Cento anni fa il rapimento e l'omicidio del segretario nazionale del Partito socialista unitario
Il deputato riformista Matteotti assassinato da Mussolini per aver denunciato i brogli e le violenze elettorali dei fascisti
Meloni ammette l'omicidio squadrista ma tace sul mandante Mussolini

Cento anni fa, il 30 maggio 1924, il segretario del Partito socialista unitario, Giacomo Matteotti, tenne il coraggioso discorso alla Camera dei deputati del Regno d'Italia che gli costò la vita, avendo denunciato i brogli e le violenze dei seguaci di Mussolini alle elezioni che avevano dato la maggioranza schiacciante alla lista fascista. Pochi giorni dopo veniva rapito e ucciso da una squadraccia fascista e il suo corpo fu ritrovato (o fatto ritrovare) solo due mesi dopo. Fu uno scandalo molto grave che sconvolse l'intero Paese, e che per la prima volta dalla nomina a presidente del Consiglio per mano del re Vittorio Emanuele III, dopo la marcia su Roma delle sue camicie nere del 28 ottobre 1922, fece vacillare seriamente Mussolini e il suo governo, essendo stato individuato subito e da tutti come il mandante dell'efferato delitto.

Il contesto politico in cui maturò il delitto
Il 6 aprile 1924 si erano tenute le prime elezioni politiche dopo che Mussolini era diventato capo del governo. Era un governo di coalizione con popolari e liberali di destra e fascisti, che però nel parlamento erano ancora in minoranza. Per assicurarsi una maggioranza di ferro il capo del fascismo aveva fatto approvare la legge Acerbo, che dava al partito che superasse la soglia del 25% dei voti la maggioranza dei due terzi dei seggi. La stessa legge, nella sua sostanza truffaldina, che la sua erede politica Giorgia Meloni, che ha riportato il fascismo mussoliniano al governo nelle vesti femminili, democratiche e costituzionali, ha riesumato per sostenere il premierato che realizzerà la repubblica presidenziale di Almirante, della P2 e di Berlusconi. Anche se in questo caso la soglia da raggiungere non potrà essere inferiore al 40% a causa della sentenza della Corte costituzionale che bocciò il porcellum.
Nonostante che molti liberali e cattolici facessero a gara a candidarsi nel suo “listone”, per essere ben sicuro di stravincere Mussolini scatenò i suoi squadristi, che con violenze, intimidazioni e raggiri, che culminarono anche nell'omicidio di un candidato socialista, riuscirono a fargli superare abbondantemente la soglia e ottenere il 65% dei seggi. Il 30 maggio Matteotti intervenne alla Camera denunciando dettagliatamente i brogli e le violenze fasciste per chiedere l'annullamento della ratifica dei candidati eletti con tali metodi, affrontando con coraggio e in solitudine le continue interruzioni, gli schiamazzi e gli insulti della teppaglia parlamentare fascista e la sfacciata compiacenza del presidente dell'assemblea Alfredo Rocco, poi nominato ministro della Giustizia ed estensore del famigerato codice penale fascista, sostanzialmente in vigore ancora oggi.
Le minacce ricevute durante il suo intervento lo dovevano aver convinto della sua fine imminente, se rivolgendosi ai suoi colleghi Matteotti esclamò: “Io ho fatto il mio discorso, ora voi preparate il discorso funebre”. Lo stesso Mussolini, infatti, il giorno dopo scriveva su “Il Popolo d'Italia” che la maggioranza era stata fin troppo paziente in parlamento e che la “mostruosa provocazione” di Matteotti meritava qualcosa di “più concreto” di una risposta verbale.

