Il nuovo patto di stabilità europeo è una mazzata sui bisogni delle masse

Il 23 aprile il parlamento europeo ha approvato a grande maggioranza il nuovo Patto di stabilità e crescita che sostituisce il vecchio trattato in vigore fino alla pandemia, e che era stato sospeso per consentire agli Stati il rientro dall'emergenza covid. In teoria, quindi, il nuovo patto dovrebbe avere regole meno rigide e fiscali del vecchio, dimostratesi fallimentari per la crescita economica e insostenibili per le condizioni di vita dei lavoratori e delle masse popolari di tutto il continente, per non dire criminali e catastrofiche come nel caso della Grecia. E in ogni caso ormai sorpassate e inservibili nella nuova situazione scaturita dalle conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina.
Nella realtà non è così, anche se sono state abbandonate, in quanto ormai giudicate irrealistiche, certe regole assurde del vecchio trattato, come l'obbligo di rispettare rigidamente un disavanzo strutturale massimo del 3% del Pil (differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto della spesa per interessi sul debito, per la disoccupazione e per investimenti sovvenzionati dalla Ue); e soprattutto l'obbligo di abbattimento del debito fino al 60% del Pil (media del debito europeo di allora) in vent'anni a colpi del 5% l'anno: ciò che a valori di oggi per l'Italia, che ha un debito di 3.000 miliardi pari al 140% del Pil, avrebbe voluto dire tagliare dalla spesa pubblica qualcosa come 85 miliardi ogni anno. Ciononostante vedremo che il cappio al collo dei paesi più indebitati come l'Italia (il secondo in Europa dopo la Grecia) non è stato affatto allentato, e per certi versi è stato persino ulteriormente serrato.

L'opportunismo elettoralistico di governo e opposizioni
La dimostrazione più evidente che il nuovo patto non è meno capestro del vecchio è stata data dal voto dei partiti italiani. Nessuno, dicasi nessuno di essi, di governo e di opposizione, ha voluto mettere la faccia su di esso alla vigilia delle elezioni europee: quelli di governo si sono tutti astenuti, nonostante che a dicembre il ministro dell'Economia Giorgetti lo avesse firmato e la premier neofascista lo avesse esaltato come un altro segno della nuova politica europea che sta “cambiando” per merito dell'Italia meloniana. Si è astenuto anche il PD, quantunque il patto sia frutto della mediazione del suo commissario europeo all'Economia, Gentiloni (il quale ha ironizzato che contro di esso “abbiamo riunificato la politica italiana”), mentre il M5S ha votato contro. A favore ha votato solo un pugno di parlamentari italiani, come Laura Comi di FI (condannata per truffa alla Ue in primo grado), l'altoatesino Dorfmann (PPE) e l'ex M5S Zullo, passato ai macroniani di Renew Europe.
La Meloni avrebbe voluto votare sì, ma l'annuncio di Salvini dell'astensione della Lega (che con ciò ha sconfessato il suo stesso ministro Giorgetti) l'ha costretta a seguirlo per non restare spiazzata alle elezioni, a costo di votare in surreale difformità col gruppo dei Conservatori europei di cui lei stessa è a capo. E anche il PD ha votato in difformità col Partito socialista europeo di cui fa parte. Tutto ciò la dice lunga su quanto tutti costoro siano in difficoltà nel far accettare alle masse popolari le clausole capestro che esso contiene.

Restano la riduzione forzata del debito e il deficit al 3%
Che cosa prevede, infatti, il nuovo Patto di stabilità e crescita? Intanto, su ferma imposizione tedesca, è stato mantenuto il vecchio vincolo di puntare a un tetto massimo del debito al 60% del Pil, nonostante che ormai la media dei paesi Ue sia cresciuta quasi al 100%. Rispetto a prima è stata aggiunta una fascia per i paesi debitori tra il 60% e il 90% del Pil, che dovranno tornare al tetto del 60% con riduzioni di uno 0,5% l'anno; mentre per quelli oltre il 90% (tra cui l'Italia), la quota sarà dell'1% l'anno. Anche se non è più assurda come il vecchio 5%, per noi si tratta comunque di circa 20 miliardi da tagliare alla sanità, alla scuola, alla casa, alle pensioni e ai servizi sociali, e/o con la svendita del patrimonio dello Stato e delle partecipate pubbliche, solo per vincolo europeo e a prescindere da altri tagli alla spesa decisi autonomamente dal governo. E questo ogni anno e per molti anni a venire, finché la montagna del nostro debito non sarà ridotta alle dimensioni dei paesi europei più “virtuosi”.
Anche l'arbitraria, punitiva e tanto criticata tagliola del 3% di deficit strutturale è stata mantenuta, ma con un meccanismo differenziato per il rientro dallo sforamento (procedura per deficit eccessivo), che è dello 0,5% l'anno, o può essere anche superiore a seconda dell'indebitamento. Tuttavia per il periodo 2025-2027 si potrà scontare dall'aggiustamento le spese per interessi, e lo sforzo richiesto sarà mediamente inferiore alle vecchie regole. E' questa la clausola di compromesso (un occhio di riguardo per i conti italiani, guarda caso per la sua durata in carica) che il governo Meloni aveva mercanteggiato con la Commissione europea in cambio del suo voto a favore a dicembre. Un voto che adesso finge di rinnegare solo per non pagare pegno alle elezioni europee. Nel calcolo opportunista di Meloni c'è anche la speranza che dalle elezioni possa uscire una Commissione più a destra e “sovranista”, e che quindi tali vincoli possano essere rivisti e allentati.

