Discorso di Erne Guidi, a nome del CC del PMLI, per il 42° Anniversario della scomparsa di Mao
Mao, l'imperialismo e la lotta per il socialismo

Compagne e compagni, amiche e amici qui presenti,
il 9 Settembre 1976, le leggi inesorabili della natura ci hanno privato della guida personale di Mao, ma il suo pensiero, la sua opera, la sua linea politica sono ancora vivi, operanti e presenti, chiedono solo di essere impugnati con forza e con coraggio da tutti gli autentici comunisti affinché il socialismo torni di moda. Per questo siamo ancora una volta qui a commemorarlo su iniziativa del Comitato centrale del Partito marxista-leninista italiano, a cui nome sono onorato di parlare.
Noi non verremo mai meno al giuramento fatto davanti alle spoglie di Mao 42 anni fa, e al proletariato nazionale e internazionale, rinnovato a nome del Comitato centrale nella nostra visita ufficiale a Pechino due anni fa in occasione del quarantesimo della sua morte, e ci batteremo strenuamente, non badando alle difficoltà e alle prove cui andremo incontro, affinché trionfi in Italia il socialismo e il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, studiandolo coscienziosamente, attenendoci scrupolosamente ai suoi insegnamenti e applicandolo alla rivoluzione socialista italiana. Esso illuminerà il cammino del proletariato, delle nazioni e dei popoli oppressi per tutta la nostra epoca, che è ancora quella dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria; esso è stato ed è la nostra ancora di salvezza, il faro che ci illumina il cammino, la teoria che ci dà gli strumenti per capire la realtà, orientare correttamente i nostri passi e battere la classe dominante borghese su tutti i piani, da quello culturale a quello politico, la concezione del mondo che ci consente di trasformare il mondo e noi stessi.
È la storia del movimento operaio e comunista, internazionale e nazionale, e la stessa esperienza del PMLI che hanno dimostrato che solo attenendosi al marxismo-leninismo-pensiero di Mao e applicandolo alla realtà concreta del proprio paese, il Partito marxista-leninista può mantenere il colore rosso e il proletariato può raggiungere tutti i suoi obiettivi immediati, a lungo termine e storici. È esperienza comune e di ogni giorno che se non ci alimentiamo regolarmente col pensiero dei grandi Maestri del proletariato internazionale gradualmente deperiamo ideologicamente e politicamente e finiamo col pensarla come la borghesia e il suo governo, specie quando come oggi spira un forte vento di destra, che ha persino spinto il maggior partito della “sinistra” borghese ad omologarsi alla cultura e alla politica della destra. In questi casi bisogna stringersi in cordata, aiutandosi l’un l’altro, tenendo sempre alte le bandiere dei Maestri e del PMLI per non farsi spazzar via dal vento di destra.
Gli insegnamenti di Mao sono linfa vitale, in Cina, in Italia, come in tutto il mondo. Attaccare, travisare o ridurre il valore della sua opera significa rinnegare anche il pensiero di Marx, Engels, Lenin e Stalin, abbandonare la via rivoluzionaria e cadere nelle grinfie del capitalismo e dell’imperialismo. Noi siamo fieri e orgogliosi dei nostri cinque Maestri, sono la nostra grande forza, l’arma della vittoria del proletariato e di tutti gli sfruttati e gli oppressi. Essi vivono quotidianamente con noi, nella nostra epica lotta contro il capitalismo e l’imperialismo, per conquistare il socialismo e il potere politico da parte del proletariato. Per questo, nonostante le nostre forze limitate, non manchiamo di rendergli solenne e perenne omaggio soprattutto nelle ricorrenze importanti e storiche come sono state il Centenario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre nel novembre dell’anno scorso e il Bicentenario della nascita di Marx a maggio. Per questo noi portiamo con grande orgoglio e profonda gratitudine le loro effigi nelle piazze d’Italia.
 

Mao e l’imperialismo
Chi come il PMLI è nato e cresciuto in mezzo alle tempeste antimperialiste che squassavano gli anni ‘60 e ‘70, quando vede con quale impune tracotanza l’imperialismo la fa da padrone oggi, non può non rendere d’acciaio il suo vincolo di riconoscenza verso Mao. Riconoscenza per l’esempio di una vita leggendaria dedicata alla lotta antimperialista, anticolonialista, antifeudale e rivoluzionaria dei popoli dei cinque continenti, e gratitudine per l’immortale patrimonio di insegnamenti che da ciò ha saputo trarre e trasmettere a noi e alle generazioni future affinché l’imperialismo morda la polvere così come era accaduto in più circostanze quando Mao era in vita.
Mao ha svolto un ruolo fondamentale nella lotta dei popoli contro l’imperialismo sia sul piano ideologico che su quello politico. Egli ha difeso e sviluppato la teoria di Lenin sull’imperialismo e la linea antimperialista e internazionalista proletaria di Lenin e del suo successore Stalin. E lo ha fatto prodigandosi da subito per ispirare l’allora potente movimento comunista internazionale messo alle corde, dopo la morte di Stalin, dai nemici interni, i revisionisti, e esterni della gloriosa Unione Sovietica. Senza l’opera di Mao il revisionismo moderno e l’imperialismo avrebbero imbalsamato il mondo. A partire dal contributo fondamentale per stabilire la verità sui fatti d’Ungheria del ‘56, allo smascheramento del colpo di Stato del rinnegato e traditore Krusciov al XX Congresso del PCUS dello stesso anno, passando dalle Conferenze dei Partiti comunisti di Mosca del 1957 e del 1960, alla ferma e articolata denuncia della falsa “coesistenza pacifica” kruscioviana, alla lotta senza quartiere contro il socialimperialismo sovietico che aveva mostrato il suo vero volto nell’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. E non fu certo un’impresa facile dato l’enorme prestigio storico che godevano il Partito e lo Stato creati da Lenin e Stalin e gli altri partiti e Stati che erano caduti anch’essi nel revisionismo. Si trattava di una lotta titanica. Affermare, come fece Mao nel 1964, constatando che ormai il revisionismo si era totalmente impadronito dell’URSS, che “la salita del revisionismo al potere significa la salita della borghesia al potere” e che “L’Unione Sovietica di oggi è sotto la dittatura della borghesia, una dittatura della grande borghesia, una dittatura di tipo fascista tedesco, una dittatura di tipo hitleriano” , sembrava allora assurdo per molti, ma i fatti dall’invasione della Cecoslovacchia da parte di Breznev e la successiva azione di Gorbaciov e Eltsin hanno drammaticamente dimostrato che si trattava di una pura verità.
Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, gli imperialisti, i borghesi e i fascisti gridarono ai quattro venti che era “caduto il comunismo”. In realtà esso segnava la fine dei regimi revisionisti. Il proletariato internazionale, riguardo alla costruzione del socialismo, ha così fatto una nuova esperienza, anche se amara e pagata con tanto sangue, sacrifici e umiliazioni. La parte più cosciente di esso ha capito che nel socialismo la rivoluzione va portata fino in fondo non scostandosi nemmeno di un millimetro dal marxismo-leninismo-pensiero di Mao e non concedendo niente alla borghesia e al revisionismo. Ora è storicamente provato dove porta il revisionismo, una lezione che non si può e non si deve dimenticare.
Mao ha lottato strenuamente per prevenire la restaurazione del capitalismo in Cina, ma non l’ha potuta evitare perché la morte non gli ha dato il tempo necessario per completare il capolavoro marxista-leninista, senza precedenti nella storia della dittatura del proletariato, che aveva iniziato con la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Essa è la risposta fulminante con cui Mao ha dato corso e linfa vitale alla teoria della continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato e costituisce il modello della continuazione di una tale rivoluzione, così come la Rivoluzione d’Ottobre lo è per la conquista del potere politico. Se grazie a Lenin e alla Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, i popoli del mondo conoscono la via universale della conquista del potere politico, grazie a Mao e alla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, possiedono l’arma capace di prevenire la sconfitta della rivoluzione e dell’edificazione socialista e la restaurazione del capitalismo, e di assicurare un destino storico vittorioso alla società socialista. Insomma come le salve della Rivoluzione russa portarono il leninismo in tutto il mondo, così le gesta e la fama della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria fecero il giro dei cinque continenti, animando le lotte dei popoli e delle nazioni oppresse.
Già prima della lotta senza quartiere al revisionismo moderno e allo smascheramento del socialimperialismo sovietico, Mao aveva dato dei contributi storici alla lotta antimperialista mondiale. Il primo era costituito dall’abbattimento dell’imperialismo, del capitalismo e del feudalismo in Cina, attraverso la rivoluzione più lunga e complessa della storia, e dall’instaurazione del socialismo nel paese più grande e popolato del mondo. Intervenendo a una riunione dell’Ufficio Politico del Partito comunista cinese tenutasi a Wuchang il 1° dicembre 1958 Mao affermò: “… l’imperialismo e tutti i reazionari hanno una duplice natura, sono al tempo stesso tigri vere e tigri di carta. (…) le classi reazionarie, retrograde, decadenti hanno conservato questa duplice natura anche di fronte alle lotte mortali condotte dal popolo. Da un lato, erano tigri vere, divoravano gli uomini, li divoravano a milioni, a decine di milioni. La causa della lotta popolare ha attraversato un periodo di difficoltà e dure prove, e il suo cammino è stato molto tortuoso. Per abbattere il dominio dell’imperialismo, del feudalesimo e del capitalismo burocratico in Cina, il popolo cinese ha impiegato più di cento anni, e ha dovuto sacrificare decine di milioni di vite prima di raggiungere la vittoria nel 1949. Dunque non erano forse tigri vive queste, tigri di ferro, vere tigri? Ma alla fine si sono trasformate in tigri di carta, tigri morte, tigri di ricotta. Questi sono fatti storici. Forse che non si sono visti, non se n’è sentito parlare? E in realtà ce ne sono stati migliaia, decine di migliaia! Quindi, l’imperialismo e tutti i reazionari, valutati nella loro essenza, con criterio lungimirante e da un punto di vista strategico, devono essere visti per ciò che sono: tigri di carta. Su questo si basa il nostro concetto strategico. D’altra parte, essi sono anche tigri vive, vere tigri che possono divorare gli uomini. Su questo si basa il nostro concetto tattico”.
Finché è stato vivo Mao, la Cina è stata il bastione rosso della rivoluzione mondiale. La sua politica estera, elaborata ed ispirata da Mao, poggiava in primo luogo sull’internazionalismo proletario per quanto concerne le relazioni di amicizia, di aiuto reciproco e di cooperazione tra i paesi socialisti e il sostegno della lotta rivoluzionaria dei popoli e delle nazioni oppressi. Esso è il principio fondamentale della politica estera degli Stati socialisti e dei Partiti marxisti-leninisti. Esso è il principio elaborato per la prima volta da Marx ed Engels, sulle cui fondamenta nacque nel 1864 l’Associazione internazionale dei lavoratori, la gloriosa Prima internazionale, e che ispirò nel 1919 anche la nascita e l’operato della Terza internazionale comunista diretta da Lenin prima e da Stalin poi. Il 4 marzo del prossimo anno cadrà il Centenario della sua fondazione e noi marxisti-leninisti italiani non faremo certo passare inosservata tale ricorrenza.
Tale principio nella pratica fu applicato da Mao per la prima volta nel 1951 andando in aiuto al popolo coreano aggredito dall’imperialismo americano. L’internazionalismo proletario di Mao si fonda sulla consapevolezza che il proletariato non potrà mai emancipare se stesso e l’intera umanità se l’imperialismo non viene spazzato via da tutto il mondo. Bisogna perciò schierarsi o a favore o contro l’imperialismo. Non c’è altra scelta. “Noi siamo profondamente convinti – afferma Mao - che per conquistare la vittoria e per consolidarla dobbiamo schierarci da una parte. Alla luce dell’esperienza accumulata… tutti i cinesi, senza eccezione, devono schierarsi o dalla parte dell’imperialismo o dalla parte del socialismo. Una posizione di mezzo non esiste, non c’è una terza strada”.
Ma non basta schierarsi contro l’imperialismo e a favore del socialismo, occorre anche aiutare attivamente chi lotta contro l’imperialismo. Perché, rileva Mao, “la rivoluzione mondiale può avere successo solo se il proletariato dei paesi capitalisti appoggia la lotta di liberazione dei popoli delle colonie e semicolonie, e se il proletariato delle colonie e semicolonie appoggia la lotta di liberazione nazionale del proletariato dei paesi capitalisti”.
In piena epoca del capitalismo, quando esplodevano nei paesi capitalisti le lotte tra il proletariato e la borghesia, Marx ed Engels, per la prima volta nella storia, lanciarono la grande parola d’ordine “Proletari di tutti i paesi, unitevi” . Con essa gettarono le basi dell’internazionalismo proletario.
