In attesa del risultato delle elezioni europee
Il governo furbescamente dà solo la cornice del documento di economia e finanza
Dopo le elezioni saranno lacrime e sangue

Il 9 aprile il Consiglio dei ministri ha approvato il DEF 2024, il documento annuale di economia e finanza che descrive la situazione dei conti dello Stato e fissa il programma economico e finanziario del governo per il successivo triennio. Contrariamente alla prassi consolidata però, questa volta il ministro dell'Economia e delle finanze Giorgetti che lo ha firmato ha presentato solo il quadro tendenziale, senza fornire il quadro programmatico.
Spieghiamo brevemente cosa significano questi termini tecnici. Ogni anno ad aprile il governo è tenuto a trasmettere alla Commissione europea il DEF che contiene i dati macroeconomici attuali e previsionali triennali del bilancio dello Stato (Prodotto interno lordo, debito, entrate e uscite, deficit, spesa per interessi, investimenti ecc.). Questi dati sono organizzati in due gruppi: un quadro “tendenziale”, che fotografa la situazione attuale ereditata dalla Legge di bilancio precedente (quella 2024 varata a fine 2023, in questo caso) e descrive come si evolverà nel triennio successivo (2025-2027) “a legislazione invariata”, ossia senza ulteriori interventi del governo; e un quadro “programmatico”, che descrive invece come gli stessi dati di partenza dovrebbero evolversi per effetto delle nuove misure del governo, sia quelle prese nei mesi successivi che soprattutto quelle fissate nella Legge di bilancio di fine anno. In preparazione della quale, entro il 20 settembre di ogni anno, il governo deve inviare alla UE la nota di aggiornamento al DEF (NADEF), che fornirà il quadro tendenziale e programmatico definitivo su cui sarà impostata la manovra economica.
Quindi, l'aver presentato solo il quadro tendenziale (“un DEF snello e assai asciutto”, l'ha definito ipocritamente Giorgetti), e rinviare quello programmatico alla NADEF di settembre, significa semplicemente da parte del governo rinviare a tale data l'annuncio delle misure che prenderà con la manovra di bilancio 2025, invece che farlo adesso ad appena due mesi dalle elezioni europee. E significa anche che in tutta evidenza questa deve essere una manovra di lacrime e sangue come non mai, visto l'inusuale ricorso alla violazione della prassi per nascondere la polvere sotto il tappeto. Non ci sono infatti precedenti del genere, e quei tre o quattro invocati dal governo, come quelli di Monti, Gentiloni e Draghi, erano governi dimissionari dopo elezioni politiche, e quello di Conte era in piena emergenza pandemia.

Una manovra da 23 miliardi solo per rinnovare bonus e sgravi fiscali
Il ministro leghista si è appellato anche alla scusa che quest'anno il rinvio a settembre degli impegni programmatici sarebbe consentito dalla UE in attesa delle nuove regole finanziarie che sostituiranno il vecchio patto di stabilità, per le quali ogni governo dovrà adottare un “Piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine”; piano che fisserà i margini di manovra e gli obblighi da rispettare per il rientro dal debito, con un rigido programma di tagli in 4 anni, che eventualmente potranno estendersi a 7 accettando pesanti vincoli di riforme da realizzare. Si parla di una “cura dimagrante” a base di tagli dello 0,5% del PIL, pari a oltre 10 miliardi l'anno per i prossimi 7 anni.
Ma in aggiunta a ciò ci saranno da trovare subito almeno altri 20-23 miliardi solo per rinnovare anche per il 2025 il taglio del cuneo fiscale per gli stipendi fino a 35 mila euro, che vale 11 miliardi (che Giorgetti ha definito “una priorità” del governo), per l'accorpamento delle prime due aliquote Irpef varato con la delega fiscale, che vale altri 4, e per tutta la serie di bonus e agevolazioni fiscali che hanno sorretto fin qui la politica classista, corporativa, familista, demagogica ed elettoralista del governo neofascista Meloni, tra cui: la carta alimentare “Dedicata a te” del ministro Lollobrigida (600 milioni). Il bonus mamme lavoratrici con due figli, voluto espressamente da Meloni (368 milioni). La garanzia per i mutui prima casa per i giovani (282 milioni). Gli sgravi sui premi di produttività e il welfare aziendale della ministra Calderone (483 milioni). La riduzione del canone Rai a 70 euro di Salvini (430 milioni). I crediti di imposta per le Zone economiche speciali del Sud del ministro Fitto (1,8 miliardi). Il pacchetto pensioni con Quota 103, Opzione Donna, Ape sociale e l’aumento delle minime, caro a Lega e Fi (630 milioni). A cui vanno aggiunti il rinvio di Sugar e Plastic tax per 325 milioni solo nel secondo trimestre di quest'anno (sono 650 ogni anno) e gli sgravi per gli straordinari e i notturni del settore turistico, voluti dalla ministra Santanché, per 81 milioni da trovare subito per salvare Ferragosto e Natale.