Gli esecutori e il mandante politico
Era un chiaro segnale ai suoi squadristi della cosiddetta “Ceka fascista”, che con una squadraccia di quattro persone capeggiata da Amerigo Dumini il 10 giugno sequestrò all'uscita da casa il deputato socialista, lo caricò su una macchina e l'uccise a pugnalate durante una colluttazione furibonda col rapito, seppellendolo poi malamente nella campagna romana.
Ma la targa della macchina era stata annotata da alcuni testimoni, targa che risultò di proprietà del direttore del giornale fascista “Corriere italiano”, Filippelli, e da lì il magistrato Mauro del Giudice e il giudice Umberto Tancredi risalirono alla banda di Dumini arrestando tutti gli esecutori. Il 17 giugno, mentre infuriava lo sdegno nel Paese e sulla stampa non ancora a lui asservita, Mussolini fu costretto a sacrificare alcuni uomini della sua cerchia notoriamente vicini a Dumini, imponendo le dimissioni al suo segretario Cesare Rossi, a Marinelli (capufficio stampa), a Finzi (sottosegretario e suo collaboratore stretto), allo stesso Filippelli e al capo della polizia e quadrumviro della marcia su Roma, De Bono. Tutti costoro, a cominciare da Dumini, si cautelano però scrivendo dei memoriali per ricattare il duce se questi non li avesse protetti. Cosa che egli fece trasferendo il magistrato inquirente, costringendo al pensionamento il giudice e addomesticando il processo per una condanna mite a Dumini. Che da parte sua mantenne il patto di omertà negando ogni coinvolgimento del duce e sostenendo la tesi di comodo, previo opportuno “ritrovamento” del cadavere di Matteotti il 16 agosto, della sua morte accidentale durante un interrogatorio finito male, avendolo creduto mandante dell'uccisione di un fascista amico del Dumini stesso.

Il fallimento dell'opposizione aventiniana
Tuttavia quello fu il momento più critico per Mussolini, e avrebbe potuto portare seriamente alla sua caduta e incriminazione, risparmiando all'Italia 20 anni di criminale dittatura fascista e la sciagura della guerra, se solo i partiti dell'opposizione parlamentare, liberali amendoliani, socialisti riformisti turatiani e revisionisti del PCd'I guidati da Gramsci e Togliatti, avessero vinto ogni loro ignavia, viltà e opportunismo e approfittato della situazione favorevole per mobilitare le masse, già sollevatesi spontaneamente con scioperi e proteste nelle piazze, per dare la spallata decisiva a Mussolini e ai fascisti, mai come in quel momento così screditati e in difficoltà per aver rivelato il loro vero volto criminale e sanguinario. Invece in parlamento la voce di Turati e dei dirigenti revisionisti del Pcd'I fu conciliante e arrendevole, tutt'altro che quell'appello alla mobilitazione di massa e alla rivolta contro il regime mussoliniano, che pure le masse avevano iniziato spontaneamente a scatenare le masse popolari nel Paese. Il 27 giugno, dopo che il giorno precedente Mussolini era riuscito a ottenere la fiducia del Senato, essi scelsero l'attendismo e l'uscita per protesta dal parlamento ritirandosi sull'Aventino, nell'illusione protrattasi per mesi di un intervento del re - che non arrivò mai - affinché deponesse Mussolini e ripristinasse la legalità democratica.
Questa illusione accomunava sia la destra che la sinistra dell'opposizione. Tanto che se Amendola tentava ripetutamente ma invano di convincere Vittorio Emanuele III a dimettere Mussolini, ottenendone sempre un netto rifiuto, Gramsci non si faceva meno illusioni, convinto che con l'ondata di sdegno generale contro il regime fascista esso fosse “entrato in agonia”, e che presto avrebbe perso anche il sostegno delle sue “forze fiancheggiatrici”. Sottovalutò anche la figura del martire Matteotti come antifascista conseguente rispetto a quella di socialista riformista definendolo “pellegrino del nulla”, come fosse stato una sorta di Don Chisciotte.