Entrati nell’epoca dell’imperialismo, conformemente alla nuova situazione internazionale, Lenin rilevò che la lotta delle nazioni oppresse contro l’imperialismo era una componente del movimento rivoluzionario del proletariato mondiale e, conseguentemente, lanciò la grande parola d’ordine “Proletari e nazioni oppresse di tutto il mondo unitevi!” .
Dopo la morte di Lenin, Stalin precisò il senso di questa parola d’ordine, ossia che il movimento di liberazione nazionale deve includere tutte le forze che si oppongono all’aggressione imperialista, senza distinzione di classe, orientamento filosofico e religioso e di punti di vista politici, anche se si oppongono al socialismo. Celebre l’esempio dell’emiro afghano.
Mao ha sviluppato queste parole d’ordine di Marx, Engels, Lenin e Stalin, cogliendo le novità della diversa situazione internazionale, e mirando a formare un fronte unito internazionale il più vasto possibile, con la formulazione della grande parola d’ordine “Popoli di tutto il mondo unitevi!” . Per poi articolarla in momenti diversi: “Popoli di tutto il mondo, unitevi per combattere ogni guerra di aggressione lanciata da qualsiasi imperialismo o socialimperialismo, in particolare una guerra di aggressione condotta con bombe atomiche come armi! Se scoppierà tale guerra, i popoli di tutto il mondo dovranno eliminare la guerra d’aggressione con la guerra rivoluzionaria; la preparazione al riguardo deve essere fatta fin d’ora”. Ed ancora: “Popoli di tutto il mondo, fate affidamento sul vostro coraggio, osate combattere, sfidate le difficoltà, avanzate ondata dopo ondata e il mondo sarà vostro. I mostri saranno tutti annientati”. Fino al: “Popoli di tutto il mondo, unitevi per sconfiggere gli aggressori americani e tutti i loro lacché!”.
Un altro contributo storico alla lotta antimperialista dato da Mao è stato quello sulla coesistenza pacifica tra i paesi a differenti sistemi sociali, sulla base dei cinque principi presentati alla storica conferenza dei paesi afro-asiatici, svoltasi a Bandung in Indonesia nell’aprile del 1955: rispetto reciproco dell’integrità territoriale e della sovranità, mutua non aggressione, reciproca non interferenza degli affari interni, eguaglianza e interessi reciproci, coesistenza pacifica.
Dopo Bandung la Cina di Mao diventa di fatto la guida e il porta bandiera del Terzo mondo, di cui difende strenuamente gli interessi in tutti i consessi internazionali cui partecipa. Anche all’ONU, da quando nel 1971 le viene restituito il seggio al Consiglio di Sicurezza. La linea e la politica antimperialista di Mao hanno dato un enorme e inestimabile aiuto politico, diplomatico, economico, materiale e in armi a tutti i popoli che combattevano per la libertà, l’indipendenza e la sovranità nazionali. In particolare ai popoli del Vietnam, della Cambogia, del Laos, della Palestina, dell’Algeria e del Congo, non mancando mai di far giungere la sua voce personale ai popoli in lotta, attraverso colloqui con i loro dirigenti, messaggi e dichiarazioni.
Specie durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria la Cina di Mao ha dato un multiforme appoggio alle lotte di liberazione nazionale dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e ai movimenti rivoluzionari di massa in Europa occidentale, America del Nord, Canada, Giappone e Oceania.
Mao ha orientato i popoli e i movimenti rivoluzionari facendo duri sforzi teorici e politici affinché i marxisti-leninisti, i rivoluzionari e gli antimperialisti non deviassero nel revisionismo di destra o di “sinistra”. Il che comportava nel primo caso capitolare di fronte all’imperialismo e rinunciare alla lotta armata, e nel secondo caso cadere nel guerriglismo trotzkista e guevarista staccato dalle masse e assolutamente impotente nei confronti dell’imperialismo.
In ogni congiuntura politica Mao ha saputo indicare le contraddizioni fondamentali che esistevano nel mondo e il nemico principale a livello internazionale che bisognava combattere realizzando in ogni caso il più largo fronte unito possibile. Dopo la seconda guerra mondiale, quando l’imperialismo americano spadroneggiava dappertutto, aggrediva i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e fomentava la controrivoluzione nei paesi socialisti, Mao lo indicava come “il nemico comune dei popoli del mondo”. Con la comparsa del socialimperialismo sovietico individuava il nemico comune e principale di tutti i popoli nell’imperialismo americano e nel socialimperialismo sovietico. E quando si rese conto che queste due superpotenze si contendevano l’egemonia mondiale, attraverso l’inedita teoria dei tre mondi elaborata nel 1974, incitava tutti i popoli del mondo e tutti gli altri paesi a coalizzarsi e a lottare assieme contro di esse. In sintesi dopo aver chiamato Primo mondo le due superpotenze, Secondo mondo i paesi imperialisti altamente industrializzati e Terzo mondo le nazioni e i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, Mao giunge alla grande indicazione strategica che il Primo mondo, cioè le due superpotenze, è il nemico principale, il Terzo mondo la forza principale del fronte antiegemonico mondiale, e il Secondo mondo deve essere per lo più guadagnato alla lotta contro il Primo mondo.
Per Mao l’imperialismo, in ultima analisi, non è così potente e invincibile come appare. Può essere sconfitto anche da un piccolo popolo purché questo sia unito, determinato, deciso a impugnare le armi e a proseguire la lotta fino alla vittoria. Al grande raduno di massa in Piazza Tian an Men a Pechino del 20 maggio 1970 Mao lesse una storica dichiarazione in appoggio alla lotta dei popoli del mondo contro l’imperialismo americano: “Un paese debole può vincere un paese forte, e un piccolo paese può vincere un grande paese. Se il popolo di un piccolo paese osa sollevarsi per la lotta, osa impugnare le armi e prende nelle mani il destino del proprio paese, sarà certamente in grado di conquistare la vittoria sull’aggressione da parte di un grande paese. Questa è una legge della storia. Popoli di tutto il mondo unitevi per sconfiggere gli aggressori americani e tutti i loro lacché” . Mentre già nel novembre 1948 nello scritto “Forze rivoluzionarie di tutto il mondo unitevi, per combattere l’aggressione imperialista!” aveva dato indicazioni particolarmente importanti sul ruolo del Partito del proletariato nella lotta antimperialista: “Se si vuole fare la rivoluzione, ci deve essere un partito rivoluzionario. Senza un partito rivoluzionario, senza un partito che si basi sulla teoria rivoluzionaria marxista-leninista e sullo stile rivoluzionario marxista-leninista, è impossibile guidare la classe operaia e le larghe masse popolari a sconfiggere l’imperialismo e i suoi lacché” .
 

L’imperialismo oggi
L’odierna situazione internazionale è radicalmente diversa rispetto a quella che ha lasciato Mao; allora si registrava che la tendenza principale nel mondo era la rivoluzione, il pensiero di Mao e la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria esercitavano una potente influenza sul proletariato internazionale e sui popoli e le nazioni oppresse, nonostante che l’URSS avesse 20 anni prima già ammainato di fatto la bandiera del socialismo e che i revisionisti frenassero ovunque la rivoluzione. Poi si è passati ad un duopolio, con l’imperialismo americano e il socialimperialismo sovietico a contendersi zone di influenza. Dopo il crollo del socialimperialismo sovietico si è assistito al dominio assoluto dell’imperialismo americano con l’affiancarsi di nuovi attori alla superpotenza americana, quella europea e il Giappone. Oggi le forti contraddizioni interimperialistiche presenti in tutto il pianeta dimostrano che l’imperialismo americano fatica ad esercitare il dominio assoluto sul mondo e deve fare i conti con altri attori: l’imperialismo cinese in primis e quello russo. Altro che mondo di pace! Mai come oggi sono presenti, su più fronti, i pericoli di una terza guerra mondiale.
Ancora oggi per una chiara ed esatta chiave di lettura dell’imperialismo occorre rifarsi alla definizione che Lenin diede nella sua magistrale opera del 1916, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Alla faccia di chi ci dà di vetero e di essere perennemente ancorati a dottrine ottocentesche e novecentesche. Con buona pace dei falsi comunisti e di coloro che hanno tentato di confutarlo nel tempo. Il che non significa che alcuni aggiornamenti non siano necessari sulla base dei nuovi avvenimenti. È lo stesso Lenin che ce lo indica, quando sostiene che nessuna definizione ha contenuto scientifico al di fuori del suo quadro di riferimento; troppi elementi dinamici compongono un fenomeno per darne una definizione completa e perenne.
Noi scriveva Lenin, “dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè:
1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione delle merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici”.
La posizione di Lenin sull’imperialismo, quale fase reazionaria del capitalismo in putrefazione, si dimostra oggi più reale che mai. L’imperialismo dei nostri giorni conserva infatti interamente le stesse caratteristiche attribuitegli da Lenin, e la definizione leninista della nostra epoca come epoca dell’imperialismo e delle rivoluzioni proletarie rimane immutabile. La novità, se così vogliamo definirla, è che oggi, la contraddizione tra capitale e lavoro e il ruolo parassitario del capitale si approfondiscono sempre di più. Alcuni azionisti e parassiti che non hanno alcun rapporto diretto con la funzione e l’organizzazione del mondo di impresa, guadagnano profitti astronomici. Grazie a internet e alle nuove cyber tecnologie basta un click di tastiera per spostare milioni e milioni di capitali in pochi secondi in ogni angolo del globo.
Le caratteristiche del capitalismo monopolistico, come definite da Lenin, costituiscono tratti comuni che assimilano gli Stati capitalisti contemporanei del sistema imperialista internazionale. Queste caratteristiche unificanti sono: il dominio dei monopoli, la creazione di un’oligarchia finanziaria, l’importanza crescente dell’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, la competizione nella redistribuzione di nuovi mercati e territori. Alcune analisi sostengono erroneamente che Lenin identificasse l’imperialismo con solo una manciata di potenti Stati imperialisti, le cosiddette grandi potenze. Ma l’analisi leninista non porta affatto all’errata conclusione che solo gli Stati in cima alla piramide imperialista applichino politiche imperialistiche. Basti prendere ad esempio l’analisi odierna degli sviluppi in Medio Oriente e quanto saremmo superficiali e tratti in inganno senza prendere in considerazione i piani e i relativi effetti di Israele, Turchia, Iran e Arabia Saudita sulla regione.
Quello che è certo è che oggi il mondo, grazie al capitalismo e all’imperialismo, continua ad essere contrassegnato dalla fame e dalla povertà. Lo hanno dovuto ammettere gli stessi governanti imperialisti riuniti a Davos in Svizzera al vertice economico mondiale annuale, svoltosi come di consueto a fine gennaio. È impressionante sapere che 8 uomini da soli sono padroni di oltre 400 miliardi di dollari, una montagna di denaro che, praticamente, costituisce la medesima quantità di denaro posseduto da 3,6 miliardi di persone. Ogni due giorni nasce un nuovo miliardario, soprattutto in Cina e Russia. Per cui l’82% dell’incremento della ricchezza globale registrato nel 2017 è stato appannaggio dell’1% della popolazione più ricco, mentre il 50% più povero della popolazione mondiale non ha beneficiato in alcun modo di tale incremento. L’1% più ricco della popolazione continua a detenere più ricchezza del restante 99%. Due terzi della ricchezza dei più facoltosi miliardari del mondo sono ereditati o frutto di rendite monopolistiche quindi il risultato di rapporti clientelari. Nei prossimi 20 anni le 500 persone più ricche del pianeta lasceranno ai propri eredi oltre 2.400 miliardi di dollari, un ammontare superiore al Pil dell’India uno dei paesi più popolati del pianeta con 1,3 miliardi di abitanti. Ancora oggi più di metà della popolazione mondiale vive con un reddito che oscilla tra i 2 e i 10 dollari al giorno. 7 cittadini su 10 vivono in un paese in cui la disuguaglianza di reddito è aumentata negli ultimi 30 anni. Nel 2016 erano 40 milioni le persone schiavizzate nel mercato del lavoro, tra cui 4 milioni di bambini. Il numero di persone con denutrizione cronica è passato dai 777 milioni del 2015 agli 815 milioni del 2016.
La fame, la miseria e le guerre scatenate dall’imperialismo hanno causato una emigrazione biblica, che si riversa nei paesi capitalisti dove gli immigrati trovano l'inferno. Questa situazione è intollerabile. Noi chiediamo ai governi di spalancare le porte agli immigrati e ai profughi e di dire basta al traffico di vite umane. Frontiere aperte per i migranti, uguali diritti per nativi e migranti, chiudere i luoghi di concentramento e detenzione dei migranti, asilo politico per tutti i profughi. Chiediamo l’apertura dei porti europei ai migranti.
Chiudere i porti alle navi cariche di persone in fuga è un crimine contro l’umanità, un’ulteriore picconata al diritto internazionale già ridotto a brandelli. Lo ha fatto il ducetto Salvini, con il pieno appoggio del governo, lo scorso giugno, impedendo alla nave Acquarius con 630 persone disperate a bordo di sbarcare in Italia, tra il plauso del dittatore fascista americano Trump e dei governi razzisti e xenofobi dell’Est europeo del cosiddetto gruppo di Visegrad.