La scusa pronto uso del superbonus 110
Ci sarebbe poi la mina vagante dei costi da smaltire del superbonus 110 (arrivati a 120 miliardi) e degli altri bonus edilizi per altri 100 miliardi. Come saranno spalmati nella manovra 2025 e nelle successive? Giorgetti, Meloni e tutto il governo neofascista usano il buco di bilancio per il superbonus come un disco rotto per coprire la loro fallimentare e scellerata politica economica che destina tutte le risorse ai ricchi e premia gli evasori, mentre le toglie ai poveri e disoccupati e dice che non ce ne sono abbastanza per la sanità, la scuola, le pensioni, l'assistenza e gli altri servizi sociali. E soprattutto come un alibi anticipato per i futuri e più sanguinosi tagli alla spesa pubblica chiesti dalla politica neoliberista europea.
Sta di fatto però che se pur ideato dal governo Conte 2, al quale addossano per intero il disastro dei bonus edilizi, essi ne sono quantomeno corresponsabili a metà, sia perché li hanno condivisi e appoggiati in larga misura fino ad oggi, sia perché il buco più grosso è stato fatto proprio sotto il governo Draghi e sotto questo stesso governo, guarda caso entrambi con Giorgetti alle Finanze, che però non perde occasione per tuonare contro questo “provvedimento scellerato”: 40 miliardi nel 2022 e ben 90 nel 2023, in pieno governo Meloni. E infatti, come si può vedere dalla tabella qui pubblicata riassemblando i dati del DEF, nel 2023 la spesa totale dello Stato è salita a 1.146 miliardi, pari al 55% del PIL, e l'indebitamento netto o deficit tra entrate ed uscite in percentuale sul PIL, è schizzato al -7,2%, ben oltre il -5,3% previsto nella NADEF dell'autunno scorso. Tanto che il debito complessivo dello Stato ha ora raggiunto la soglia fatidica dei 3.000 miliardi, ed è previsto che salirà ancora dall'attuale 137,8% del PIL di quest'anno al 139,8% del 2026, prima di invertire leggermente la rotta.

