Nel rapporto lavoratori imprenditori il ducetto Di Maio si ispira al corporativismo fascista espresso dalla Carta del lavoro mussoliniana del 1927
“Decreto Dignità”: respinto il ripristino dell'art. 18, estesi voucher e precariato
Pressioni ed emendamenti da parte di PD, Forza Italia e Lega per favorire i padroni
Protesta in piazza della Cgil

Giovedì 2 agosto la Camera dei deputati ha approvato a larga maggioranza il “Decreto Dignità” con 312 voti favorevoli e 190 contrari, a seguire il 7 agosto è stata la volta del Senato che lo ha ratificato con 155 sì contro 125 no. Non c'è stato bisogno del voto di fiducia, le poche divergenze tra Lega e 5 Stelle si sono subito ricomposte nell'interesse comune di non intralciare la marcia del nero governo Salvini-Di Maio. Si tratta del primo vero atto che non faccia parte di quella campagna razzista anti-immigrati che ha caratterizzato finora l'insediamento dell'esecutivo presieduto da Conte.
Le virgolette alla parola Dignità sono comunque d'obbligo perché il decreto va nella direzione opposta a quella che il nome lascerebbe intendere. Quella “Waterloo del precariato” pomposamente richiamata da Di Maio esiste solo come slogan propagandistico. La dignità e la stabilità dei lavoratori non sono state certo riconquistate anzi, con la reintroduzione dei voucher si sono ulteriormente ridotte. Nemmeno i commentatori politici più benevoli con il governo giudicano il “Decreto Dignità” una misura efficace contro il precariato.
 

La discussione alla Camera e Senato
Quello approvato dal parlamento è stato definito un “Decreto 2.0” perché rispetto al testo originale contiene alcuni aggiornamenti (tutti peggiorativi dal punto di vista dei lavoratori) imposti dalla raffica di proposte ed emendamenti portati in aula e dalle pressioni del padronato. Le modifiche richieste erano quasi tutte tese a tutelare le aziende, tanto che PD e Forza Italia hanno gareggiato per l'alloro di migliore e più servile paladino degli interessi padronali. Il partito di Berlusconi e i fascisti di Fratelli d'Italia hanno addirittura etichettato il provvedimento come “bolscevico ” e “di tipo sovietico ”. La Meloni, sfiorando il ridicolo, l'ha definito: “ricetta da partito comunista ”.
Il PD non è stato da meno e il renzianissimo capogruppo al Senato Andrea Marcucci, ha accusato il governo di aver creato un meccanismo “che lega le mani alle imprese e alimenterà il lavoro nero ”. E in questa gara a scavalcarsi a destra, l'ex premier ora senatore Renzi ha accusato Di Maio di mettere “in difficoltà le imprese creando incertezza ”. Il PD ha persino inscenato una protesta appellandosi alle discutibili considerazioni “tecniche” fatte dall'Inps e dal suo presidente Boeri su 80mila licenziamenti causati dal “Decreto Dignità”. Tutte critiche da destra padronale fatte con lo scopo di avvallare la tesi che l'occupazione si crea solo togliendo diritti ai lavoratori.
A sgomberare il campo dai proclami e dalle sceneggiate dei vari gruppi politici è bastato l'emendamento che proponeva la reintroduzione dell'articolo 18, la misura più semplice ed efficace per ridare fin da subito almeno una parte della dignità tolta ai lavoratori negli ultimi anni dai governi borghesi e dai padroni. L'emendamento alla Camera ha ottenuto 13 voti a favore, ossia solo quelli di LeU che lo aveva presentato. Quindi a difendere il Jobs Act non è rimasto solo il PD renziano, che ne è stato il fautore, ma tutti i partiti di destra, e sopratutto Lega e M5S che in campagna elettorale avevano blaterato di eliminarlo e di reintrodurre l'articolo 18.
 