In agosto addirittura, ancora col pieno appoggio del governo, ha tenuto in ostaggio 150 migranti nella nave Diciotti ormeggiata al porto di Catania. Encomiabili ed esemplari le manifestazioni degli antirazzisti siciliani, tra cui i nostri compagni, per liberarli.
Più di 8 anni fa, alla 2° Sessione plenaria del 5° Comitato centrale del PMLI, tenutasi a Firenze il 7 febbraio 2010, il compagno Giovanni Scuderi, Segretario generale del PMLI, ci aveva già indicato la linea giusta sull’immigrazione, allorché affermò che per il PMLI non esistono migranti clandestini e regolari, ma una sola categoria, quella dei migranti, aggiungendo che per noi il razzismo è insopportabile e inammissibile alla pari del fascismo e del nazismo.
Anche l’inquinamento del pianeta, con il saccheggio irresponsabile e indiscriminato delle risorse naturali e la distruzione dell’ambiente, è responsabilità dell’imperialismo. Il precario accordo sul clima di Parigi del 2015 è rimasto pressoché lettera morta, tanto più ora che il presidente americano Trump ha deciso di farne uscire gli USA, che con il suo 18% di emissioni a livello mondiale, una quantità maggiore di tutti i 28 paesi della UE messi insieme e secondo solo al 20% della Cina, è uno dei massimi inquinatori della terra e dell’aria.
 

L'imperialismo americano
In un passaggio della richiamata opera di Lenin sull’imperialismo, il grande Maestro del proletariato internazionale e principale artefice della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre ci dice: “si può immaginare che nel corso di 10-20 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangono immutati? Assolutamente no. Pertanto nella realtà capitalista, e non nella volgare fantasia filistea dei preti inglesi o del ‘marxista’ tedesco Kautsky, le alleanze ‘inter-imperialistiche’ o ‘ultra-imperialistiche’ non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra ’’. Un’affermazione confermata dalla storia, applicabile agli Stati Uniti, che quando Lenin scriveva erano una potenza imperialista nascente e ora stanno subendo un processo simile a quello attraversato dalla Gran Bretagna un secolo fa.
Gli USA tra il 1890 e il 1950 hanno visto una crescita eccezionale della produttività che ha trasformato l’equilibrio delle forze a livello globale. Proprio nel 1890 il senatore dell’Indiana, Albert J. Beveridge disse: “Le fabbriche americane producono più di quanto gli americani possono consumare. Il suolo americano produce più di quanto possiamo consumare. Il destino ha scritto la nostra politica per noi. Il commercio mondiale deve essere nostro e sarà nostro. Dobbiamo stabilire avamposti commerciali in tutto il mondo per la distribuzione dei beni americani”.
Tanto che alla fine della seconda guerra mondiale l’America produceva più del 50% del Pil mondiale con una popolazione di appena 140 milioni di abitanti, poco meno del 6% di quella mondiale. Ciò ha permesso agli USA, dopo la restaurazione del capitalismo in URSS, di dettare la politica economica su scala mondiale e di sostituire il dollaro all’oro come misura universale del valore, le ha permesso di scrivere gli accordi di Bretton Woods e del Gatt, trasformatosi poi nel WTO, perché favorissero la riduzione delle barriere e l’enorme espansione del commercio mondiale. Durante il boom del dopoguerra il Pil degli Stati Uniti crebbe del 250%. Era il periodo della dominazione americana ma anche l’inizio del suo declino. Nel 1980 l’America vantava uno dei più alti tassi di crescita al mondo, ora la produttività ha una crescita sempre più lenta, così come gli investimenti. Come proporzione del Pil mondiale, quello americano passa dal 50% nel 1945 al 22% nel 1980 e rappresenta oggi soltanto il 18%. Ha raggiunto i 18 trilioni di dollari, ma solo 5 trilioni provengono dall’economia reale. Nel periodo 2000-2010, mentre la Cina imperialista cresceva a una media del 10,5%, la crescita USA era dell’1,6%. Seppur gli Stati Uniti siano ancora la prima potenza imperialista a livello mondiale, il numero delle aziende multinazionali cinesi cresce di anno in anno, mentre quelle americane diminuiscono, tanto che oggi si contano 98 multinazionali cinesi contro le 128 degli USA.
Proprio per arrestare questa deriva, rispondere alle nuove aspirazioni di Cina e Russia, e ripristinare la minacciata leadership dell’imperialismo americano nel mondo, i “poteri forti”, economici, finanziari e militari statunitensi, delusi dalla gestione di Obama hanno estratto dal cilindro il dittatore fascista e guerrafondaio Trump, che dalla fine del 2017 ad oggi, sta attuando quanto annunciato nel suo documento sulla “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Dalla fraseologia agli impegni Trump ha posto “l’America prima di tutto”, “America first”. Affinché il paese sia “sicuro, prospero e libero” occorre “la forza e la volontà di esercitare la leadership USA nel mondo”, una decisa e pericolosa spinta in avanti verso le guerre commerciali anticamera di quelle militari che l’imperialismo americano ha messo in atto nella lotta con le altre superpotenze per il dominio del globo. Così dalla presentazione del suo documento a Washington, Trump ha proposto dazi sui beni di consumo provenienti dall’estero, annunciando la produzione e l’inserimento nell’arsenale militare statunitense delle atomiche “leggere”, ribadendo nuove produzioni di missili nucleari, chiamando alla mobilitazione contro i legittimi governi della Repubblica popolare democratica di Corea e dell’Iran, dichiarando criminalmente Gerusalemme capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele, dando la caccia ai miliziani dello Stato islamico per “perseguirli fino a quando non saranno totalmente distrutti”. Il criminale e illegale bombardamento di alcuni siti in Siria del 14 aprile scorso, insieme agli inglesi e ai francesi, ha voluto dimostrare come gli USA possono colpire quando e come vogliono.
Del resto anche i forti investimenti nella difesa, quasi 700 miliardi di dollari nel 2018, sono figli della nuova strategia dell’imperialismo americano annunciata da Trump, perché, sue parole, “Una nazione che non protegge la prosperità a casa non è una nazione che può difendere i suoi interessi nel mondo. Una nazione che non è preparata per vincere una guerra, non è una nazione capace di prevenire una guerra. Finché io sono il presidente i militari e le donne che difendono la nostra nazione avranno l’attrezzatura, le risorse, e il finanziamento di cui hanno bisogno per garantire la nostra patria, per rispondere ai nostri nemici con rapidità e decisione, e, quando necessario di combattere, di sopraffare, e per sempre, sempre, sempre vincere”.
L’alleanza militare con il Giappone del primo ministro Abe, che dopo aver stracciato la Costituzione post bellica punta dritto alla militarizzazione del paese e alla ricostruzione di un forte esercito per garantire l’espansione dei suoi monopoli, e con l’India, che punta al ruolo di grande potenza regionale e non solo, sono viste da Washington in funzione anticinese. Da tempo gli USA premono per far entrare il paese governato da Narendra Modi nel “Nuclear suppliers group”, ossia il gruppo di potenze che controllano l’atomica e costruiranno ora sei reattori nucleari in India per aiutare il paese a ottenere una fornitura di energia elettrica costante e pulita.
Gli Stati Uniti non sono affatto la “patria della democrazia” e dei “diritti civili e umani”. Se un paese non merita di appartenere al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sono proprio gli USA. L’imperialismo americano è il principale violatore dei diritti umani, in casa sua e in tutto il mondo. Guerre di aggressione ingiustificate, bombardamenti contro la popolazione civile, prigioni clandestine che utilizzano i più efferati metodi di tortura, imposizione di misure unilaterali illegali contro le economie di diversi paesi. È l’unico paese che ha osato usare armi nucleari contro un altro popolo, generando centinaia di migliaia di morti. Un paese che calpestando il diritto internazionale ha invaso l’Iraq nel 1991 e nel 2003 coprendosi dietro la falsità della ricerca di armi di distruzione di massa che non hanno mai trovato provocando più di un milione di morti, l’Afghanistan nel 2001, a seguito degli attentati dell’11 settembre, che ha guidato la coalizione internazionale contro la Jugoslavia nel 1999 per stroncare il nascente euro che aveva messo in dubbio il predominio assoluto del dollaro come moneta di riferimento internazionale e per tenere sotto controllo i balcani. Hanno deciso di costruire un muro al confine col Messico e emanato leggi che stabiliscono il pagamento del 7% di tasse sulle rimesse degli immigrati per finanziarlo. Un paese in cui il numero dei senzatetto raggiunge i 3,5 milioni, il 28% delle persone in condizioni di povertà non ha alcuna copertura sanitaria. 10 mila bambini si trovano in carceri per adulti, uno dei pochi paesi al mondo dove i bambini possono essere condannati all’ergastolo. Gli USA sono uno dei 7 paesi al mondo che non ha ratificato la convenzione per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, un paese in cui la discriminazione razziale non solo non è superata, ma esacerbata dalle politiche razziste e xenofobe di Trump, che non ha ratificato l’accordo sul clima di Parigi né tantomeno quello sull’uso delle armi nucleari all’Onu.
Per noi resta attuale l’analisi di Mao fatta l’11 luglio 1956 in una conversazione con dei rappresentanti di alcuni Partiti comunisti latino-americani: “Adesso l’imperialismo americano è molto forte, ma la sua non è una vera forza. Politicamente è molto debole perché è staccato dalle grandi masse popolari, non piace a nessuno, nemmeno al popolo americano. In apparenza è molto forte, ma in realtà non c’è da averne paura, è una tigre di carta… Quando definiamo l’imperialismo americano una tigre di carta parliamo in termini strategici. Da un punto di vista complessivo dobbiamo disprezzarlo, ma in ogni situazione specifica dobbiamo prenderlo sul serio. È dotato di artigli e di zanne. Per venirne a capo bisogna strappargliele una alla volta… Adesso gli Stati Uniti sono molto forti, ma se li consideriamo in un ambito più vasto nell’insieme della situazione e in una prospettiva di lungo periodo, essi sono impopolari, la loro politica non piace perché opprimono e sfruttano i popoli. Per questo la tigre è destinata a morire”.
 

L’imperialismo cinese
La Cina di oggi non è più la Cina di Mao. È un paese capitalista a tutto tondo, una superpotenza imperialista che aspira al dominio del mondo. Dalla salita al potere da parte del rinnegato e traditore Deng Xiaoping nel 1979, con l’elaborazione della teoria del “socialismo di mercato” del “socialismo con caratteristiche cinesi”, definita falsamente una “soluzione strategica di media e lunga durata”, il capitalismo ha conquistato l’immenso paese asiatico. A partire dalla creazione delle cosiddette “Zone economiche speciali” di Deng, nelle quali, specifiche legislazioni economiche favoriscono e incoraggiano l’afflusso di capitale proveniente da multinazionali straniere attraverso una fiscalità vantaggiosa e una larga indipendenza per le imprese, passando dalla cosiddetta “Teoria delle tre rappresentanze” ideata dal successore di Deng, Jang Zemin, che di fatto forniva all’imprenditoria capitalistica ancora maggiore riconoscimento politico e sociale e permetteva l’ingresso sempre più palese di elementi borghesi e anticomunisti all’interno del Partito comunista cinese già compromesso e deideologizzato dalla gestione di Deng, si è arrivati ad oggi dove la Cina guidata dal nuovo imperatore a vita Xi Jinping, così nominato dall’Assemblea nazionale del popolo sostenitrice del capitalismo lo scorso marzo, questo rinnegato a cui non è servita a niente la rieducazione del 1968, durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, insieme al padre, già nel vertice del Partito quale capo del dipartimento di propaganda del PCC, nel campo di lavoro di Liangjiahe, è un immenso campo di sfruttamento selvaggio dei lavoratori e dell’ambiente.
È stato il 19° Congresso del PCC svoltosi nell’ottobre dell’anno scorso a acclamare la sua nuova teoria denominata nel nuovo Statuto del Partito “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Nient’altro che capitalismo e imperialismo sotto mentite spoglie, dove i governanti falsi comunisti cinesi si propongono di far diventare la Cina entro il 2035 “una potenza globale” con un “esercito di livello mondiale”.
Basti pensare che se nel 2005 il numero delle imprese private ammontava a 4,3 milioni, nel 2010 erano 7,5 milioni e nel 2015 ben 12 milioni, contro i 2,3 milioni di imprese statali. Attualmente il 70% della produzione industriale cinese è dovuta a imprese non statali, oltre l’80% della forza lavoro industriale è impiegata nel settore privato. Attualmente in Cina sono presenti ben 400 miliardari, che detengono quasi 950 miliardi di dollari; dati che pongono la Cina al secondo posto tra gli Stati con più miliardari nel mondo, dietro agli Stati Uniti, e che testimoniano come l’accumulazione della ricchezza nel paese abbia raggiunto livelli impressionanti, tali da creare un’oligarchia finanziaria che di fatto detta la linea allo Stato e al suo governo. Nel 2012 l’1% della popolazione cinese possedeva già oltre il 33% della ricchezza, mentre il 25% più povero meno del 2%.
