancora i propri mezzi di produzione, il cui lavoro quindi non fruttava del plusvalore ad un capitale. Se essi dovevano cedere una parte del prodotto senza ricompensa ad un terzo, ciò avveniva sotto forma di tributo ai signori feudali. Il capitale commerciale poteva quindi ottenere il suo profitto, almeno all’inizio, unicamente dagli stranieri che compravano prodotti del suo paese, o dai connazionali che compravano prodotti esteri: non fu che alla fine di questo periodo — in Italia al tramonto del commercio con il Levante — che la concorrenza estera e le accresciute difficoltà dello smercio, poterono costringere l’artigiano, produttore di merci d’esportazione, a cedere le merci al di sotto del loro valore al commerciante esportatore. Riscontriamo perciò che nel commercio al dettaglio interno fra singoli produttori, le merci erano vendute in media ai loro valori; mentre nel commercio internazionale, per le ragioni suddette, di regola ciò non avveniva. Tutto al contrario che nel mondo attuale, dove prevalgono i prezzi di produzione nel commercio all’ingrosso e nel commercio internazionale, mentre nel commercio al dettaglio delle città la formazione dei prezzi è regolata da saggi di profitto completamente diversi. Cosicché ora ad es. la carne di un bue subisce un aumento di prezzo maggiore per essere trasferita da un commerciante all’ingrosso di Londra ai consumatori di Londra, che per essere trasferita dal commerciante all’ingrosso di Chicago al commerciante all’ingrosso di Londra, trasporto incluso.
Lo strumento che produsse a poco a poco questa rivoluzione nella formazione dei prezzi fu il capitale industriale. Già nel Medioevo si erano costituite le sue premesse e precisamente in tre campi: navigazione, industria mineraria, industria tessile. La navigazione nella scala in cui essa era esercitata dalle repubbliche marinare italiane e anseatiche, era impossibile senza marinai, vale a dire senza salariati (il cui rapporto salariale poteva essere occultato da una forma associativa di partecipazione ai profitti) e, sulle galere dell’epoca, senza rematori, salariati o schiavi. Le aziende minerarie, all’origine nelle mani delle associazioni operaie, si erano già trasformate quasi tutte in società per azioni per lo sfruttamento delle miniere per mezzo di salariati. E, nell’industria tessile, il commerciante aveva cominciato a prendere direttamente al suo servizio i piccoli tessitori, fornendo loro il filo, dando loro un salario fisso per pagarci del tessuto fatto per suo conto, in breve diventando da semplice compratore un cosiddetto Verleger [imprenditore].
Noi abbiamo ora sotto gli occhi i primi germi della formazione del plusvalore capitalistico. Possiamo lasciare da parte le aziende minerarie che sono delle corporazioni monopolistiche chiuse. Per gli armatori, è chiaro che i loro profitti dovevano essere per lo meno uguali ai profitti correnti del paese, più una quota addizionale per assicurazione, logorio delle navi ecc. Ma che accadeva per gli imprenditori dell'industria tessile che cominciavano ad immettere nel mercato delle merci fabbricate direttamente per conto dei capitalisti in concorrenza con le merci dello stesso tipo fabbricate dagli artigiani?
Il saggio di profitto del capitale commerciale esisteva già: esso corrispondeva già, almeno per una località determinata, approssimativamente ad un saggio di profitto medio. Cosa poteva ora indurre il commerciante ad assumersi l’attività supplementare dell’imprenditore? Unicamente la speranza di ottenere un profitto maggiore con un prezzo di vendita eguale a quello degli altri. Ed egli aveva questa speranza. Prendere il piccolo padrone al suo servizio, significava spezzare le barriere della produzione per cui il produttore vendeva il suo prodotto finito e niente altro. Il capitalista commerciante acquistava la forza-lavoro che possedeva ancora il suo strumento di produzione, ma non aveva più la materia prima. Assicurando egli al tessitore un’occupazione regolare, ne approfittava per ridurre il suo salario, di modo che una parte del tempo di lavoro fornito rimaneva non pagata. L’imprenditore si appropriava così un plusvalore, in aggiunta al suo antico profitto commerciale. Egli doveva, è vero, impiegare a questo fine un capitale addizionale, per acquistare ad es. del filo e lasciarlo in mano al tessitore fino a quando la pezza di tessuto fosse finita, mentre precedentemente egli doveva pagare l’intero prezzo solo al momento dell’acquisto. Ma innanzitutto, nella maggioranza dei casi, egli aveva già impiegato del capitale addizionale in anticipi fatti al tessitore che in generale fu costretto solo dalla servitù derivante dal debito a sottomettersi alle nuove condizioni di produzione. Ed in secondo luogo, anche indipendentemente da ciò il conto può configurarsi secondo lo schema seguente.