Giorgetti bara con i numeri, che lo smentiscono
Nel cercare di nascondere il vero motivo propagandistico a scopo elettorale del rinvio dei veri dati che contano, quelli programmatici, che dicono se ci saranno nuovi tagli e fino a che punto dolorosi, il titolare del MEF ha scritto nella premessa al documento che il rinvio sarebbe stato giustificato anche perché “non si è ritenuto necessario definire nel DEF degli obiettivi diversi dalle grandezze di finanza pubblica che emergono dal profilo tendenziale a legislazione vigente e che sono largamente in linea con lo scenario programmatico della scorsa NADEF”. Ma il ministro mente anche qui, e i suoi stessi numeri lo smentiscono. Confrontando la NADEF programmatica 2023 con il DEF tendenziale 2024 (vedi sempre tabella), si vede chiaramente che i conti non tornano: non c'è soltanto la suddetta differenza di 1,9 punti in più nell'indebitamento netto previsto per il 2023 (pari appunto a circa 40 miliardi), ma anche le previsioni sulla crescita del PIL per il 2024 si sono rivelate troppo ottimistiche, con un ridimensionamento dall'1,2% all'1% (ma secondo UE, Bankitalia e FMI è grassa se a fine anno arriverà allo 0,7%). E anche le stime per il 2025 scontano la stessa riduzione di 0,2 punti (da 1,4 a 1,2).
In ogni caso, anche a legislazione invariata, la direzione in cui sta andando il governo neofascista è ben chiara ugualmente, ed è sempre più quella del taglio delle tasse ai ricchi (patrimoni, imprese, commercianti, professionisti, autonomi) da una parte, e del taglio della spesa pubblica e delle privatizzazioni (Eni, Enel, Poste ecc.), dall'altra. Se si confrontano i dati delle entrate e della spesa pubbliche del 2023 con quelli tendenziali del 2027, c'è un calo di entrambe; il che in sostanza significa meno tasse da una parte (flat tax autonomi, riduzione regressiva scaglioni Irpef, concordato preventivo, rottamazioni cartelle, condoni fiscali e chi più ne ha più ne metta), e più tagli a sanità, scuola, pensioni, servizi sociali, dall'altra. Le entrate caleranno infatti dal 47,8% del PIL del 2023 al 46,2% del 2027: 1,6 punti di PIL, pari, a valori correnti, a circa 33 miliardi. Mentre le uscite dovranno calare a loro volta dal 55% del 2023 al 48,4% del 2027: ben 6,6 punti di PIL, pari a circa 132 miliardi in 4 anni.
E c'è da considerare che di questi 6,6 punti oltre la metà (3,9) sono da tagliare già quest'anno, e altri 0,3 nel 2025, per un totale di circa 84 miliardi di qui alla fine dell'anno prossimo. Anche il saldo primario (deficit depurato degli interessi sul debito), che quando sale è un altro indice legato al taglio della spesa, in particolare dei tagli lineari alla spesa dei ministeri, dovrebbe crescere di 5,6 punti nel periodo 2023-2024. E con un grosso balzo in alto di 3 punti già quest'anno, pari a 60 miliardi. Una cifra pazzesca, che si fa fatica a capire come possa essere realisticamente trovata.

In attesa di una nuova maggioranza della destra europea
Per non parlare del fatto che l'Italia è a rischio di infrazione davanti alla Commissione europea per lo sfondamento eccessivo del deficit nel 2023 (condanna che Giorgetti dà per scontata), e che potrebbe portare ad un'ulteriore correzione dei conti di 0,5 punti, un'altra decina di miliardi da trovare tra qualche mese. A tutto questo si aggiunga il forte ritardo nella realizzazione del PNRR, i cui lavori devono essere completati entro il 2026, pena la perdita dei finanziamenti. Significa che in meno di due anni dovranno essere spesi qualcosa come 151,4 miliardi rimasti, il 78% delle risorse disponibili, visto che fino ad ora è stato finito solo un quinto delle (ancorché già sforbiciate) opere avviate. Infatti, nonostante abbia già ricevuto un netto rifiuto, Giorgetti insiste nel chiedere alla Commissione europea un allungamento della scadenza del PNRR.
Insomma, non si fa certo fatica a capire perché il governo abbia scelto l'espediente del rinvio della resa dei conti a settembre: non soltanto per paura di perdere consensi alle prossime elezioni, ma anche nella speranza che ne esca una nuova maggioranza di destra neofascista e sovranista e quindi una nuova Commissione in cui l'Italia meloniana conti più di adesso. Non per nulla, presentando il DEF in conferenza stampa, Giorgetti ha eluso le domande dei giornalisti sulla mancata indicazione dei tagli programmati, rispondendo con la consueta aria sorniona: “Quando mi diranno le istruzioni sulla nuova governance europea conoscerò la traiettoria, le spese da monitorare ed eventualmente tagliare. Una volta che avremo il quadro sapremo anche dove andare a incidere per tagliare la spesa e trovare le risorse”.

24 aprile 2024