Se questi dati ci dicono come in Cina il ritorno al capitalismo sia pressoché completato, altri ci dimostrano come il paese sia ormai giunto anche alla fase imperialista. Nel 2015 l’esportazione cinese di capitali aveva superato l'ammontare del capitale straniero nel paese. Nel 2017 la Cina è risultata essere il più grande esportatore di capitale in Africa. Da stime recenti si apprende altresì che la Cina ha fatto più prestiti in America Latina della Banca mondiale, della Banca interamericana di sviluppo e della Banca degli Stati Uniti per l’import-export messe assieme.
Per quanto riguarda l’energia due società cinesi, la China Petroleum and Chemical Corporation e la China National Petroleum Corporation, rispettivamente quarta e terza società al mondo per ricavi nel 2015, si collocano tra le maggiori al mondo nel campo del petrolio e del gas. Mentre nel settore bancario la Cina vanta 4 delle 10 banche più potenti al mondo, la Industrial and Commercial Bank of China è la più grande banca al mondo per capitale. La sua moneta, lo yuan, fa ormai parte del paniere delle divise che compongono il sistema dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale.
Il predatore Chem China, che valeva 39 miliardi di dollari nel 2014, fa incetta di imprese europee in Francia, Germania, Svizzera e Italia, investe in Israele e acquista porti navali, come il Pireo di Atene. Il processo di accumulazione di capitali le ha fornito le risorse finanziarie per acquisire imprese dinamiche e all’avanguardia all’estero, come la KOKA, la più innovativa società di ingegneria della Germania. Scienziati cinesi e austriaci hanno lanciato con successo il primo sistema di comunicazione satellitare via quantum, a prova di hackeraggio, garantendo la sicurezza delle comunicazioni della Cina.
Di fatto oggi la Cina contende agli Stati Uniti il ruolo di prima economia del mondo; nel 2000 l’economia USA era il 31% di quella mondiale, mentre quella cinese era ferma al 4%. Oggi gli Stati Uniti sono scesi al 24% e la Cina è salita al 15. È il primo attore del commercio internazionale, il primo detentore dei risparmi, il primo paese come investimenti esteri in entrata e in uscita, il primo finanziatore dei progetti al di fuori dei confini nazionali, il primo mercato delle materie prime.
Ma è con la cosiddetta “Nuova via della seta” che l’imperialismo cinese intende affermarsi nel mondo. Annunciata da Xi Jinping nel 2013, partendo dallo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e logistica, la strategia di Pechino mira a favorire i flussi di investimenti internazionali e gli sbocchi commerciali per le produzioni cinesi. Il catalizzatore sarà la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture, dotata di un capitale di 100 miliardi di dollari, di cui la Cina è il principale socio con un impegno pari a 29,8 miliardi, insieme ad altri paesi asiatici, tra cui l’India e la Russia, e dell’Oceania che contribuiranno per 45 miliardi. Anche l’Italia si è impegnata a sottoscrivere una quota di 2,5 miliardi.
La “Via della seta” terrestre attraverserà tutta l’Asia Centrale arrivando dalla Cina fino alla Spagna. Quella marittima costeggerà tutta l’Asia Orientale e Meridionale, arrivando fino al Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. La mastodontica operazione imbastita dal socialimperialismo cinese coinvolgerà fino a 65 nazioni, più di metà della popolazione mondiale, tre quarti delle risorse energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale; rappresenterà il più grande progetto di investimento mai compiuto prima, superando di almeno 12 volte il Piano Marshall dell’imperialismo americano all’indomani della seconda guerra mondiale.
Nel momento stesso in cui in Canada a giugno si spaccava il G7 sulla questione dei dazi, a Pechino Cina e Russia stipulavano nuovi accordi economici. La Cina è il primo partner commerciale della Russia e questa è il primo fornitore energetico della Cina. L’interscambio tra i due paesi salirà quest’anno a circa 100 miliardi di dollari. Mentre Cina e Russia cooperano allo sviluppo della “Nuova via della seta” attraverso 70 paesi di Asia, Europa e Africa, il progetto viene osteggiato da Washington e Bruxelles, tanto che 27 dei 28 ambasciatori della UE a Pechino sostengono che questa operazione dell’imperialismo cinese viola il libero commercio e mira a dividere l’Europa.
L’imperialismo cinese svolge un ruolo da protagonista nel blocco dei BRICS, l’Associazione di cinque paesi tra le maggiori economie emergenti, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che si propone di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati sul petrodollaro, così come nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), di cui sono membri anche la Russia, l’India e il Pakistan e vari Stati dell’Asia Centrale. Pechino sta altresì negoziando con almeno sedici paesi per formare il Partenariato economico globale regionale (Rcep), una zona di libero scambio che esclude gli Stati Uniti, proposta già nel 2012 in risposta al Tpp, creando il più grande blocco commerciale del mondo per popolazione. Troviamo la lunga mano cinese anche nell’appoggio all’occupazione imperialistica in Afghanistan, di cui appoggia il governo fantoccio del presidente Ghani, che ha aperto le porte al grande capitale cinese che sta facendo affari d’oro nella ricostruzione del paese oltre a depredarne le ingenti fonti di rame, dietro il paravento della lotta contro il traffico della droga e della lotta al terrorismo islamico.
Gli artigli di Pechino si stanno conficcando nel continente africano. Per sostenere la rapida crescita economica la Cina ha sempre più bisogno di risorse naturali di cui l’Africa dispone in abbondanza e la cui estrazione e trasformazione è resa possibile dalle nuove infrastrutture costruite da società cinesi. Gli accordi con l’Unione Africana per la realizzazione di infrastrutture e partnership industriali di oltre 40 miliardi di dollari, segnatamente in Algeria, Sudan, Mauritania, Ciad, Congo e Angola, funzionali all’esportazione di capitale cinese e a privare questi paesi di ingenti ricchezze, mentre quel che resta ai paesi depredati non va certo a finire nelle tasche delle popolazioni locali ma in quelle dei corrottissimi notabili africani, visto che anche ove i cinesi reclutano forza-lavoro autoctona lo fanno in cambio di salari di fame e di condizioni considerate disumane. Sempre in Africa, a Gibuti, troviamo anche una grande base militare cinese con circa 10.000 soldati e navi da guerra veloci. Quest’enclave ha un’enorme importanza strategica. Attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb passa la strada che collega l’Europa con il nord e ad est con il golfo di Aden, la più importante rotta marittima che collega l’Africa con l’Asia. Di fatto la Cina vuole mantenere le sue vie di trasporto sicure e anche garantire la produzione di petrolio che il Sudan esporta in Cina. Cinque giorni fa al Forum di cooperazione Africa-Cina Xi ha annunciato che la Cina investirà altri 60 miliardi di dollari in Africa.
In Groenlandia, la più estesa isola del mondo, aspira ad acquisire una base marina dismessa e il 60% del progetto minerario della Shengh Resources, ora ne possiede il 12,5%, per avere il dominio dello sfruttamento dell’uranio e terre rare cruciali per i cellulari.
Dati esplicativi, quelli fino a qui esposti, che tolgono ogni dubbio sul fatto se la Cina di oggi sia o no imperialista. Lo diciamo ai sinceri comunisti e fautori del socialismo ancora impantanati in falsi partiti comunisti che cercano di accreditare la Cina come un paese socialista. Ce lo insegna Lenin. Nell’articolo “Pacifismo borghese e pacifismo socialista” redatto a Zurigo il 1° gennaio 1917 scrive a riguardo: “Gli imperialisti ‘respingono’ mille volte l’’idea’ di annettersi e subordinare finanziariamente i popoli deboli, ma non è forse necessario opporre le parole ai fatti, da cui risulta che ogni grande banca di Germania, d’Inghilterra, di Francia, degli Stati Uniti tiene in soggezione i piccoli popoli? Può un governo borghese di un paese ricco del nostro tempo respingere nei fatti le annessioni e la subordinazione economica dei popoli stranieri, quando miliardi e miliardi vengono investiti nelle ferrovie e nelle altre imprese dei popoli deboli? ”.
Il socialimperialismo cinese sta facendo grandi passi in avanti anche nel campo militare, tanto da essere ormai diventata le seconda potenza militare del mondo. L’annuncio dell’ulteriore aumento delle spese militari dell’8,1% (rispetto al 7% del 2017) è figlio del progetto di dotare questa superpotenza di un forte esercito in grado di difendere i suoi interessi all’interno ma soprattutto all’estero. Con Xi Jinping la chiave del riarmo cinese è diventata quella navale, che consente di proiettarsi ben oltre i suoi confini. Una dottrina ufficializzata con un “Libro bianco” del maggio 2015, per la prima volta dedicato alla strategia militare. Per mostrare i muscoli alle altre potenze imperialiste il governo di Pechino ha da tempo schierato missili sulle isole Paracels, in una delle zone politicamente più calde dell’Asia, sulla cui sovranità si scontrano Cina, Vietnam, Filippine e Taiwan, tutti convinti di avere il diritto di controllare questa fetta del Pacifico, sue navi da guerra sono presenti nel Golfo di Aden, in Patagonia, grazie ad un accordo col governo argentino ha costruito una stazione di vigilanza dell’emisfero Sud.
Piani ambiziosi che potrebbero crollare rovinosamente visto che le stesse contraddizioni sociali create dall'economia di mercato cinese sono sull’orlo di esplodere ora che non c’è più la roboante crescita economica dei primi anni 2000 a sostenere l’”armonia sociale”: le previsioni di crescita del Pil per il 2018 sono del 6,5% dopo il 6,9% del 2017, con un livello di disuguaglianza sempre più accentuato, mentre l’aria, l’acqua e il suolo sono spaventosamente inquinati. Per questo la cricca revisionista e fascista di Xi sta cercando di liberarsi dalla dipendenza sulle esportazioni promuovendo un’economia maggiormente basata sul mercato interno e sullo sviluppo del capitale cinese anziché straniero.
Una cappa di piombo opprime il popolo cinese, tuttavia in questi ultimi anni a migliaia si susseguono le azioni di lotta dei lavoratori. In agosto studenti e marxisti-leninisti sono scesi in piazza con ritratti di Mao in solidarietà con i lavoratori della Jesic in lotta per dar vita a un sindacato.
 

L’imperialismo russo
Forte del suo ruolo svolto in Siria e nell’intero Medio Oriente, l’imperialismo russo è tornato prepotentemente a far sentire la sua voce nel mondo.
Dopo aver stabilizzato il capitalismo russo, dividendo il blocco degli oligarchi che sostenevano il precedente regime di Eltsin, e che con la loro politica di saccheggio del paese e di esportazione massiccia di capitali, sia legale che illegale, avevano messo in ginocchio l’economia nazionale e il rublo, costringendoli a tornare ad investire all’interno del paese, il nuovo zar del Cremlino, l’ex “kaghebista” Putin ha rilanciato il ruolo di superpotenza della Russia. Passando dagli interventi militari in Georgia, Ossezia del Sud e Abkhazia, tenendo botta sull’Ucraina e annettendosi la Crimea.
Il prepotente ingresso nel conflitto siriano, con l’appoggio decisivo al governo di Assad, gli è valso il ruolo di gendarme del Medio Oriente e del Nord Africa. Strappando Assad dall’isolamento e dalla sicura caduta del suo regime antipopolare e reazionario, Putin ha evitato anche il proprio isolamento, perseguito in particolare dall’imperialismo americano con le sanzioni per l’annessione della Crimea e per quella del “caso Skrypal”.
Il 23 agosto in risposta alle sanzioni degli USA, la Russia ha abbandonato il dollaro come mezzo per gli scambi commerciali internazionali.
Garantendo Assad, con il sostegno dell’asse sciita Iran-Hezbollah, il Cremlino ha garantito se stesso e il rinnovato ruolo internazionale della superpotenza russa, ora fisicamente presente nella regione con basi militari stabili. In Siria, infatti, gli è stata concessa una strategica base aerea a Latakia e una marina a Tartus, sul Mar Mediterraneo, obiettivo primario di imposizione della propria presenza nella regione fin dall’ingresso nella guerra siriana a settembre 2015.
La Russia si è abilmente infilata in ogni spazio lasciato libero dagli Stati Uniti, che si tratti di “mediazione” nel conflitto siriano o di sostegno alle forze curde in procinto di essere abbandonate da Washington. Ha cementato un rapporto sempre più stretto con l’Egitto del golpista al-Sisi, che ha accettato di ospitare navi e jet da guerra russi in basi da aprire lungo la costa egiziana e che ha firmato contratti da miliardi di dollari per l’acquisto di armi russe, elicotteri e caccia. Finalizzando altresì, alla fine del 2017, un accordo miliardario per la costruzione della Russia di una centrale nucleare a Dabaa, la prima dell’Africa del Nord.