Si supponga che il nostro commerciante eserciti il suo commercio di esportazione con un capitale di 30.000 ducati, zecchini, sterline, ecc. Ne impieghi, diciamo 10.000, nell’acquisto di merci del paese, mentre 20.000 sono destinati ai mercati d’oltre mare. Il capitale compie una rotazione ogni due anni, il che fa, per una rotazione annuale 15.000. Il nostro commerciante vuole allora far tessere per suo proprio conto, diventare imprenditore. Quanto capitale deve egli aggiungere a tal fine? Supponiamo che il tempo di produzione di una pezza di tessuto corrispondente al tipo che egli vende, sia in media di due mesi, ciò che è certamente molto. Supponiamo inoltre che egli debba pagare tutto in contanti. Egli deve allora aggiungere un capitale sufficiente per poter fornire filo per due mesi al tessitore. Poiché la sua rotazione annua ammonta a 15.000, egli acquista in due mesi pezze di tessuto per 2.500. Supponiamo che di questi, 2.000 rappresentino il valore del filo e 500 il salario del tessitore; il nostro commerciante ha dunque bisogno di un capitale supplementare di 2.000. Supponiamo che il plusvalore del tessitore che egli si appropria, in virtù del suo nuovo metodo, non rappresenti che il 5% del valore della stoffa, ciò che costituisce un saggio di plusvalore molto modesto corrispondente al 25 per cento (2.000c + 500v + 125pv; pv' =125/500 = 25%; p' = 125/2.500= 5%). Il nostro uomo, per conseguenza, recupera il suo capitale addizionale in non più di 2 anni e 2/3.
Ma, per aumentare la sua vendita ed accelerare con ciò la sua rotazione, per realizzare in tal modo, con il medesimo capitale, in un periodo più breve, il medesimo profitto, ossia, nello stesso periodo di prima, dei profitti più grandi, egli cede una piccola parte del suo plusvalore al compratore, vende più a buon mercato dei suoi concorrenti. Ma questi si trasformano ugualmente a poco a poco in imprenditori, e così il plusprofitto si ridurrà per tutti al profitto ordinario o a un profitto più piccolo per il capitale che si è accresciuto presso tutti. L’uguaglianza del saggio di profitto è di nuovo ristabilita, sia pure eventualmente ad un livello diverso, perché una parte del plusvalore prodotto all’interno del paese è stata ceduta ai compratori esteri.
L’introduzione della manifattura fa compiere un passo ulteriore all’industria sulla via della sottomissione al capitale. Essa pure permette al fabbricante che nei secoli XVII e XVIII — in Germania fino al 1850 quasi dovunque, ed in alcune località ancora oggi — è ancora per la maggior parte esportatore dei propri prodotti, di produrre più a buon mercato del suo antiquato concorrente, l’artigiano.
Lo stesso processo si ripete. Il plusvalore che il capitalista manifatturiero si è appropriato, permette a quest’ultimo, unitamente all’esportatore che si divide con lui i profitti, di vendere più a buon mercato dei suoi concorrenti, fino a che non si sia generalizzato il nuovo modo di produzione: allora si opera il livellamento. L’antico saggio di profitto commerciale, anche quando il suo livellamento non è che locale, rimane il letto di Procuste, dove senza pietà si stronca l’eccedenza del plusvalore industriale.
