In piazza con i ritratti di Mao in Cina per sostenere i lavoratori
Studenti e marxisti-leninisti solidarizzano con gli operai che lottano per avere un sindacato. 30 lavoratori sono stati arrestati. Denunce di torture e molestie da parte della polizia, pestaggi da parte di teppaglie al soldo dei proprietari della fabbrica. Licenziati i “facinorosi”

 
Fra luglio e agosto gli operai della fabbrica della Jasic Technology di Shenzhen, metropoli della Cina meridionale e simbolo del capitalismo cinese, hanno avviato una dura protesta contro le condizioni di sfruttamento disumane esistenti nella fabbrica, da loro definite “schiavistiche”. JT è specializzata in macchinari per la saldatura, commercia con il mondo intero e, oltre a Shenzhen, dove impiega circa mille lavoratori, ha fabbriche anche a Chongqing e Chengdu. Le condizioni di lavoro sono pessime, sono stati tagliati i fondi per le assicurazioni sociali, i turni vengono cambiati senza preavviso e i lavoratori vengono regolarmente spiati, persino quando vanno al bagno, o intimiditi attraverso “liste nere” e la divulgazione illegittima dei dati personali.
Esasperati da questi soprusi, volti a tenerli schiacciati nello sfruttamento, gli operai hanno avviato una forte protesta a partire dal 18 luglio scorso. Hanno organizzato manifestazioni e raccolte di fondi, scritto e diffuso sui social media una lettera aperta (oscurata dalle autorità) e avanzato precise rivendicazioni, fra le quali spicca il permesso di organizzare un sindacato all'interno della fabbrica. Ciò sarebbe particolarmente pericoloso per il padronato e per le autorità statali conniventi, perché potrebbe creare il precedente di un'organizzazione sindacale distaccata dalla Federazione nazionale dei sindacati, controllata dal PCC revisionista, il cui ruolo è concertativo e filopadronale, salvo sparute eccezioni.
Contro la protesta è scattata la furia repressiva dello Stato falso “socialista”, subito schierato a favore dei capitalisti anziché degli operai in lotta. Il 27 luglio ben 30 lavoratori sono stati arrestati, e 14 risultano ancora in carcere. Ci sono state denunce di torture e molestie da parte della polizia, e pestaggi da parte di teppaglie al soldo dell'amministrazione. L'amministrazione di JT ha annunciato il licenziamento dei “facinorosi”.
Ciò ha suscitato la reazione di studenti provenienti da varie univeristà del vasto Paese e altri marxisti-leninisti di tutte le età, che hanno organizzato sit-in e altre iniziative in solidarietà con gli operai, portando in piazza ritratti di Mao, cartelli e striscioni, su cui si leggevano slogan a favore degli operai in lotta, contro la repressione e a favore del sindacato in JT. Alcuni attivisti, fra cui Shen Mengyu, successivamente arrestata, hanno scritto una lettera chiedendo al segretario locale del partito “di prendere immediatamente in mano la situazione, chiedere alla polizia di rilasciare subito i fermati, e punire severamente chi pesta gli operai, compensare questi ultimi per le perdite subite e fornire delle scuse”. “Il governo di Pingshan”, continuava la lettera, riferendosi al distretto di Shenzhen dove si trova JT, “e la sezione locale della Federazione pan-cinese dei sindacati devono prestare ascolto alle direttive del Centro e incoraggiare gli operai a formare il proprio sindacato per la protezione legale dei propri diritti, oltre a svolgere un ruolo positivo nella supervisione e nella gestione dell'azienda”. Il trattamento a loro riservato non è stato più clemente: decine di attivisti sono stati arrestati per “sommovimenti in pubblico”, altri hanno scritto lettere aperte denunciando le minacce ricevute dalle autorità poliziesche e universitarie, nel caso degli studenti.
Al momento, la mobilitazione degli operai sembra in fase di riflusso, ma quanto è avvenuto è incancellabile e rispecchia l'impennata delle lotte per il lavoro in Cina. Fra il gennaio del 2013 e il dicembre 2017, secondo il China Labor Bulletin, hanno avuto luogo 8 696 proteste collettive di lavoratori. Probabilmente il numero è in difetto, poiché molte non vengono riportate dai media. Le proteste sono maggiormente diffuse a macchia d'olio rispetto al passato, quando erano concentrate nei grandi centri industriali e urbani. Ad accendere la miccia è solitamente il mancato rispetto delle più basilari condizioni contrattuali, in primis il mancato pagamento dei salari, oltre alla sempre maggiore sensibilità delle nuove generazioni di operai e lavoratori verso i propri diritti. La retorica burocratica della “società armoniosa”, della “media prosperità” e del “ringiovanimento della nazione”, potrebbe rivelarsi un boomerang e contribuire a svelare agli occhi dei lavoratori stessi la loro condizione di marginalità e oppressione nella Cina di oggi.
La reazione della cricca fascista e revisionista al potere è rivelatrice del timore verso la possibilità che gli operai possano organizzarsi nella lotta di classe e che possano addirittura realizzare un'unità militante con gli studenti e conquistare le simpatie dell'opinione pubblica. Al pari degli altri Stati capitalisti, anche il regime cinese è totalmente dalla parte della borghesia industriale: le connessioni fra partito revisionista e borghesia capitalistica sono particolarmente esplicite in questa vicenda, dal momento che Jia Lei, boss di JT, la direttrice del personale Guo Liqun e il marito di questa sono tutti membri del partito e delegati dell'assemblea popolare locale. D'altro canto, questa stessa reazione rivela i limiti soggettivi di almeno parte dei protestanti, che continuano a nutrire una certa fiducia nei vertici del PCC e nel “socialismo” cinese. Sarà l'esperienza della lotta di classe e dello sfruttamento capitalistico difeso dai revisionisti al potere a fare piazza pulita delle illusioni.

5 settembre 2018