Tagli pesanti anche da procedura d'infrazione e riduzione del saldo primario
Tra l'altro sull'Italia è già pendente una procedura d'infrazione attesa per il 19 giugno – come anche per altri 17 Stati membri tra cui Germania, Francia, Spagna e Polonia - visto che nel 2023 lo sforamento del deficit è arrivato ufficialmente al 7,4% (più del 7,2% già previsto nel recente DEF), e che per il 2025 è stato fissato al 4,3%. Se la correzione fosse anche solo dello 0,5%, sarebbero altri 10 miliardi da tagliare alla prossima manovra, che solo per riconfermare anche per il 2025 il taglio del cuneo fiscale, le missioni militari, la riduzione da 4 a 3 aliquote dell'Irpef e gli altri bonus clientelari ed elettorali elargiti con la scorsa finanziaria, parte già con circa 20-23 miliardi da trovare; e sempre tagliando la spesa pubblica, visto che il governo neofascista non vuol saperne di far pagare le classi più abbienti e gli evasori fiscali che formano la sua base elettorale. Né può pensare di violare le nuove regole europee giocando sull'extradeficit come gli anni passati, perché stavolta non potrebbe più contare sullo scudo della Bce in caso di tensioni sui mercati, in un anno in cui deve piazzare quasi 500 miliardi di titoli di Stato. Sarà permesso sforare il deficit solo per gli investimenti nella difesa e nelle transizioni verde e digitale.
Ma non è tutto. I paesi come l'Italia, gravati da un debito superiore al 90% del Pil, in presenza di una fase di crescita economica dovranno dotarsi di una “salvaguardia di resilienza sul deficit”, ovvero mettere da parte una riserva finanziaria in caso di crisi future scendendo gradualmente verso un deficit strutturale all'1,5% del Pil. Ciò avverrebbe attraverso un Piano a medio termine, concordato con la Ue a settembre, che stabilisca una “traiettoria” per la riduzione graduale del saldo primario strutturale: cioè il disavanzo netto meno la spesa per interessi, che nel bilancio indica in pratica se quanto il governo è riuscito a tagliare le spese correnti dei ministeri e degli Enti locali. L'aggiustamento sarà dello 0,4% se il piano è in 4 anni, oppure dello 0,25% se si sceglie l'opzione dei 7 anni di tempo (come presumibilmente farà il governo italiano), che comporta però l'accettazione di pesanti “riforme” imposte dalla Commissione.
Nel caso dell'Italia questo ulteriore meccanismo di “sorveglianza e correzione” dei conti a carico dei paesi più indebitati (imposto anche questo dalla Germania), si sommerebbe con la procedura d'infrazione; per cui, secondo i calcoli dell'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), la “correzione” del deficit strutturale potrebbe arrivare anche a 12 miliardi l'anno per tutto il periodo 2025-2031. Non c'è da stupirsi se Giorgetti e Meloni - caso senza precedenti - ad aprile hanno presentato un DEF con solo il quadro tendenziale, già vecchio e superato, senza il quadro programmatico che avrebbe dovuto tenere conto di questo nuovo scenario che anticipa una paurosa stangata antipopolare in autunno, preferendo nasconderlo alle masse e rimandarlo furbescamente a dopo le elezioni europee.

“Decreto Primo Maggio” e mancia elettorale per vincere le europee
D'altra parte da quando è al governo la neofascista Meloni ha messo la sordina alla postura “sovranista” e bellicosa contro la Ue che teneva quando era all'opposizione, accusandola di voler danneggiare gli interessi dell'Italia e minacciare la sua sovranità nazionale. Anche perché, la sua politica sfacciatamente clientelare a base di mance, condoni e favori vari al suo elettorato a spese delle casse pubbliche, non è certo tale da rassicurare gli arcigni rappresentanti dell'establishment comunitario.
Basti pensare che, mentre grazie anche al nuovo Patto di stabilità che lei ha firmato e che sta nascondendo agli elettori, si preannuncia per lavoratori, pensionati e masse popolari una nuova stagione di lacrime e sangue, su sua insistenza il Consiglio dei ministri sta per varare, nell'ambito della delega fiscale portata avanti dal suo fedele viceministro all'Economia Maurizio Leo, un'altra mancia elettorale da almeno 100 milioni di euro. Consistente in un una tantum da 100 euro nella prossima tredicesima di tutti lavoratori dipendenti con reddito fino a 28 mila euro (era 15 mila nella prima ipotesi), con coniuge e almeno un figlio a carico. Si tratta in tutta evidenza di un'operazione elettorale copiata pari pari da quella degli 80 euro di Renzi che gli fece vincere le europee del 2014.
Su questa misura la Corte dei conti aveva già messo in guardia il governo sulla mancanza di coperture, persuadendo Giorgetti a rinviarla a fine anno, ma la premier neofascista vuole subito, per poterla sventolare prima delle elezioni. La mancia verrebbe anzi inserita nel nuovo “decreto Primo Maggio” contenente anche un ben più costoso regalo di decontribuzione del 120% del costo del lavoro (130% per giovani, donne ed ex percettori del reddito di cittadinanza) alle imprese di ogni tipo e ai lavoratori autonomi, in cambio di nuove assunzioni a tempo indeterminato.

1 maggio 2024