Se la manifattura si è sviluppata mediante la diminuzione di prezzo dei prodotti, la grande industria l’ha di gran lunga sorpassata, riducendo sempre più con le sue incessanti rivoluzioni i costi di fabbricazione delle merci e sopprimendo senza pietà tutti i modi di produzione precedenti. È essa, infine, che in tal modo conquista definitivamente al capitale il mercato interno, mette fine alla piccola produzione, all’economia naturale della famiglia contadina autosufficiente, sopprime lo scambio diretto fra i piccoli produttori, pone tutta la nazione al servizio del capitale. Essa livella del pari i saggi di profitto dei diversi rami dell’industria e del commercio ad un saggio di profitto generale ed assicura finalmente all’industria, nel quadro di questo livellamento, il rango dovuto alla sua forza, sopprimendo in gran parte le difficoltà che ostacolavano fino allora il trasferimento del capitale da un ramo all’altro. In tal modo si compie, per tutto lo scambio in generale, la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Questa trasformazione si compie dunque spontaneamente secondo delle leggi obiettive, senza che gli interessati se ne rendano conto o lo vogliano. Il fatto che la concorrenza livella i profitti che eccedono il saggio generale di profitto al livello comune e sottrae così il plusvalore che supera la media al primo industriale che se lo è appropriato, non offre perciò alcuna difficoltà teorica. Tanto più però nella pratica, in quanto le sfere di produzione che producono un plusvalore superiore alla media, che possiedono cioè un capitale variabile elevato ed un capitale costante debole, e che quindi hanno una composizione di capitale inferiore, sono precisamente quelle che, per loro natura, vengono assoggettate più tardi e nel modo più incompleto al sistema capitalistico; innanzi tutto l’agricoltura. Al contrario, l’aumento dei prezzi di produzione al di sopra del valore delle merci, necessario per elevare al livello del saggio medio di profitto il plusvalore inferiore alla media, contenuto nei prodotti di sfere a composizione organica elevata, mentre sembra presentare, teoricamente, molte difficoltà, avviene come noi abbiamo visto, nella pratica, con la massima facilità e rapidità. Infatti quando le merci di questa classe cominciano ad essere prodotte secondo il sistema capitalistico ed appaiono nel commercio capitalistico, esse entrano in concorrenza con merci della stessa natura, e fabbricate secondo i metodi precapitalistici, e per conseguenza più care. Il produttore capitalistico è quindi in grado, anche rinunciando ad una parte del plusvalore, di assicurarsi il saggio di profitto in vigore nella sua località, che all’origine non era in rapporto diretto con il plusvalore, poiché esso era derivato dal capitale commerciale, molto prima che fosse istituito il sistema di produzione capitalistico e che un saggio di profitto industriale fosse dunque possibile.

2. La Borsa.
1. Quale posto la Borsa occupi in generale nella produzione capitalistica appare nel volume III, sezione quinta, particolarmente nel capitolo 27. Ma dopo il 1865, data nella quale il volume fu redatto, sono intervenute delle modificazioni, che assegnano oggi alla Borsa un’importanza accresciuta e sempre crescente e che tendono progressivamente a concentrare nelle mani degli uomini di Borsa la totalità della produzione industriale e di quella agricola, tutto il traffico, mezzi di comunicazione e funzioni di scambio. Così la Borsa diventa il rappresentante più notevole della produzione capitalistica stessa.
2. Nel 1865 la Borsa rappresentava ancora un elemento secondario nel sistema capitalistico. I titoli di Stato rappresentavano la grande massa dei valori di Borsa, ed anche la loro quantità era ancora relativamente esigua. Accanto a questo, vi erano le banche per azioni che dominavano sul continente ed in America: in Inghilterra esse si stavano apprestando ad inghiottire le banche private degli, aristocratici. Ma anche queste azioni costituivano una massa ancora relativamente insignificante.
Le azioni ferroviarie erano ancora relativamente deboli, in confronto ad oggi. Établissements direttamente produttivi, ma solo pochi in veste di società per azioni. A quell’epoca «l’occhio del ministro» era una superstizione non ancora superata — e, al pari delle banche, soprattutto nei paesi più poveri , in Germania, Austria, America ecc.