E poi l’accordo col dittatore fascista turco Erdogan di vendita del sistema missilistico difensivo S-400, il più avanzato dell’industria militare russa. Vendita che si somma all’aumento del 30% degli scambi commerciali con Ankara che hanno fatto ben presto dimenticare la disputa di quasi due anni a causa del diverso schieramento nella guerra siriana e l’abbattimento di un jet russo da parte dei caccia turchi.
In funzione antiamericana il nuovo zar del Cremlino ha stretto rapporti di alleanza strategica con il suo compare cinese Xi Jinping. A partire dalla “Via della seta”. L’8 giugno i due leader imperialisti hanno siglato una dichiarazione comune “di buon vicinato, amicizia e cooperazione” che rafforza l’alleanza globale tra le due superpotenze per la governance mondiale.
Putin al suo quarto mandato presidenziale, nel discorso pronunciato il 1° marzo scorso davanti all’Assemblea federale della Russia ha illustrato le nuove armi strategiche definite “invincibili” e “invulnerabili”, preparando la Russia non per la difesa ma per una possibile guerra contro l’imperialismo americano. Dai droni sottomarini e missili ipersonici a quelli intercontinentali da crociera, alle armi al laser. Tant’è che il nuovo programma statale della Difesa per il periodo 2018-2027 avrà un budget di 400 miliardi di dollari. Il Cremlino ha già collaudato in Siria gran parte delle nuove armi e apparecchiature militari che saranno disponibili nei prossimi anni per l’esercito e il mercato mondiale. Sul campo mediorientale è stata condotta dai vertici militari di Mosca una valutazione completa di armi e di attrezzature in condizioni di combattimento ed ambientali definite estreme. Il collaudo ha coinvolto la robotica, i sistemi di puntamento “intelligenti”, la difesa degli aerei dagli incendi. Intanto il portfolio ordini dell’export militare russo sarebbe oggi di 50 miliardi di dollari. Mentre la colonizzazione dell’Artico da parte russa, iniziata dal 2007, in concorrenza con USA e Cina, seppur coperta dai propositi di ricerca geografica, punta a creare nell’area una flotta nucleare.
La Russia ha anche riconquistato il ruolo di potenza energetica su scala internazionale, dopo che la secessione di alcune importanti regione petrolifere come l’Azerbaigian e il Kazakistan e le tormente degli anni novanta ne avevano indebolito la portata. Attraverso la leva del gas e del petrolio la Russia ha ottenuto importanti risultati di ordine economico e strategico, stringendo un cappio intorno al collo di molti paesi dell’Est europeo fino alla Germania, così come in quelli dei Balcani fino alla Grecia, tutti dipendenti dalle sue forniture. All’interno di questo nevralgico settore spicca l’azienda controllata dallo Stato, in particolare dall’entourage di Putin, Gazprom, la terza impresa mondiale per capitalizzazione con poco più di trecento miliardi di dollari. Con l’Unione economica euroasiatica, il progetto di integrazione economica regionale fortemente voluto dalla Russia che dal 2015 unisce Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan, l’area egemonizzata da Mosca è diventata la prima produttrice al mondo di petrolio, la seconda di gas naturale e la quarta di energia elettrica.
Il 12 agosto, dopo 22 anni di trattative, la Russia ha stipulato con l’Iran, l’Azerbaigian, il Kazakistan e il Turkmenistan una Convenzione sullo stato giuridico del mar Caspio che vieta a paesi terzi, quindi a USA e NATO, quella zone di mare. Inoltre tale divieto consente alle navi russe di rimanere invulnerabili alle flotte di altri paesi ostili tra cui gli USA e la Gran Bretagna, mentre i radar della Federazione russa mantengono sotto controllo una gran parte del Medio Oriente, incluso il Golfo Persico.
Fra due giorni, la Russia farà le prove di guerra più grandi dal 1981, coinvolgendo truppe cinesi e mongole.
All’interno della Russia le devastazioni economiche e sociali dovute al passaggio totale al capitalismo non sono certo state sanate, mentre l’introduzione di sanzioni internazionali e il crollo dei prezzi del petrolio iniziato nel 2014 hanno intensificato il calo della produzione. Alla fine del 2015 il rallentamento dell’economia russa era segnato da un -3,7% del Pil. Così il numero di persone con un reddito sotto la soglia di povertà è passato da 16,1 a 19,2 milioni, cioè il 13,4% della popolazione. Il 73% dei russi non ha risparmi, costretto a spendere l’intero salario per sopravvivere mese per mese. Nel 2016 i disoccupati ufficiali erano già il 6% della forza lavoro. Il 10% dei redditi più alti supera di 14,5 volte il 10% dei redditi alla base della piramide capitalista.
 

L’imperialismo israeliano, turco, iraniano, saudita
Il Medioriente e tutta l’area del Golfo Persico non è solo teatro di scontro tra USA e Russia, al suo interno sono diversi gli imperialismi regionali che si confrontano per l’egemonia. Nella regione non vi è dubbio che gli Stati Uniti si trovino al punto più basso del proprio potere d’influenza dal 1990. Nella fase di agonia del socialimperialismo sovietico Washington acquisì il pieno controllo della situazione mediorientale. Ma oggi la Russia esce come la grande vincitrice in tutta questa situazione, dalla Siria alla Libia. Mosca ha cominciato ad intervenire direttamente in Siria con la sua aviazione nel 2015. All’epoca l’amministrazione Obama diede il benvenuto all’interventismo russo con il pretesto che la Russia avrebbe combattuto la guerra contro lo Stato islamico.
L’imperialismo sionista e nazista di Israele rimane il più armato e il più pericoloso. Esso iniziò a svilupparsi dal 1980 con la privatizzazione delle grandi imprese statali e delle banche per poi passare all’esportazione di capitali in altri paesi. Il capitale straniero è iniziato ad affluire copioso tanto che nel 2016 ha superato la cifra dei 100 milioni di dollari. Oggi l’elenco dei 2.000 monopoli più grandi del mondo include 10 multinazionali israeliane, dei settori farmaceutico, bancario, chimico, petrolifero e del gas. La Teva Pharmaceutical Industries è uno dei 500 maggiori gruppi internazionali. Nelle 100 compagnie militari più grandi del mondo ci sono 3 aziende di difesa israeliane.
L’esercito di Israele con 170mila uomini e 600mila riservisti e il più numeroso del mondo in percentuale sulla popolazione e occupa il 16° posto su 136 Stati in termini assoluti. Tel Aviv investe nell’esercito tra i 7 e i 10 milioni di dollari all’anno, ben il 9% del pil, di cui 4 provengono dalle casse degli USA. Per questo le armate sioniste sono equipaggiate con armamenti altamente tecnologici come i droni armati e possiede 200 bombe atomiche. Sono oltre 50 anni che Israele produce armi nucleari nell’impianto di Dimona, costruito con il supporto di Stati Uniti e Francia. Esso non viene sottoposto a ispezioni in quanto lo Stato sionista non aderisce al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, che invece l’Iran ha sottoscritto 50 anni fa. Altresì le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico della NATO, nel quadro del “Programma di cooperazione individuale”, e pur non essendo membro dell’Alleanza atlantica imperialista, Israele ha ottenuto una missione permanente nel quartier generale di Bruxelles.
L’imperialismo israeliano tramite il boia Netanyahu si fa quotidianamente beffa del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’ONU che periodicamente negli anni sono state approvate ma mai riconosciute e attuate dai nazisti di Tel Aviv, che oltre che a reprimere nel sangue da decenni le aspirazioni e la lotta dell’eroico popolo palestinese, puntano a stabilizzarsi nel nord dell’Iraq, ad espandersi in Siria dove mantiene l’occupazione delle alture del Golan e in Libano, per contendere il petrolio e il gas presente copiosamente nella regione alle altre potenze mondiali e locali.
Condanniamo in questa sede la “legge-base” approvata dal parlamento israeliano il 18 luglio che sancisce che “Israele è uno Stato solo ebraico”, istituendo ufficialmente l’apartheid come forma di Stato basato sul razzismo, sancendo l’inferiorità politica, sociale, culturale e religiosa dei cittadini delle minoranze non ebraiche, a partire dalla popolazione araba-palestinese che rappresenta circa il 20% dell’intera popolazione di 8 milioni di abitanti. Il regime sionista ha gettato la maschera ipocrita dell’”unica democrazia del Medio Oriente”, proclamando il suo diritto a fare di Israele una nazione di ebrei “puri”, preannunciando una nuova pulizia etnica di stampo nazista ai danni dei palestinesi nativi come quella che portò alla sua fondazione nel 1948.
Non meno ambizioso e pericoloso è l’attuale regime fascista turco di Erdogan, rieletto presidente lo scorso 24 giugno, che ha assunto poteri assoluti all’interno in base alla nuova costituzione turca appositamente modificata. Successore dell’impero ottomano la Turchia si considera una potenza globale. Ha istituito una base militare in Qatar e intervenuta in Siria. Nel mare Egeo fa la voce grossa speronando navi greche e a Cipro impedisce l’attività alle navi locali e estere impegnate nelle perforazioni di gas.
Nonostante sia membro della NATO, nell’autunno del 2016 irritata dall’appoggio di Washington alle forze curde in Siria, la Turchia sulla questione siriana si è alleata con la Russia di Putin.
L’occupazione della città curda di Afrin del 18 marzo scorso da parte dell’esercito turco non è che l’ultimo atto di un’escalation militarista e imperialista in Siria, iniziata dall’agosto 2016 con l’operazione “Scudo dell’Eufrate”. L’obiettivo di Ankara è quello di creare una “fascia di sicurezza” di 30 chilometri che funga da zona cuscinetto al suo confine meridionale, spezzando la contiguità territoriale curda, e collocandosi altresì in una situazione in cui gli interessi di Turchia, Russia e Iran convergono sulla spartizione delle zone di influenza del nord-ovest della Siria, dopo che lo stesso regime di Assad si è impegnato militarmente a eliminare la presenza dei combattenti antimperialisti islamici di Tahrir al-Sham (l’ex al-Nusra) dal suo centro principale di Idlib.
Dall’inizio di questo secolo la Turchia ha incrementato i suoi rapporti commerciali e d’affari con il Medioriente, portandoli da 9 a 70 miliardi di dollari. Il sostegno al governo regionale del Kurdistan iracheno di Masoud Barzani passa da lucrativi progetti su energia e costruzioni.
Il crollo della lira turca ad agosto, che ha perso più del 40% dall’inizio dell’anno, accelera il processo di nuove alleanze dell’imperialismo turco. Erdogan nell’attaccare duramente gli USA ritenendoli responsabili della crisi economica e finanziaria del paese, il colpo di grazia alla moneta turca è arrivato subito dopo l’annuncio dell’inasprimento dei dazi su acciaio e alluminio dalla Turchia deciso da Trump, ha parlato di “coltellata alle spalle” e che “Risponderemo a chi ha iniziato una guerra commerciale contro il mondo intero, inclusa la Turchia, virando verso nuove alleanze”. Tanto che col pretesto di un bilaterale sulla Siria il ministro degli Esteri russo Lavrov all’indomani era già nella capitale turca. Anche la Cina apre all’alleanza con la Turchia “senza precondizioni”, seguita da Iran e Qatar.
Intanto in risposta alle sanzioni statunitensi la Turchia ha aumentato drasticamente i dazi su 22 tipi di merci americane, soprattutto sulle importazioni di tabacco, superalcolici, automobili, cosmetici, riso e frutta.
Oggi l’Iran espande il proprio potere, la sua influenza e il suo interventismo diretto nella regione. Il suo progetto è quello di controllare il Medio Oriente con due “mezzelune sciite”: la prima che parte da Teheran e, attraverso l’Iraq, arriva fino in Siria e in Libano. La seconda muove dal Bahrein e, attraverso lo Yemen, giunge fino al Mar Rosso. L’ingiusto embargo dei paesi imperialisti contro l’Iran per il suo programma nucleare civile ha pesato sull’economia iraniana, assieme alla caduta del prezzo del petrolio che ha ridotto le entrate del bilancio statale. Grazie all’accordo sul dossier nucleare dell’estate del 2015, lo scorso maggio stracciato da Trump, che ha tra l’altro rimosso l’embargo petrolifero dell’Europa, il Pil ha ricominciato a correre ma a beneficiarne non sono state certo le larghe masse in lotta contro il carovita e la politica dei tagli imposti dal governo Rouhani.