I contratti a termine
Il decreto invece lascia intatta la controriforma del lavoro voluta da Renzi e su alcuni punti la peggiora. Partiamo da quelle misure che dovrebbero contenere l'uso dei contratti a termine. Di Maio evoca continuamente la riduzione della durata massima dagli attuali 36 mesi a 24 mesi presentandola come “un'inversione di tendenza ” ma in realtà cambia poco o nulla. Ci sarà solo un ricambio più veloce nelle assunzioni a termine che dureranno due anni anziché tre. Altre modifiche riguardano il taglio dei rinnovi da 4 a 5 e il ritorno della causale obbligatoria dopo i 12 mesi, altrimenti il lavoratore deve essere assunto. Ritocchi demagogici e insignificanti.
Il decreto di Di Maio introduce poi un aggravio contributivo a carico dei padroni dello 0,5 ad ogni rinnovo mentre riconferma che i contratti a termine non potranno superare il 30% del totale. Infine l'indennità per chi viene licenziato senza giusta causa prevedeva dalle 4 alle 24 mensilità mentre con il nuovo decreto salirà da 6 a 36 mesi. Nel breve periodo questa modifica non avrà alcun effetto perché per ottenere il massimo del rimborso occorreranno 12 anni di anzianità (3 mesi di rimborso ogni anno di assunzione) mentre il Jobs Act è entrato in vigore nel 2015.
Questi piccoli riposizionamenti sono solo fumo negli occhi che lasciano le cose come stanno perché non reintroducono l'articolo 18. La vecchia normativa antecedente il Jobs Act non prevedeva licenziamenti economici o senza giusta causa e quando il Giudice aveva stabilito che questa regola era stata infranta il lavoratore doveva essere reintegrato al proprio posto e aveva diritto a un rimborso per essere stato licenziato ingiustamente.
 

I voucher
In compenso sono state reintrodotte ed estese nuove misure che espandono il precariato. La principale è il ritorno dei voucher, aboliti dal governo Gentiloni per paura di perdere il referendum abrogativo promosso dalla Cgil, anche se nel 2017 in qualche misura erano stati reintrodotti. Al suo posto furono istituiti il “Libretto famiglia” destinato alle persone fisiche, e il “Contratto di prestazione occasionale” per gli altri soggetti: aziende sotto i 5 dipendenti, professionisti, lavoratori autonomi, imprenditori, associazioni, fondazioni ed altri enti di natura privata, Pubbliche amministrazioni.
Con il decreto voluto da Di Maio non solo si ritorna alla vecchia normativa introdotta dal Jobs Act di Renzi, ma si introducono nuovi parametri che estendono ulteriormente l'uso dei voucher. In particolare, la prestazione occasionale potrà avere una durata massima di 10 giorni anziché 3, e i nuovi voucher potranno essere attivati anche dalle aziende agricole fino a 5 dipendenti e dalle aziende del settore turistico fino a 8 dipendenti. I pagamenti delle prestazioni potranno avvenire direttamente alla Posta, dopo 15 giorni dallo svolgimento dell’attività lavorativa.
La reintroduzione in forma ancora più estesa dei voucher è stata accompagnata dalla cagnara mediatica scatenata da quasi tutti i partiti parlamentari e dai padroni tendente a far credere che senza il loro utilizzo alcune tipologie d'impresa sarebbero impossibilitate a lavorare. Una tesi falsa e pretestuosa senza fondamento reale.
Com’è noto, invece, i voucher si reggono sull’abuso strumentale delle imprese al di fuori dei contratti di lavoro che esistono in tutti i settori dov’è prevista l’estensione. Tutti prevedono forme contrattuali per i lavori brevi e stagionali, ma con i voucher non si pagano ferie, maternità, tfr e malattia. I sindacati lo denunciano da tempo: “quello che si sta facendo è tendere alla destrutturazione dei contratti nazionali. Si fa finta di ignorare che queste norme esistano e già regolano le attività esistenti”. Così si è espressa Susanna Camusso, intervistata da il manifesto.
I sindacati a più riprese hanno protestato contro la reintroduzione dei voucher: manifestazioni unitarie si sono tenute in quasi tutte le provincie italiane, con in prima fila i lavoratori del commercio e del turismo, quelli maggiormente coinvolti. Dopo i presidi davanti a Montecitorio del 24-25 e 26 luglio assieme a Cisl e Uil il 2 agosto la Cgil è tornata a Roma per manifestare “in piazza per chiedere ai parlamentari di avere il coraggio di stare dalla parte giusta: insieme a quel milione e mezzo di italiani che un anno fa ha detto no al lavoro senza diritti, no alla precarietà, NO ai voucher”. Speranza vana perché i voucher sono stati reintrodotti.
 