La Borsa era dunque, ancora, in quei tempi un luogo dove i capitalisti si sottraevano l’uno all’altro i capitali accumulati, ed interessava direttamente gli operai soltanto come nuova dimostrazione dell’universale azione corruttrice dell’economia capitalistica e come conferma delle parole di Calvino, che la predestinazione, alias il caso, decide già in questa vita della salvezza e della dannazione, della ricchezza, cioè del piacere e della potenza, e della povertà, vale a dire della privazione e della servitù.
3. Alquanto diverso nei nostri tempi. Dopo la crisi del 1866 l’accumulazione si è sviluppata con una rapidità sempre crescente, ed in modo tale che in nessun paese industriale, ed in Inghilterra meno che altrove, l’ampliamento della produzione ha potuto seguire quello dell’accumulazione e che l’accumulazione di ogni singolo capitalista non poteva essere totalmente impiegata nell’allargamento della sua propria impresa: l’industria cotoniera inglese già nel 1845, speculazione delle ferrovie. Ma, insieme a questa accumulazione, si è anche accresciuto il numero dei rentiers , della gente che era sazia della continua tensione degli affari, che non desiderava dunque che divertirsi od occupare dei posti poco faticosi di direttori o di membri del consiglio d’amministrazione di società. E in terzo luogo al fine di facilitare l’investimento di questa massa fluttuante in forma di capitale monetario, furono create, là dove questo non era stato ancora fatto, nuove forme legali di società a responsabilità limitata e le obbligazioni degli azionisti, di cui la responsabilità era fino allora illimitata, furono ugualmente più o meno ridotte (società per azioni in Germania nel 1890. 40% della sottoscrizione!).
4. Dopo ciò, graduale trasformazione dell’industria in società azionarie. Tutti i rami, uno dopo l’altro subirono la medesima sorte. In primo luogo il ferro, che esige ora degli investimenti considerevoli (prima le miniere, là dove esse non erano ancora suddivise). Poi l’industria chimica, idem. Industrie meccaniche. Sul continente, l’industria tessile; in Inghilterra solamente ancora in alcune regioni del Lancashire (filatura Oldham, tessitura Burnley ecc., cooperative di sarti, questa solo come prima tappa per ricadere nelle mani di masters alla prima crisi); birreria (qualche anno fa le birrerie americane furono asservite al capitale inglese, poi le Guinness, Bass, Allsopp). In seguito i trust, che erano imprese gigantesche a direzione comune (come l’United Alcali ). La solita ditta individuale è soltanto una prima tappa per portare l’impresa ad un livello sufficientemente elevato per essere « fondata ».
Lo stesso per il commercio. Leafs, Parsons, Morleys, Monsieur Dillon, tutte sono fondate. Lo stesso già ora per le case al dettaglio, e non solamente sotto l’apparenza della cooperazione à la «stores» [Come nei grandi magazzini].
Lo stesso per le banche ed altri istituti di credito, anche in Inghilterra. — Una quantità infinita di nuove società, tutte azionarie, limited [a responsabilità limitata]. Persino le vecchie banche come Glyns ecc. si trasformano con sette azionisti privati in limited.
5. Lo stesso nel campo dell’agricoltura. Le banche enormemente ingrandite, soprattutto in Germania, con ogni genere di nomi burocratici, che sempre più diventano dei creditori ipotecari: grazie alle loro azioni, la proprietà effettiva della terra è trasferita alla Borsa, e ciò ancora di più quando i beni cadono in mano ai creditori. Qui, la rivoluzione agricola della coltura su grande scala agisce potentemente: se ciò continua si può prevedere il momento in cui il territorio dell’Inghilterra e della Francia passerà alla Borsa.
6. Infine gli investimenti all’estero si fanno sotto forma di azioni. Per non parlare che dell’Inghilterra: le ferrovie americane. Nord e Sud (consultare i bollettini di Borsa), Goldberger ecc.