L’aggressione dell’Arabia saudita al confinante Yemen per tenere in piedi il governo del presidente Hadi, che sarebbe già caduto sotto l’offensiva delle forze della minoranza sciita Houthi guidata dal movimento Ansar Allah, dura da oltre tre anni con un immane bilancio di vittime civili che supera le 13mila persone di cui 5mila bambini. Un’aggressione che continua grazie all’appoggio militare e politico dei complici e protettori imperialisti USA e UE che già avevano spinto la monarchia reazionaria wahabita dei Salman a guidare la coalizione sunnita contro lo Stato islamico, e che vogliono imporla come potenza imperialista egemone nell’area, a fianco dei sionisti di Israele, in funzione anti Iran. Il regno saudita è sempre più preoccupato dall’espansionismo iraniano, prima in Iraq, poi in Siria, fino al Libano. Ora c’è un corridoio controllato dagli iraniani che va da Teheran a Beirut, con la presenza militare iraniana diretta e indiretta. I sauditi sono estremamente preoccupati per questo, perché loro considerano l’Iran il loro nemico per eccellenza dal 1979, allorché la rivoluzione islamica abbatté la monarchia dello scià.
Il riarmo dell’Arabia saudita, da sempre sostenuto dalle amministrazioni americane, è proseguito con Trump che ha firmato l’ultimo contratto di vendita di armi per un valore di 110 miliardi di dollari; altre armi sono state vendute dai paesi europei, Italia compresa. Non per nulla Ryad è tra i primi tre paesi al mondo con il più alto rapporto percentuale tra spese militari e Pil, un valore superiore al 10%. Intanto gli accordi tra le multinazionali locali e quelle statunitensi ammontano a oltre 200 miliardi di dollari. Tra cui la compagnia petrolifera Saudi Aramco che ha firmato accordi per 50 miliardi di dollari con le società statunitensi, e un altro accordo tra la Saudi Basic Industries Corporation e l’American Exxon Mobil, una società diretta fino a poco tempo fa dall’ex segretario di Stato americano, Rex Tillerson, è stato siglato per costruire un complesso chimico da 20 miliardi di dollari.
 

L’imperialismo europeo
Nata in funzione degli interessi dei rispettivi monopoli che stanno dietro ai governi nazionali e ne dettano la linea per potersi espandere e conquistare nuovi mercati, l’Unione europea è fonte di dominio, oppressione, rapina e sfruttamento dei popoli degli Stati che la compongono, ma anche di quelli dell’Est europeo e dei Balcani che non ne fanno parte e del Terzo mondo. Tutto il suo operato è stato a beneficio del grande capitale a cui ha regalato un mercato unico, che rimane ancor oggi il più grande del mondo, prima, e una moneta unica e una Banca centrale poi, offrendo alle multinazionali europee un trampolino per espandersi a livello mondiale e che hanno obbligato i paesi aderenti a perseguire politiche ferocemente liberiste e antipopolari. L’UE è un inferno per la classe operaia, i lavoratori e le masse popolari. Povertà e disoccupazione vanno a braccetto con le differenze territoriali, con il razzismo e la xenofobia che bersagliano le decine di migliaia di migranti che bussano alle sue porte.
La riduzione della spesa pubblica, per rientrare nel famigerato rapporto deficit/Pil imposto da Bruxelles, si è tradotta in tagli drastici ai servizi essenziali, quali pensioni, istruzione, sanità, trasporto pubblico, ricerca scientifica, infrastrutture necessarie allo sviluppo, assistenza e previdenza, mentre non sono state minimamente toccate le voci di spesa riguardanti, a vario titolo, dallo Stato alle grandi imprese e alle banche private, o le missioni di guerra imperialista in ogni parte del mondo, l’acquisto di nuove armi, o le “grandi opere” inutili per i popoli ma utili ai profitti delle multinazionali del vecchio continente.
La borghesia e i suoi lacché presentano l’Unione europea come una conquista dei popoli del vecchio continente. In realtà i popoli non c’entrano un bel nulla, perché tutto è stato compiuto e si compirà al di sopra delle loro teste dai circoli dominanti borghesi europei conformemente ai loro interessi di classe e alle loro aspirazioni egemoniche, regionali e mondiali. Anzi, quelle pochissime volte che sono stati interpellati i popoli dell’UE hanno sonoramente bocciato l’Europa imperialista nei referendum svoltisi in Francia, Olanda, Irlanda e Grecia.
Un anno fa, il 26 settembre 2017 in un discorso alla Sorbona di Parigi il presidente francese Macron, il nuovo De Gaulle, ha rilanciato l’UE con esercito e polizia comune, con l’obiettivo di consentire all’Unione europea imperialista di essere competitiva con USA, Russia e Cina. Mentre al G7 dell’8 e 9 giugno scorso Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia hanno fatto muro all’attacco americano al commercio tra le due sponde dell’Atlantico. La voce dell’imperialismo europeo sembra voler tornare a farsi sentire dopo gli ultimi decenni in cui l’euro non è riuscito a soppiantare il dollaro come moneta di riferimento mondiale, e la più devastante crisi economica del capitalismo mondiale dal 1929, l’ha messa in ginocchio dal punto di vista economico, politico, istituzionale e militare. Rispetto alle altre superpotenze l’UE appare oggi la più debole e più in difficoltà, messa sotto pressione dall’arroganza e dalle misure commerciali ostili di Trump e anche da Putin. Quest’ultimo fa affari in particolare con la Germania della Merkel, ma non disdegna di sostenere le forze di destra cosiddette “euroscettiche”, compresa la Lega di Salvini, forze in diversi casi apertamente fasciste.
Tuttavia passata la bufera quest’Unione imperialista di 28 Stati europei, 27 dopo che sarà ratificata l’uscita della Gran Bretagna, è tornata ad alzare la voce nel mondo, rimettendo le mani sull’Africa, stanziando quasi 200 milioni di euro per la nuova forza “anti-terrorismo” nel Sahel. Intanto la Francia, che punta a svolgere un ruolo egemone nell’UE, sta incrementando la già considerabile presenza nei paesi già sue colonie, tanto che da quest’anno ha 4.000 soldati di stanza in Mali e altre unità militari in Ciad, Burkina Faso, Niger e Costa d’Avorio.
All’interno della NATO gli è stata riconosciuta una maggiore autonomia. All’ultimo vertice di luglio a Bruxelles i governanti dei paesi imperialisti dell’Alleanza atlantica hanno infatti riconosciuto l’importanza di una difesa europea più forte e più efficace, evidenziando nel comunicato finale: “Lo sviluppo di capacità di difesa coerenti, complementari e interoperabili, evitando inutili duplicazioni, è essenziale per i nostri sforzi congiunti volti a rendere più sicuro lo spazio euro-atlantico”. Un tema sviluppato qualche giorno dopo dal Consiglio europeo tenutosi sempre a Bruxelles. Come recita il documento finale “L’Europa deve assumersi maggiori responsabilità per la sua stessa sicurezza e rafforzare il proprio ruolo di attore e partner credibile e affidabile nel settore della sicurezza e della difesa. L’Unione sta pertanto predisponendo misure per potenziare la difesa europea, incrementando gli investimenti nel settore, lo sviluppo delle capacità e la prontezza operativa. Queste iniziative accrescono la sua autonomia strategica integrando e rafforzando, nel contempo, le attività della NATO”.
Questa maggiore autonomia della difesa dell’UE sta particolarmente a cuore al presidente della Repubblica francese Macron che aspira ad egemonizzare l’UE sottraendola alla guida della Merkel. Il 3 agosto alla conferenza stampa col suo omologo finlandese ha dichiarato: “Vogliamo che l’Europa abbia un’autonomia strategica e difensiva per ricostruire complessivamente l’architettura europea della sicurezza, con la necessità di ripensare le nostre relazioni con la Russia”. In questo quadro Macron si propone di rafforzare il trattato fondatore dell’UE per includere una clausola di solidarietà automatica che sarebbe vincolante con tutti gli Stati membri.
Già l’ambizioso guerrafondaio dell’Eliseo ha promosso una “Iniziativa di intervento europeo”, una “Coalizione di volenterosi” di cui fanno parte Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Estonia, ai quali si unirà in autunno la Finlandia. Il compito di questa alleanza militare è quella di reagire a situazioni vicine ai confini europei senza l’assistenza della NATO e degli USA.
Tuttora all’interno dell’imperialismo europeo, mentre tutti sono d’accordo sulla necessità di rafforzarsi dal punto di vista militare e della politica estera e che l’UE parli al mondo con un’unica, forte e autorevole voce presidenzialista e imperialista, permangono contraddizioni su vari punti, a partire dall’immigrazione, dove dilagano nazionalismo, razzismo e xenofobia, al rapporto con la Russia di Putin, alle tappe mancanti dell’unione economica e monetaria. Tanto che spesso si formano nuclei separati di alcuni paesi che si riuniscono separatamente per spingere nell’una o nell’altra direzione. La Germania continua a essere il cuore dell’imperialismo europeo ed ha cooptato intorno al suo progetto buona parte delle classi dominanti degli altri Stati membri. Ne è il cuore perché ha il sistema produttivo e tecnologico capitalistico superiore agli altri. Ma ha anche necessità di forza-lavoro a buon mercato, meglio se qualificata come buona parte dei profughi siriani accolti nel paese, e perché la competizione globale ha reso meno vantaggiosa la delocalizzazione produttiva in altre aree.
L’UE è irriformabile, bisogna distruggerla, cominciando a tirarne fuori l’Italia. Per le stesse ragioni essa è inutilizzabile da parte del Partito del proletariato. Le sue istituzioni sono antidemocratiche e nemiche dei popoli. Nella primavera del 2019 si terranno le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo. Noi rifiutiamo l’UE per principio e quindi non possiamo legittimarla presentandoci con nostre liste. Di fronte alle elezioni europee non si può ricorrere a un astensionismo tattico come per le elezioni nazionali ma strategico, poiché il nocciolo della questione rimane la scelta a favore o contro la UE e non quella di dove collocarsi politicamente ed elettoralmente all’interno di essa. Tanto più ora che in Europa spira forte il vento delle destre fasciste, razziste e xenofobe al governo in diversi paesi dell’Est e del Nord che stanno trattando per unirsi nel nuovo gruppo “Europa dei popoli – Lega dei popoli”, in cui il ducetto Salvini ha come obiettivo dichiarato quello di portare almeno 30 europarlamentari.
Parlare di “rivoluzione democratica”, di “istituzioni al servizio delle libertà pubbliche e dei diritti sociali” come hanno fatto nella Dichiarazione di Lisbona dello scorso aprile il “Bloco de Esquerda” del Portogallo, “La France Insoumise” di Jean Luc Melenchon, già esponente del partito socialista, e lo spagnolo “Podemos”, a cui ha aderito “Potere al popolo”, o di “disobbedienza costruttiva che disattenda le regole più inique” dei Trattati europei, proposto da “Primavera europea”, la lista transnazionale, alla quale ha aderito il sindaco di Napoli De Magistris, lanciata da dall’ex ministro greco Janis Varoufakis con il movimento europeo DiEM25, è puro inganno, che serve unicamente ad offrire una copertura a “sinistra” all’imperialismo europeo, dare ad esso, coscienti o meno, una base di massa e spingere in una palude gli antimperialisti, gli antifascisti, i no global e i pacifisti. Non è sufficiente “rompere” i trattati dell’UE o parlare di uscire dall’euro, occorre uscire dall’UE imperialista e dire basta a fare l’opposizione di sua maestà. Il punto focale che i falsi comunisti, i neorevisionisti e i trotzkisti eludono è capire e far capire che solo il socialismo è in grado di realizzare l’Europa dei popoli, di abbattere tutte le barriere siano esse fisiche o economiche, perché il proletariato andrà al potere, i prodotti del lavoro potranno essere goduti interamente dal popolo lavoratore, sviluppate le conquiste sociali, economiche e politiche, costruito un nuovo ordine sociale sulle ceneri di quello capitalistico e imperialistico. Battersi per l’Europa socialista rimane un nostro dovere, noi faremo fino in fondo la nostra parte finché un giorno venga instaurata la Repubblica socialista d’Europa. Ma sarà impossibile passare pacificamente a questa nuova Europa se non si realizzerà il socialismo nei singoli paesi dell’UE, a cominciare dall’Italia.
 

Il pericolo di una terza guerra mondiale
Come abbiamo visto nell’attuale sistema imperialista internazionale cresce il capitale accumulato che non trova sbocchi di investimento redditizio. In questo contesto crescono i conflitti tra i paesi imperialisti per il controllo e la redistribuzione dei mercati, le fonti di energia e in generale dei territori con grande rilievo economico. Le superpotenze imperialiste sono unite nel depredare le ricchezze dei paesi del mondo e nel soggiogare i rispettivi popoli, ma si dividono quando si tratta di spartirsi il bottino.
Le contraddizioni interimperialiste sfociano inevitabilmente in guerre economiche, commerciali e finanziarie come accade tutt'oggi e possono generare anche guerre militari finanche mondiali come è accaduto nel passato. La tendenza attuale va in quella direzione. Il rinnegato Xi, per ingannare e disarmare i popoli, invece sostiene “che la pace e lo sviluppo rimangono la tendenza di fondo dei nostri tempi”, come ha detto al Forum sulla cooperazione Cina-Africa.
