Tra dipendenti diretti e dell'indotto sono a rischio 20mila posti di lavoro
L'ex Ilva non deve morire: nazionalizzarla. Bonificare l'ambiente a Taranto
Il diritto al lavoro non deve essere scambiato con il diritto alla salute
 
Siamo oramai al capolinea. La vicenda delle acciaierie ex-Ilva sta vivendo momenti decisivi, il destino di migliaia di lavoratori è legato a un filo. Lo stabilimento di Taranto, quello che di gran lunga occupa la maggior parte della forza lavoro del gruppo, nel 2023 ha subito un drastico calo della produzione, raggiungendo i suoi minimi storici. Una conseguenza inevitabile dello spegnimento dei suoi altiforni, i grandi impianti che servono a produrre ghisa e acciaio a partire da minerali di ferro e carbone, di cui ne rimane in funzione solo uno.

Una lenta agonia
Fino agli anni '90 del secolo scorso l'acciaieria pugliese ne aveva ben cinque, ma uno (il n°3), fu demolito nel 2019, dopo essere stato fermo per 25 anni. Nel 2015 era stato chiuso il n°5, mentre in anni più recenti era toccato al n°1 e 2, entrambi per motivi di sicurezza e ambientali, anche se quest'ultimi sono solo “fermi”, ovvero mantenuti a una bassa temperatura non idonea alla produzione ma che, seppur con un procedimento lungo e costoso, hanno la possibilità di esser riattivati.
Attualmente l’unico in funzione è l’altoforno 4, ma dovrà essere a sua volta fermato per cambiare i cuscinetti dei rulli del nastro trasportatore, dove nel 2016 morì un operaio di 25 anni di una ditta dell’indotto, Giacomo Campo, durante un intervento di riparazione. Per la morte di Campo sono stati rinviati a giudizio sei funzionari dell’Ilva, tra cui il caporeparto. Sono accusati di omicidio colposo e di violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro. A settembre c’è stato un incidente analogo per fortuna non mortale, ma il fermo per riparare i rulli è considerato necessario. La produzione, per tanti anni attorno ai 10 milioni di tonnellate, adesso supera di poco i tre milioni.
Dopo essere stata privatizzata nel 1995, andò a finire nelle mani della famiglia Riva, che dopo aver sfruttato al massimo i lavoratori e avvelenato la città, come dimostrano le molteplici inchieste per reati ambientali e di inquinamento, costrinse lo Stato al commissariamento per salvaguardare lo stabilimento e l'occupazione, e nel 2012 l'Ilva passò in Amministrazione straordinaria. Dopo alcuni anni, nel 2018, con il governo Gentiloni e ministro dell'Industria Calenda, l'Ilva viene acquisita dalla multinazionale Arcelor-Mittal e prende il nome di Acciaierie d’Italia, tramite un asta a dir poco “opaca”, dove gli altri partecipanti non ebbero la possibilità di rilanciare l'offerta.

La fallimentare gestione Mittal
Subito emergono gravi problemi: i nuovi padroni franco-indiani dopo neanche un anno si accorgono di quanto sia dura dover risanare la società e i grandi problemi ambientali causati dagli stabilimenti. Sorge spontaneo l'interrogativo del perché abbiano acquisito l'Ilva. La multinazionale affermava di voler aggiungere un importante asset per la produzione dell'acciaio in Europa, ma c'è anche chi ipotizza che l'intenzione reale sia stata fin dal primo momento quella di far morire Taranto per eliminare un competitore che poteva danneggiare il colosso guidato dal magnate indiano Lakshmi Mittal.
In questi ultimi 6 anni, nonostante le centinaia di milioni di euro prestati dallo Stato, la gestione congiunta Arcelor-Mittal (con il 62%) e Invitalia (con il 38%) non ha portato alcun risultato, ne sul piano occupazionale ne su quello del risanamento ambientale. In questo periodo i sindacati hanno denunciato costantemente il disinteresse di Arcelor-Mittal che ha mantenuto lo stabilimento di Taranto in pessime condizioni, senza manutenzione e senza interventi di risanamento come prevedevano gli accordi. Una situazione purtroppo confermata dai continui infortuni, anche mortali, e dall'avvelenamento dei lavoratori e dei cittadini, in particolare quelli del contiguo quartiere Tamburi, certificata dai rilevamenti della pessima qualità dell'aria.
Alla fine Arcelor-Mittal è venuta allo scoperto. Il settembre scorso aveva sottoscritto un piano di investimenti per la decarbonizzazione aggiornato e potenziato dove “venivano individuati i relativi finanziamenti pubblici di supporto”. Il piano, da finalizzare entro il 2030 aveva un costo di 4,6 miliardi con l'impegno del governo a mettercene 2,3. Quell’intesa è stata letteralmente stracciata da Mittal nel giro di due mesi. Il colosso franco-indiano si è rifiutato di sottoscrivere qualsiasi aumento di capitale perchè ciò comporterebbe andare in minoranza lasciando la maggioranza allo stato, e ha tirato avanti senza però prendere una decisione definitiva.