Gli sgravi ai padroni
Con un altro tuffo nel passato Di Maio ha reintrodotto anche gli sgravi fiscali ai padroni, facendo propri i provvedimenti dei governi Renzi e Gentiloni. Esclusi nella prima bozza, gli sgravi sono entrati a pieno titolo nella versione definitiva del “Decreto Dignità” approvata dal parlamento. La misura di esonero contributivo per le aziende è stata prorogata fino al 2020, per le assunzioni dei giovani fino ai 35 anni di età (in luogo dei 30 originariamente previsti); gli imprenditori potranno in tal caso continuare a beneficiare di uno sgravio contributivo pari al 50% introdotto dalla legge di Bilancio 2018.
Le camere hanno approvato anche alcune misure fiscali atte a semplificare le procedure burocratiche per le aziende e l'abolizione dei cosiddetti “spesometro” e “redditometro”, sistemi un po' troppo rigidi e da rivedere ma che servivano a evitare che proprietari di barche e ricchi possidenti paghino i libri scolastici o i ticket sanitari meno degli operai. Una conferma della posizioni della Lega e del M5S, apertamente contrarie alle imposte patrimoniali e favorevoli alla bassa tassazione dei redditi più alti. Basti ricordare che Salvini, in riferimento alla “Flat tax” ha affermato: “è giusto che i ricchi paghino meno tasse”.
 

Delocalizzazioni
Nessuna novità invece per quanto riguarda le delocalizzazioni delle imprese all'estero: sono confermate le misure approvate dal Consiglio dei Ministri del 2 luglio scorso. Richiedere indietro con gli interessi i già di per sé discutibili aiuti di Stato è un principio sacrosanto ma al di là delle chiacchiere nel Decreto c'è ben poco. Il principio vale solo se si abbandona l'Italia prima di 5 anni ed esclusivamente in Paesi al di fuori dell'Unione Europea (UE). Solo nei casi “specificamente localizzati” questa regola vale per delocalizzazioni in altri Paesi della UE o di altre parti dello stesso territorio italiano.
Penalizzazioni anche a chi ha ricevuto aiuti di Stato e, pur rimanendo in Italia, abbassa gli occupati oltre il 10% e il ritiro dei benefici dell'iperammortamento concesso con generosità ai padroni dai governi Renzi e Gentiloni, mancano però strumenti efficaci per attuare le sanzioni. “I tempi e le modalità per il controllo del rispetto del vincolo, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza sono definiti da ciascuna amministrazione per le misure di aiuto di propria competenza. ” Quindi nessuna nazionalizzazione delle aziende ne controllo a livello centrale.
 

Le altre misure
Il decreto interviene anche sulla scuola, in particolare sulla sentenza del Consiglio di Stato del dicembre 2017 dove si stabilisce che il semplice diploma magistrale conseguito prima del 2001/2002 non era più sufficiente per insegnare a pieno titolo nella scuola primaria. Di conseguenza chi era stato assunto non ne aveva più diritto e chi era stato inserito nelle graduatorie a esaurimento (GaE) non poteva più essere stabilizzato.
Il Decreto azzera tutto retrocedendo i 7500 già assunti a tempo indeterminato a supplenti e lasciando nelle GaE 43mila maestre con il diploma magistrale. Per questa platea d'insegnanti sarà riservato un concorso straordinario che prevede solo 12mila assunzioni. Se si voleva ridare dignità bastava assumere questi 50mila lavoratori, già formati e pronti per colmare la mancanza di personale nella scuola pubblica. Ma evidentemente, al di là dei proclami, la stretta europea alla spesa pubblica vincola anche il governo Salvini-Di Maio.
 