Se attualmente la contraddizione principale interimperialista è quella tra USA e Russia, strategicamente lo sarà con la Cina. Lo stesso Trump ha descritto la superpotenza cinese come “un avversario strategico”, mentre già con l’amministrazione di Obama, nel 2013, gli USA avevano deciso lo spostamento del 60% del proprio apparato militare in Asia e nel Pacifico entro il 2020.
Anche dal Pentagono sono convinti di questo. Secondo il rapporto annuale sugli sviluppi militari cinesi, presentato il 17 agosto al Congresso di Washington dal Dipartimento della Difesa, “Negli ultimi tre anni la Cina ha allargato rapidamente le aree operative dei suoi bombardieri, guadagnando esperienza in regioni marittime critiche e probabilmente addestrando ad attacchi contro gli USA e i suoi alleati”. La Cina secondo il Pentagono “sta lavorando su bombardieri strategici a lungo raggio invisibili con una capacità nucleare che potrebbe essere operativa nei prossimi 10 anni”, in aggiunta a quelli già in uso. “Il dispiegamento e l’integrazione di bombardieri con capacità nucleari doterebbe la Cina, per la prima volta, di una ‘triplicità’ di sistemi di lancio diffusi su terra, mare e aria”. Insomma secondo la Difesa USA, Pechino sta attuando “la più completa ristrutturazione della sua storia per diventare una forza capace di combattere operazioni congiunte”.
Le ripetute guerre commerciali tra la Cina e gli Stati Uniti, tra gli Stati Uniti e l’Unione europea, tra l’UE e la Russia, tra gli USA e la Turchia, sono una diretta conseguenza dello scontro in atto a livello mondiale. Dall’inizio di quest’anno il dittatore fascista di Washington ha imposto dazi su circa 50 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Dazi al 25% sulle importazioni di acciaio e al 10% sulle importazioni di alluminio da Europa, Canada e Messico. Cina e Unione europea hanno risposto innalzando barriere alle vendite di auto e altri prodotti americani. Per Trump “Quando un Paese perde molti miliardi di dollari nel commercio con praticamente ogni Paese con cui fa affari, le guerre commerciali sono giuste”. Mentre per la cancelliera tedesca Angela Merkel “Vale la pena di fare ogni sforzo per disinnescare questo conflitto e impedire che diventi una guerra, ma è necessario che tutte le parti collaborino”.
Oggi i pericoli di guerra imperialista mondiale sono i più gravi dalla fine degli anni ‘80. “La guerra – spiega Mao “Sulla guerra di lunga durata” nel maggio 1938 – è la continuazione della politica con altri mezzi. Quando la politica raggiunge un certo stadio del suo sviluppo che non può essere superato con altri mezzi abituali, scoppia la guerra per spazzare via gli ostacoli che impediscono il cammino”.
Nel dicembre 1936 in “Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina” Mao spiega anche come ci si può liberare dalla guerra: “La guerra, questo mostro che porta gli uomini a massacrarsi gli uni con gli altri, finirà con l'essere eliminata dallo sviluppo della società umana, e in un futuro non molto lontano. Ma per eliminarla vi è un solo mezzo: opporre la guerra alla guerra, opporre la guerra rivoluzionaria alla guerra controrivoluzionaria, opporre la guerra nazionale rivoluzionaria alla guerra nazionale controrivoluzionaria, opporre la guerra rivoluzionaria di classe alla guerra controrivoluzionaria di classe. La storia conosce solo due tipi di guerre: le guerre giuste e le guerre ingiuste. Noi siamo per le guerre giuste e contro le guerre ingiuste. Tutte le guerre controrivoluzionarie sono ingiuste, tutte le guerre rivoluzionarie sono giuste.
E sempre “Sulla guerra di lunga durata” del maggio 1938 aggiunge: “Quando l’umanità avrà eliminato il capitalismo, raggiungerà l’epoca della pace perenne e non avrà più bisogno delle guerre. Non ci sarà più bisogno di eserciti, di navi da guerra, di aerei militari né di gas asfissianti. Dopo di allora l’umanità non conoscerà mai più la guerra”. Quanto possa essere fatale e distruttiva una terza guerra mondiale lo ha dimostrato la “guerra d’annientamento” guidata dagli Stati Uniti a capo della santa alleanza imperialista contro lo Stato islamico in Siria e Iraq, che ha avuto il criminale corollario imperialista alla fine del 2017 nella battaglia per “liberare” Raqqa dallo Stato islamico. In un suo rapporto la stessa Amnesty International ha accusato Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia di aver provocato centinaia di morti civili e un numero molto più grande di feriti durante i quattro mesi in cui hanno bombardato questa città. Più in generale secondo l’organizzazione Airways, tra l’agosto 2014 e il febbraio 2018 i civili uccisi dalla santa alleanza imperialista sarebbero oltre 6.200. “Quello che ha devastato la città e ucciso e ferito così tanti civili – si legge ancora nel rapporto – è stato l’uso ripetuto delle armi esplosive da parte della coalizione guidata dagli USA contro aree popolate dove si sapeva che c’erano civili intrappolati. Abbiamo visto un grado di distruzione che non può essere paragonato a quello che abbiamo trovato da decenni”. Giungendo alla conclusione “che le azioni della coalizione a Raqqa dovrebbero essere potenzialmente considerate come una violazione dei diritti umani e in alcuni casi indagate come crimini di guerra”.
Pericoli di guerra si avvertono a partire dal continente asiatico. Navi da guerra USA sono penetrate all’interno dell’arcipelago delle Spratly nel Pacifico, intorno all’isolotto creato da Pechino. Quel corridoio marittimo è uno dei più frequentati del mondo, utilizzato soprattutto per il traffico di petroliere tra il Medio Oriente e il Giappone. La Cina ha risposto con il posizionamento di missili e lo schieramento della sua flotta. Pericoli di conflitti che devasterebbero il Medioriente e lo scenario mondiale sono dati dalle ripetute provocazioni dei sionisti israeliani, spalleggiati dagli USA, contro l’Iran. Compresa la decisione del parlamento di Tel Aviv del 30 aprile scorso che ha dato carta bianca al boia Netanyahu per dichiarare guerra o ordinare l’avvio di un’operazione militare senza il suo consenso.
L’attivismo della NATO, che secondo la sua carta costitutiva non avrebbe più senso di esistere dopo il crollo del socialimperialismo sovietico, è foriero di nuove guerre in Europa e nel mondo.
Le sue esercitazioni militari indicano la preparazione di nuovi interventi imperialisti in Libia e il rafforzamento del suo ruolo in Siria, mentre il rafforzamento delle flotte nel mare Egeo, i nuovi passi verso il suo rafforzamento nel Mar Baltico, l’attivazione dello scudo antimissile in Romania, le nuove basi in Ungheria, lo schieramento di una brigata corazzata USA in Polonia, il lavoro per incorporare l’Ucraina, sono indicativi dell’escalation nell’aggressione euroatlantista. Altresì il 31 maggio scorso, rompendo con la proclamazione dell’America latina e dei Caraibi zona di pace, la Colombia è entrata a far parte della NATO come “partner globale”; una decisione pericolosa per il Venezuela, da tempo nel mirino dell’imperialismo USA, che condivide migliaia di chilometri di frontiere. E pochi giorni dopo, a giugno al vertice dei ministri della Difesa, ha annunciato la creazione di un nuovo comando negli USA e uno in Germania per avere “le forze giuste, nel posto giusto e al momento giusto”, confermando che l’alleanza imperialista è presente a Est per contenere la Russia e in Iraq e Afghanistan per combattere lo Stato islamico. Decisioni ratificate il 12 luglio a Bruxelles dal vertice dei capi di Stato e di governo, che ha rilanciato la guerra al terrorismo, ossia ai movimenti islamici antimperialisti, specialmente allo Stato islamico e confermato l’impegno di tutti i componenti ad aumentare la spesa militare al 2% del Pil.
Insomma la NATO può intervenire dentro e fuori i suoi confini dove e tutte le volte che ritenga minacciate la “stabilità e la sicurezza” degli alleati, in tutti i campi e settori, in maniera unilaterale e insindacabile. In questo scenario non c’è una ragione una che giustifichi la sua esistenza. La NATO va sciolta. Occorre battersi affinché l’Italia esca da questa alleanza imperialista, iniziando dallo smantellamento delle sue basi logistiche e militari presenti nel nostro Paese, che già più di una volta sono servite da trampolino per aggressioni militari a Stati e popoli sovrani. A partire dall’hub di Napoli, che il primo ministro Conte vuole invece rafforzare, come ha spiegato il 12 luglio a Bruxelles: “è un passaggio molto importante perché significa rafforzare il presidio sul fronte Sud dove le minacce per il terrorismo sono molto importanti e significative”. La parola d’ordine “Via l’Italia dalla NATO. Via la NATO dall’Italia” resta più attuale che mai.
È un dato di fatto che ormai oggi le potenze imperialiste fanno e disfanno come vogliono, in base ai loro esclusivi interessi economici, politici, commerciali, militari e diplomatici, non curandosi della legalità internazionale e dell’ONU. Questa ONU, che non risponde più all’esigenza della sua costituzione, ha fatto il suo tempo e va sciolta. Dopo l’avallo dell’aggressione alla Federazione jugoslava, dopo che non ha mosso un dito sulla prima e la seconda guerra del Golfo, dopo che consente a Israele di disattendere tutte le sue risoluzioni sulla Palestina, l’ONU ha perso ogni credibilità e funzione. Bisogna finirla una volta per tutte col culto di questa organizzazione imperialista che non è affatto qualcosa di sacro. Occorre una nuova organizzazione mondiale, senza membri permanenti e privilegiati, senza diritto di veto, con uguali diritti e doveri, fondata sui principi sempre più attuali enunciati a Bandung dalla Cina di Mao. Una volta assicurato il loro rispetto, essa potrà svolgere un ruolo positivo e benefico nella risoluzione delle dispute internazionali, le controversie politiche, di confine, economiche, finanziarie e commerciali. Tanto prima i popoli del mondo e soprattutto dei paesi più poveri e depredati dall’imperialismo faranno questo passo rivoluzionario tanto prima romperanno le catene dello sfruttamento e dell’oppressione imperialista.
I marxisti-leninisti e i sinceri comunisti devono lottare con decisione in modo che la classe operaia e le masse lavoratrici e popolari non seguano la classe borghese, non restino intrappolati e non si schierino con una delle parti in competizione tra alleanze imperialiste. Solo in questa condizione, possono utilizzare le contraddizioni tra i paesi imperialisti a beneficio degli interessi dei popoli, imparando da Mao, rovesciare con una azione rivoluzionaria la classe borghese in ogni paese.
Come ci insegna Mao tutti i popoli del mondo devono unirsi per combattere l’imperialismo. Ciascun popolo deve mettere nel mirino il “proprio” imperialismo. Noi dobbiamo sostenere tutti i popoli che combattono l’imperialismo indipendentemente dalle forze anche anticomuniste che li dirigono. Per questo abbiamo appoggiato e appoggiamo lo Stato islamico contro la santa alleanza imperialista e continuiamo ad appoggiare i movimenti islamici antimperialisti che ancora combattono e non si sono arresi. Pur non condividendo i loro attentati terroristi ai civili.
Marx nel 1857, nell’articolo pubblicato sulla “New York Daily Tribune” del 16 settembre dal titolo “La rivolta anticoloniale dei sepoys in India”, analizzando la ribellione dei soldati indigeni inquadrati nell’esercito di occupazione britannica, ha spiegato perché gli anticolonialisti possono usare forme di lotta non condivisibili: “Le violenze commesse dai sepoys in India sono invero atroci, mostruose, ineffabili… Per quanto abominevole, la condotta dei sepoys non è che il riflesso, in forma concentrata, della condotta degli stessi inglesi in India … per caratterizzare la quale basti dire che la tortura formava un istituto organico della politica finanziaria del governo. V’è nella storia qualcosa di simile alla legge di compensazione: e uno degli articoli di questa legge è che il suo strumento sia forgiato non dagli oppressi, ma dagli oppressori”.
Noi siamo al fianco dell’eroico popolo palestinese contro la repressione e lo sterminio dei sionisti e nazisti israeliani, che hanno estromesso con la violenza e il terrorismo le popolazioni arabe autoctone della Palestina, cacciate a forza dalle loro case e dalle loro terre e costrette da allora a vivere come esuli all’estero o come schiavi sotto l’occupazione militare israeliana. Nel ribadire la nostra posizione due popoli uno Stato, appoggiamo la formale denuncia presentata dall’Autorità nazionale palestinese contro Israele per crimini di guerra alla Corte penale internazionale dell’Aja, in seguito alle stragi compiute dall’esercito sionista tra aprile e maggio scorsi lungo i reticolati del lager di Gaza sui manifestanti palestinesi che denunciavano l’occupazione e contro il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.
