Guerra fredda tra le due superpotenze imperialiste
Gli Usa accusano la Cina di essere all'origine del coronavirus
Pechino: “Solo bugie, dove sono le prove?” L'Ue chiede un'indagine indipendente

 
Giusto quattro mesi fa, il 15 gennaio, Usa e Cina firmavano alla Casa Bianca un accordo non di pace ma di tregua nella guerra commerciale a colpi di dazi tra le prime due superpotenze imperialiste mondiali. Nel momento in cui l’economia americana iniziava a dare segnali di rallentamento, l'impegno della Cina a aumentare le importazioni di prodotti agricoli dagli Usa rappresentava per Donald Trump un risultato da spendere con ampio risalto nella già iniziata campagna elettorale per le presidenziali del prossimo novembre. Ma l'atmosfera da passaggio “storico” dipinta dal presidente americano e la sottolineatura che “Cina e Usa possono appianare le differenze e trovare soluzioni ai problemi basate sul dialogo” del vice premier cinese Liu He sono già un ricordo sbiadito; il 15 maggio la Casa Bianca annunciava nuove sanzioni contro il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei, accusato di aggirare i controlli americani sulle esportazioni, e Pechino rispondeva minacciando ritorsioni con la sospensione degli acquisti di aerei Boeing e l'avvio di indagini sul comportamento su sicurezza informatica e regole antitrust di società statunitensi come Qualcomm, Cisco e Apple che dipendono fortemente dal mercato cinese. La ripresa della guerra commerciale, preludio di un conflitto economico globale, è comunque solo un aspetto di quella che è oramai definita una guerra fredda tra le due superpotenze imperialiste, uno scontro a tutto campo che Trump ha riacceso accusando la Cina di essere responsabile dell'epidemia e alimentando la vergognosa guerra con Pechino ma anche contro gli alleati europei, per comprare a suon di milioni di dollari l'esclusiva sul futuro vaccino.
Trump ha gestito la crisi sanitaria in modo arrogante e disastroso per le masse popolari; pur sapendo che il sistema sanitario privato americano avrebbe abbandonato alla sorte milioni di americani delle fasce più povere, tanto da mettere in conto almeno 100 mila morti, trattava l'epidemia come fosse una comune influenza primaverile che a suo dire sarebbe finita entro Pasqua e assisteva all'impennata della disoccupazione, facilitata dalla mancanza di qualsiasi protezione sociale. Questo comportamento e le avvisaglie della prossima crisi economica alla quale la Casa Bianca si presenta già con un debito federale che supera il record della Seconda Guerra Mondiale, portavano tra le altre a una significativa caduta di consensi dell'aspirante al secondo mandato presidenziale; il suo slogan di mantenere al primo posto nel mondo l'America non aveva la presa di un tempo. Per recuperare, niente di meglio che rilanciare l'attacco alla prima concorrente imperialista globale, quella cinese arrivata a rosicchiargli consensi persino a Tel Aviv dal fidatissimo alleato sionista con accordi commerciali nel campo delle strategiche nuove tecnologie e per la costruzione di un nuovo terminal commerciale nel porto di Haifa, lungo la nuova Via della Seta. Nella improvvisa e rapida visita del 13 maggio a Tel Aviv, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha parlato con i due leader del nuovo governo di coalizione Benjamin Netanyahu e Benny Gantz dei problemi del varo dell'esecutivo ma forse anche degli investimenti cinesi. E il giorno successivo l'ambasciata cinese a Tel Aviv sottolineava tra le altre l'importanza dei legami tra Pechino e Tel Aviv e della cooperazione economica “win-win”, di mutuo beneficio.