Un governo nero
Questo decreto, presentato come un grimaldello per “abbattere il precariato ” (parole di Di Maio), non solo è apparso subito del tutto inefficace, ma con la versione approvata del “Decreto Dignità 2.0” prosegue nel solco della legislazione che si è sviluppata negli ultimi anni che ha reso i rapporti di lavoro sempre più poveri e precari privando i lavoratori di quasi tutti i diritti conquistati con decenni di lotte, riuscendo persino a peggiorarla.
Chi nutriva ancora qualche speranza nel nuovo governo affinché varasse dei provvedimenti a favore dei lavoratori e delle classi meno abbienti si dovrebbe definitivamente ricredere. Dopo aver dato prova di usare metodi golpisti rispetto alla stessa democrazia borghese, chiuso i porti e aizzato la popolazione contro i migranti e le minoranze, essersi scagliati contro l'aborto e i gay, anche sul piano economico e sociale abbiamo la conferma quanto sia nero e di destra questo governo. Tanta demagogia e populismo in stile mussoliniano mentre la Legge Fornero, il Jobs Act e la “Buona scuola” non sono stati toccati. Per di più si sta attrezzando per la “Flax tax”, con aliquote fisse che favoriscono solo i ricchi e gli straricchi.
Del resto la visione che ha Di Maio del rapporto tra lavoratori e padroni pesca a piene mani da quella cosiddetta “dottrina sociale” del fascismo che porta il nome di corporativismo, il quale rigetta la divisione e l'antagonismo tra le classi, così bene individuata e analizzata dal marxismo, sostituendola con la collaborazione tra sfruttati e sfruttatori per un ipotetico e impossibile bene comune di tutta la nazione. Dottrina che si sposa bene con l'interclassismo del M5S, secondo cui la divisione accettata è quella tra i cittadini e la casta (o élite).
In queste frasi di Di Maio sta il succo del nero corporativismo pentastellato. Davanti alla platea dell’Alleanza delle cooperative italiane costui ha dichiarato enfaticamente: “Serve una lotta per il lavoro e non una lotta di classe fine a se stessa, con l’impegno di tutti, insieme, imprese e lavoratori”; e inoltre ha sottolineato: “non è alimentando il conflitto tra imprese e lavoratori che aumenteranno i diritti dei lavoratori, è il momento di fare squadra”, “promuovere nuove forme di democrazia e partecipazione sul luogo di lavoro”, “la maggioranza dei lavoratori ha un rapporto diretto con il titolare dell’impresa e molto meno col sindacato che rappresenta e difende le grandi categorie” sono dettate da questa visione, dove le operaie e gli operai non devono sentirsi una classe a se stante, ma collaborare con il padrone, o al massimo trattare singolarmente perdendo così il proprio potere contrattuale, per non turbare l'ordine nelle fabbriche e nelle aziende.
Il PMLI lo aveva denunciato subito, fin dal suo insediamento. Il documento del CC del 5 giugno 2018 iniziava cosi: “Il governo Salvini-Di Maio, formalmente intestato al tecnocrate borghese Giuseppe Conte, è un mostro fascista, razzista e xenofobo, che ha fatto scempio della Costituzione del '48 e rafforzato la seconda repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista. Mai nella storia della Repubblica italiana si è visto un mostro governativo del genere. Nemmeno quando il nuovo Mussolini Silvio Berlusconi portò al potere i fascisti storici di Fini.” I fatti lo stanno puntualmente confermando.
 
 
 

5 settembre 2018