7. Infine la colonizzazione. Questa è oggi una effettiva succursale della Borsa, nell’interesse della quale le potenze europee si sono qualche anno fa spartita l’Africa e i francesi conquistato Tunisi ed il Tonchino. L’Africa data in appalto diretto a compagnie (Nigeria, Africa del Sud, Africa tedesca sud occidentale e Africa orientale) e Mozambico e il Natal accaparrati da Rhodes per la Borsa.
 
NOTE
 
(1) Lo stesso signore, «conosciuto per la sua fama» (per usare le parole di Heine), si è visto costretto, un po’ tardi veramente, a rispondere alla mia prefazione al III volume, precisamente dopo la sua pubblicazione in italiano nel primo fascicolo della Rassegna del 1895 La risposta si trova nella Riforma Sociale del 25 febbraio 1895. Dopo avermi sommerso di adulazioni, inevitabili in lui e perciò doppiamente odiose, egli dichiara che non gli era passato per la mente di voler appropriarsi i meriti di Marx nei confronti della concezione materialistica della storia. Tali meriti egli li aveva già riconosciuti, a dire il vero molto superficialmente, nel 1885, in un articolo di rivista. È per questo che egli li passa sotto silenzio con tanta maggiore ostinazione là dove essi dovrebbero trovare il loro posto, precisamente nel suo libro, dove Marx viene per la prima volta citato a p. 129, e solo a proposito della piccola proprietà fondiaria in Francia. Ed ora egli dichiara con baldanza che Marx non è affatto l’autore di questa teoria; se non è Aristotile che l’ha già preannunciata, Harrington senza dubbio alcuno l’ha proclamata fin dal 1656 ed essa è stata ulteriormente sviluppata da una pleiade di storici, di politici, di giuristi e di economisti molto prima di Marx. Tutto ciò si può leggere nell’edizione francese dell’opera di Loria. In breve, un plagiatore perfetto. Dopo che io gli ho impedito ulteriori rodomontate con i plagi di Marx, egli pretende sfrontatamente che anche Marx si adorni di penne altrui, proprio come fa egli stesso. Delle altre critiche che gli avevo mosso, egli accoglie quella relativa alla sua affermazione che Marx non avrebbe mai avuto l’intenzione di scrivere un II o addirittura un III volume del Capitale . «Ora l’Engels risponde trionfalmente lanciandomi contro il secondo ed il terzo volume..., e sta bene; ed io sono così lieto di questi volumi, a cui debbo tante intellettuali delizie, che giammai vittoria mi fu così cara come oggi mi è cara questa sconfitta — se sconfitta è realmente. Ma lo è davvero? È proprio vero che il Marx abbia scritto con l’intento di pubblicarla questa miscellanea di note scucite, che l’Engels ha con pietosa amicizia raccolte? È proprio ammissibile che il Marx... abbia affidato a queste pagine il coronamento della sua opera e del suo sistema? È proprio certo che il Marx avrebbe pubblicato quel capitolo sul saggio medio dei profitti, in cui la soluzione da tant’anni promessa si riduce alla più desolante mistificazione, al gioco di frasi più volgari? È lecito almeno dubitarne... Ora, ciò dimostra, mi sembra, che, dato alla luce il suo splendido [riportato in italiano da Engels] libro. Marx non aveva in animo di dargli un successore, o tutt’al più volle lasciare a’ suoi eredi, e fuori della propria responsabilità, il compimento dell’opera gigantesca».
Ecco ciò che si trova scritto a p. 267. Heine non poteva parlare del suo pubblico tedesco, pubblico di filistei, con disprezzo maggiore che dicendo: l’autore finisce con l’abituarsi al suo pubblico, come se questo fosse un essere ragionevole. Quale idea l’illustre Loria deve dunque farsi del suo?
Egli termina con un nuovo torrente di elogi che, ahimè, mi sommergono. Ed il nostro Sganarello si identifica in ciò con Balaam che viene per maledire, ma dalle cui labbra sgorgano suo malgrado «parole di benedizione e d’amore». Il buon Balaam era ben conosciuto per montare un asino che era più giudizioso del suo padrone. Per questa volta Balaam ha evidentemente lasciato il suo asino a casa. (Nota di Engels )

31 luglio 2018