Le colpe dei vari governi
Inevitabile a questo punto l'intervento del Governo anzi, si è perso fin troppo tempo, anche perché in queste ultime settimane si è fatta concreta la prospettiva della chiusura. Di fronte al precipitare degli avvenimenti nel mese di dicembre si sono susseguiti uno dietro l'altro una serie d'incontri: tra governo e sindacati, tra il governo e Arcelor-Mittal, tra il cda della multinazionale, mentre a livello politico si susseguivano le polemiche. L'attuale governo neofascista della Meloni accusa i governi Conte I e II (e Draghi?) di aver sottoscritto un accordo che lascia ai privati il potere decisionale anche con meno del 50%, le accuse di Calenda si indirizzano verso chi ha sospeso lo “scudo fiscale” che assicurava l'impunità ad Arcelor, Di Maio (suo successore) accusa Calenda di aver messo in campo una gara illegittima. Insomma, un indecoroso scaricabarile sulla pelle dei lavoratori e dei tarantini.
Una cosa è certa, tutti i governi, di ogni “colore”, hanno contribuito alla rovina dell'ex-Ilva e non hanno mai avuto il coraggio di nazionalizzarla nonostante se ne parlasse da 4-5 anni e questa ipotesi apparisse sempre più l'unica praticabile. In sostanza lo stato, e quindi i contribuenti, hanno continuato a foraggiare un'azienda sostenuta con soldi pubblici ma in cui la facevano da padrone i privati. Il tutto mentre si faceva morire l'acciaieria di Taranto e gli interessi della multinazionale si spostavano altrove, come dimostra il recente accordo e l’investimento congiunto tra Mittal e lo Stato francese per la decarbonizzazione dell’acciaieria di Dunkerque, una delle fabbriche più inquinanti del Paese transalpino, dove il governo francese, tra l'altro, contribuirà con “solo” 850 milioni di euro rispetto ai 2,3 miliardi di quello italiano.

Nazionalizzazione e risanamento ambientale
L'ex Ilva deve essere nazionalizzata subito, ma in maniera duratura, non come intende il governo, che la vede solo come extrema ratio , cioè come ultima soluzione possibile. Nonostante il governo, tramite una serie di decreti urgenti, abbia di fatto estromesso Arcelor-Mittal da Acciaierie d'Italia, confermando la strada dell'Amministrazione straordinaria, vede tutto ciò solo come una situazione temporanea, nell'attesa di trovare l'ennesimo investitore privato, già si parla del gruppo Arvedi di Cremona. Il gruppo ex-Ilva deve invece rimanere saldamente nelle mani dello Stato. Non c'è altra strada per salvare il posto di lavoro a 20mila persone e assicurare un futuro sostenibile all'ex-Ilva attraverso una radicale bonifica ambientale.
A Taranto stanno crescendo il malcontento e la protesta di tanti cittadini esasperati dall'inquinamento che stanno chiedendo la chiusura dello stabilimento. Tutto ciò sta portando ad uno scontro tra le “ragioni” del lavoro e della salute che deve e può essere evitato. Come hanno chiesto i sindacati Cgil, Cisl, Uil e Usb nell'ultimo incontro del 18 gennaio con il governo, devono essere mantenuti la continuità produttiva e i salari dei lavoratori delle acciaierie di Taranto e delle altre fabbriche del gruppo sparse per l'Italia, ma anche degli occupati nelle aziende dell'indotto che rischiano di trovarsi in mezzo alla strada. Contemporaneamente un serio piano di decarbonizzazione, l'istallazione di forni elettrici, la messa in sicurezza degli impianti, la copertura degli accumuli di materiale, devono essere messi in pratica immediatamente e in maniera efficace.

31 gennaio 2024