Siamo al fianco dei movimenti islamici che lottano contro l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’imperialismo americano e della NATO.
Siamo al fianco del popolo del Venezuela nella sua lotta contro le sanzioni e il blocco economico perpetrato dagli USA che emula quello imposto a Cuba ormai da oltre 50 anni, e condanniamo l’attentato golpista al presidente della Repubblica Nicolàs Maduro del 4 agosto. Siamo al fianco del popolo della Repubblica popolare democratica di Corea che deve sopravvivere alle sanzioni decise dall’imperialismo per strangolarlo. Siamo con il popolo del Nicaragua massacrato dal traditore della “rivoluzione” Ortega.
Noi siamo al fianco del popolo catalano in quanto sosteniamo il diritto all’autodeterminazione in quanto nazione.
Noi siamo al fianco del popolo curdo sparso in Siria, Iraq e Iran che lotta contro l’oppressione dei governi di quei paesi. Nel passato lottava per l’indipendenza nazionale ma poi le forze riformiste e opportuniste che lo guidano l’hanno costretto a rinunciarvi. Soprattutto per responsabilità di Öcalan, che è passato dal “marxismo-leninismo” all’anarchismo e all’ecologismo del trotzkista americano Murray Bookchin.
In Siria tali forze sono state strumentalizzate dagli USA per strappare Raqqa e altre città allo Stato islamico, per poi essere abbandonate e date in pasto a Erdogan e Assad. Il governo di Rojava si è addirittura piegato al diktat di Assad “o negoziato o guerra” rendendosi disponibile ad avere un “colloquio incondizionato” col governo siriano.
 

L’imperialismo italiano
Il capitalismo italiano non produce soltanto disuguaglianza sociali e territoriali ma anche guerre e fascismo. Qualunque sia il governo della destra o della “sinistra” borghesi che ne cura gli interessi e gli affari. Da quello del neoduce Berlusconi che portò al potere i fascisti storici di Fini a quelli con la presenza di partiti che si definivano comunisti. Nessuno scrupolo ci fu ad esempio nel 1999 a partecipare all’aggressione imperialista della Federazione jugoslava da parte del governo del rinnegato D’Alema appoggiato dall’allora partito falso comunista di Diliberto, Cossutta e Rizzo.
Per partecipare alla spartizione del bottino il capitalismo italiano ha partecipato a due guerre mondiali sacrificando la vita di centinaia di migliaia di giovani, di operai e contadini. Sempre assecondato dai monarchi di casa Savoia, ha dato vita addirittura a un impero attraverso le colonie dell’Eritrea nel 1890, della Somalia nel 1905, della Libia nel 1912, dell’Etiopia nel 1936 e dell’Albania nel 1939. Il fascismo mussoliniano portò alle estreme conseguenze i piani di conquista dell’imperialismo italiano. Il suo programma di espansione conteneva amplissime rivendicazioni e si estendeva in pratica a tutto il Mediterraneo, che la propaganda fascista, facendo riferimento al diritto “storico” che risaliva ai tempi dell’antica Roma, aveva chiamato “mare nostrum”, nei Balcani e nel bacino danubiano, dove però trovò l’opposizione sia delle potenze occidentali che della Germania di Hitler. L’Italia fascista quindi pose al primo posto nei suoi piani aggressivi l’allargamento dei possessi coloniali in Africa.
A dimostrazione dei crimini storici dell’imperialismo italiano nel mondo sentite cosa scriveva Lenin sul numero 129 della “Pravda” pubblicato il 28 settembre 1912 nell’articolo “La fine della guerra dell’Italia contro la Turchia”: “Che cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e dei capitalisti italiani, che hanno bisogno di un nuovo mercato, hanno bisogno dei successi dell’imperialismo italiano. Che cosa è stata questa guerra? Un macello di uomini, civile, perfezionato, un massacro di arabi con armi ‘modernissime’. Gli arabi si sono difesi disperatamente. Quando, al principio della guerra, gli ammiragli italiani, imprudentemente, hanno fatto sbarcare 1.200 marinai, gli arabi hanno attaccato e ne hanno uccisi circa 600. Per ‘punizione’ sono stati massacrati quasi 3.000 arabi, si sono depredate e massacrate famiglie intere, massacrati bambini e donne. Gli italiani, una nazione civile e costituzionale. Circa mille arabi sono stati impiccati… Certo, l’Italia non è né migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti, tutti egualmente governati dalla borghesia, la quale, per una nuova fonte di profitti, non indietreggia davanti a nessuna carneficina” .
Negli anni della Repubblica l’Italia capitalista ha continuato a partecipare alle guerre imperialiste per la spartizione del mondo e per il saccheggio delle materie prime e delle risorse dei paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Nel 2011 ha partecipato all’aggressione militare alla Libia. E oggi è in prima linea in Europa, Africa e Asia, dove operano forti contingenti militari, per combattere lo Stato islamico e l’immigrazione. Tanto che lo stesso segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nello scorso giugno non si è potuto esimere dal complimentarsi con la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, per il ruolo fondamentale e di prima linea dei militari italiani in Afghanistan e Lettonia. Ben 35 sono attualmente le missioni internazionali di guerra in 24 Stati a cui partecipa l’Italia, con quasi 7.000 unità impegnate al costo di oltre 1.500 milioni di euro all’anno.
Dal 31 dicembre 2016, in sordina e nel silenzio generale, tanto che in pochi tuttora lo sanno, l’imperialismo italiano si è dotato di una legge per la guerra. Una Legge, la 145/2016, dello Stato per l’invio di contingenti militari all’estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell’articolo 11 della Costituzione. L’attivismo dell’imperialismo italiano nel mondo l’ha resa inevitabile.
Anche l’attuale governo nero fascista e razzista Salvini-Di Maio, non sfugge alle ambizioni e obiettivi storici dell’imperialismo italiano. Formalmente intestato al tecnocrate borghese Giuseppe Conte, è un mostro che ha già fatto scempio della Costituzione del ‘48 e rafforzato la seconda repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista. La sua politica estera, illusoriamente attesa come di rottura con il passato, a partire dalla diversa collocazione nell’Unione europea definita “delle banche e della tecnocrazia di Bruxelles” fino all’altrettanto illusoria “uscita dall’euro”, si è immediatamente attestata e ancorata alla continuità imperialista. A partire dalla convinta partecipazione alle alleanze della NATO e dell’UE, agli USA come “alleato privilegiato”, alla conferma della partecipazione alle missioni imperialiste in Iraq e Afghanistan. “Sono impegni che sono stati assunti – ha affermato il nuovo primo ministro Conte alla conclusione del vertice NATO di Bruxelles il 12 luglio – e noi ci inseriamo in un percorso già tracciato. Ogni governo eredita delle linee di continuità. In particolare nell’ambito della NATO sono impegni che abbiamo assunti e che esprimono un valore strategico che non possiamo trascurare”.
Intanto nel vertice alla Casa Bianca del 30 luglio Conte ha incassato l’appoggio di Trump su migranti e Libia. Addirittura l’Italia sarà partner privilegiato degli Stati Uniti per il “Mediterraneo allargato”. “Da oggi – ha affermato Conte – abbiamo un fatto nuovo, significativo: una cabina di regia permanente Italia-USA nel Mediterraneo allargato, è una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa punto di riferimento in Europa e interlocutore privilegiato per le principali sfide del terrorismo e di tutte le crisi del Mediterraneo, con particolare riguardo alla Libia”. Una logica conclusione visto come negli ultimi anni il rapporto tra l’Italia e la leadership di Tripoli si è notevolmente rafforzata. Tanto che l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha ufficializzato il via al progetto di Baha Essalam Fase 2, ossia lo sviluppo del più grande giacimento di gas in produzione in Libia. L’Italia però, come dimostrano gli avvenimenti di questi ultimi giorni, deve fare i conti con la Francia di Macron che le contende l’egemonia sulla Libia e il suo petrolio e gas.
Il riconoscimento degli USA del ruolo di punta dell’imperialismo italiano in Nord Africa, il ruolo chiave in Libia e nel “Mediterraneo allargato”, accresce le sue ambizioni, in quanto il Mediterraneo preso insieme ad altre aree ed altri bacini ad esso vicini o collegati culturalmente, politicamente e geograficamente, diventa il centro di interessi strategici fondamentali. Il “mare nostrum” infatti non si ferma a Gibilterra, ma arriva all’Atlantico finendo alle Canarie e alla costa occidentale dell’Africa settentrionale. A nord-est il confine arriva direttamente in Crimea mentre penetra in Medio Oriente, Mar Rosso e Corno d’Africa.
Il contributo più grande, più concreto e più efficace che noi marxisti-leninisti italiani possiamo dare alla lotta contro l’imperialismo è quello di combattere con tutte le nostre forze contro l’imperialismo italiano e il governo Salvini-Di Maio che ne regge le sorti, fino a buttarlo giù. Insieme alla lotta per abbattere il capitalismo e il potere della borghesia e conquistare il socialismo e il potere politico del proletariato. L’unico modo possibile per cambiare realmente e radicalmente l’Italia. Insomma come recita il lungimirante documento del Comitato centrale del PMLI sul nuovo governo del 5 giugno “Bisogna fermarlo! Non solo i marxisti-leninisti, i fautori del socialismo e gli anticapitalisti, ovunque organizzati, i partiti con la bandiera rossa e la falce e martello, ma anche gli antifascisti consapevoli e informati hanno il dovere storico di unirsi per sbarrare la strada ai fascisti del XXI secolo. Uniamoci per buttar giù il governo nero fascista e razzista Salvini-Di Maio, poi ciascuno andrà per la sua strada. Chi cercherà di ammorbidire gli effetti del capitalismo, e chi come il PMLI, lotterà per abbattere il capitalismo e il potere della borghesia e conquistare il socialismo e il potere politico del proletariato. L’unico modo possibile per cambiare realmente e radicalmente l’Italia, come dimostra anche la storia politica del nostro Paese in cui si sono succeduti tanti tipi di governo, compresi quelli con la presenza di partiti che si definivano comunisti, senza che sia cambiato nulla.
Il nostro auspicio – conclude il documento del CC - è che i riformisti di sinistra in buona fede, a cominciare da quelli che teorizzano e praticano il mutualismo assistenziale anarchico e proudonhiano, capiscano che il riformismo, il parlamentarismo, l’elettoralismo, il governismo, il costituzionalismo bloccano lo sviluppo delle coscienze di classe e rivoluzionarie del proletariato, delle masse e dei giovani, e quindi vi rinuncino e si uniscano al PMLI sulla via dell’Ottobre verso l’Italia unita, rossa e socialista”.
Noi marxisti-leninisti non accetteremo mai che l’Italia partecipi, da sola o insieme ad altri, a nuove aggressioni imperialiste e agiremo di conseguenza come abbiamo sempre fatto nel passato. Denunciando e smascherando politicamente l’imperialismo, partecipando attivamente ai movimenti di massa contro la guerra imperialista, chiedendo al governo nostrano il ritiro di tutte le forze militari ancora impegnate nelle missioni imperialiste in tutto il mondo. Vanno chiuse le basi NATO e USA in Italia, a cominciare da quella di Sigonella.
Il nostro popolo che ha una grande esperienza di lotta armata antifascista e antinazista, qualora fosse coinvolto dall’attuale governo o da un suo successore in una guerra mondiale deve infuocare le piazze fino a impugnare con forza le armi per impedirlo.
Per far fronte a questi gravosi compiti, che possono adempiere solo dei marxisti-leninisti preparati ideologicamente, politicamente e organizzativamente, occorre assolutamente dare al PMLI un corpo da Gigante Rosso. Il compagno Scuderi, all’ultima sessione plenaria del 5° Comitato centrale del Partito, ha detto che cosa è necessario fare concretamente per realizzare questo obiettivo strategico a breve e medio termine. Mettiamocela tutta per attuarlo, ciascuno dando il meglio secondo le proprie capacità e condizioni, consapevoli che dal compimento di questo obiettivo strategico passa il salto di qualità rivoluzionario della lotta di classe.
Chi vuol fare come Mao e condivide la linea del PMLI venga a darci una mano prendendo posto nel PMLI o al suo fianco. C’è posto per tutti gli autentici rivoluzionari e fautori del socialismo, specie se operaie e operai, ragazze e ragazzi. Non c’è cosa più bella e utile che dare la propria vita per l’Italia unita, rossa e socialista.
Con Mao per sempre!
Abbasso l’imperialismo e la guerra imperialista!
Viva l’internazionalismo proletario!
Viva la guerra di liberazione antimperialista dei popoli e delle nazioni oppressi!
Buttiamo giù il governo nero fascista e razzista Salvini-Di Maio!
Avanti con forza e fiducia sulla via dell’Ottobre verso l’Italia unita, rossa e socialista!
Coi Maestri e il PMLI vinceremo!

12 settembre 2018