Un punto debole di Xi sta certamente nella gestione della crisi sanitaria partita da Wuhan o da altre zone del paese. La vera storia di come è nata la crisi sanitaria e economica del coronavirus è tutta da scrivere, scandita da una serie impressionante di false notizie, occultamenti e depistaggi da parte anzitutto della Cina ma anche degli altri paesi imperialisti che su un punto hanno operato in piena concordia, nel subordinare la salute dei popoli agli interessi economici capitalistici. In una prima fase la parola d'ordine è stata nascondere o minimizzare. In Cina dai mortali “casi di polmonite di origine sconosciuta” del novembre 2019, ai casi di morti per Covid del dicembre 2019 registrati nella città di Wuhan non succedeva niente fino al 20 gennaio quando il presidente Xi Jinping annunciava l’emergenza nazionale; negli Usa dove dal rapporto del ramo sanitario dell’intelligence militare sull'emergere di una nuova epidemia in Cina del 28 novembre 2019, trasmesso velocemente al Pentagono e alla Casa Bianca, nulla si muoveva e non basterà neanche la conferma del primo caso mortale negli Usa alla fine di gennaio a smuovere Trump che solo il 13 marzo dichiarerà l'emergenza nazionale. Da controlli successivi risulterà che il virus girava anche per l'Europa, certo in Francia già a novembre 2019.
Se a Taiwan dal 3 gennaio, contrariamente alle rassicurazioni dell'organizzazione mondiale della sanità (Oms) partiva la prevenzione con il controllo della temperatura negli arrivi da Wuhan, tra Washington e Pechino si pensava alla tregua nella guerra commerciale sulla base dell'intesa definita il 13 dicembre e formalizzata il 15 gennaio. Questa era in quel momento una delle principali preoccupazioni di Trump e Xi, mentre il virus dilagava.
A fine aprile Trump cambiava linea e passava all'attacco frontale a Pechino. Preceduto il 15 aprile dall'annuncio del taglio dei finanziamenti all'Oms colpevole di aver coperto “la disinformazione cinese”. Un colpo facile all'organizzazione delle Nazioni Unite, di cui gli Usa sono i principali finanziatori pubblici, superiori solo a quelli del magnate americano Bill Gates, che è di fatto “l'azionista privato” di controllo dell'Oms guidata formalmente dall'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, insediato nel maggio 2017 sulla poltrona di direttore generale col determinante appoggio della Cina. Un favore che il dirigente ha restituito assecondando le coperture di Pechino per arrivare solo al 22 gennaio a lanciare con colpevole ritardo l'allarme sulla pericolosità del virus, a pandemia già conclamata.
A più riprese da Washington partiva l'accusa che il virus era stato costruito o perlomeno era sfuggito al controllo dei tecnici nel laboratorio di Wuhan, costruito con la collaborazione della Francia e dove hanno lavorato tecnici americani e australiani. È possibile, anche se al momento resta più credibile la posizione di un consistente numero di scienziati sullo sviluppo naturale del virus.
A Trump, che il 30 aprile sosteneva di avere le prove “molto credibili” che il virus fosse partito dal laboratorio di Wuhan, Pechino rispondeva che erano solo bugie e sfidava l'avversario a mostrarle. Gioco facile ricordare che quando l'imperialismo americano decide di passare all'aggressione non ha remore a costruirsi prove false, dall'assalto navale a un incrociatore Usa nel golfo del Tonchino inventato nel 1964 per invadere il Vietnam a quelle presentate da George W. Bush nel 2003 sul possesso di armi di distruzione di massa, mai trovate, da parte del regime di Saddam Hussein per invadere l’Iraq. “La Cina farà il possibile per non farmi rieleggere” raccontava Trump nella lunga intervista del 3 aprile all'agenzia Reuters dove tuonava di nuovo contro le responsabilità di Pechino “nella gestione disastrosa del Covid 19”, che tra l'altro era pressoché identica a quella delle sua amministrazione. Il 3 maggio Pompeo le rilanciava chiamando a raccolta gli alleati.
Tra i misfatti di Pechino ci sono l'azione diplomatica che ha enfatizzato gli aiuti inviati agli altri paesi e sollecitato commenti positivi soprattutto in Europa, le pressioni sulla Ue, ricattabile con gli affari, per ammorbidire le sue condanne sulle “interferenze cinesi e russe” che erano contenute nel rapporto dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, il socialista spagnolo Josep Borrell. Messa nel mezzo l'Ue ha chiesto un'indagine indipendente. Non basterà se Trump continuerà sulla rotta di collisione con Xi, fino a “tagliare l’intero rapporto con la Cina”, che prescinde dalle momentanee esigenze della campagna elettorale presidenziale e rientra nello scontro imperialista tra Usa e Cina per l'egemonia mondiale.

20 maggio 2020