L'avvento della dittatura fascista aperta
Questa grave miopia e indecisione opportunista dell'opposizione aventiniana consentì a Mussolini di riprendere gradualmente in mano la situazione, anche perché i suoi veri sostenitori - il re, il Vaticano, il grande capitale finanziario e industriale e gli agrari - continuavano ad appoggiarlo e ad incoraggiarlo ad andare fino in fondo e con qualsiasi mezzo nell'azione per ripristinare l'"ordine" e la "pace" sociale. Finché, col discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera, Mussolini sferrò il colpo finale di fronte ad un'opposizione ormai vinta, impaurita e silente, rivendicando con arroganza la responsabilità del delitto Matteotti e di tutti i misfatti del fascismo, e annunciando che avrebbe riportato la “tranquillità” e la “calma laboriosa” nel Paese con l'uso della forza.
Cosa che fece fin dall'indomani e nei mesi seguenti con la chiusura e lo scioglimento delle sedi dei partiti, dei circoli e delle associazioni considerate "sovversive" o semplicemente "sospette", il sequestro di giornali e la sostituzione delle direzioni, gli arresti illegali, i pestaggi e l'eliminazione fisica ai danni degli oppositori al fascismo, seguiti poi dai tribunali speciali, il confino e l'esilio degli antifascisti. Il 24 dicembre di quello stesso anno Mussolini ottiene dalla Camera i pieni poteri politici, che aveva già rivendicato nel '22 ottenendoli allora solo in campo economico. Egli non è più presidente del Consiglio (primus inter pares ) ma capo del governo, non più soggetto al parlamento ma soltanto al re. Nomina e revoca personalmente i ministri, decide le priorità in parlamento e può emanare direttamente leggi senza approvazione delle Camere. In pratica è la soppressione del parlamento e l'inizio della ventennale dittatura fascista.

Le impressionanti analogie con l'oggi
Tutto questo non ci ricorda sinistramente qualcosa? Non ci rimanda direttamente alla controriforma neofascista e presidenzialista della Costituzione, modellata sul Piano di rinascita democratica e lo Schema R della P2, il cosiddetto premierato che la ducessa Meloni vuole imporre in tutti modi e che le darebbe i pieni poteri come a Mussolini? E la grave sottovalutazione della premier da parte dell'opposizione - negando che abbia riportato il fascismo al governo ma cerchi piuttosto di imporre una “svolta illiberale”, e comunque assicurandole “il diritto di governare”, affidandosi a Mattarella come “garante” e isolando i movimenti di lotta nelle fabbriche, nelle scuole e nelle piazze - non ci ricordano con altrettanta impressionante analogia il comportamento miope, opportunista e fallimentare dell'opposizione aventiniana, che puntava tutto sulla difesa della “legalità” e sull'intervento del re (“garante” sì, ma di Mussolini), mentre lasciavano sole le masse ad opporsi spontaneamente e disarmate ai fascisti nelle fabbriche, nelle campagne e nelle piazze?
Intanto, come fece Mussolini tra il 1922 e il 1925, anche la premier neofascista Meloni avanza come un panzer nell'attuazione del suo programma di melonizzazione dell'Italia in vista di completarlo col premierato che le garantirà i pieni poteri. Ha tagliato i diritti alla classe operaia, ai lavoratori, ai poveri, ai disoccupati, ai giovani, alle donne, ai pensionati e ai migranti, aumentato i favori agli evasori e alle classi più agiate, favorendo il malaffare e la corruzione, e ridotto i poteri della magistratura per assoggettarla del tutto al potere esecutivo secondo il piano della P2. Sta restaurando la scuola autoritaria e classista di stampo gentiliano, si è impadronita della Rai e controlla quasi l'intera informazione. Porta avanti l'egemonia della cultura fascista e riscrive la storia a suo uso e consumo, come fa il ministro Sangiuliano in un'intervista a “La Stampa” in cui sostiene che Matteotti “è anticipatore di battaglie sociali, come quella di Caivano, che ci vedono impegnati con convinzione. E anche un convinto oppositore del trasformismo, che noi con la riforma del premierato vogliamo seppellire”. Riporta in auge dalle fogne e perfino al governo la peggiore teppaglia fascista cresciuta nel mito di Mussolini e dei terroristi neri della “strategia della tensione”, oltreché collusa con le mafie, come dimostra il recente caso Signorelli-Lollobrigida. Sta per dividere con l'autonomia differenziata l'Italia in 20 staterelli, sacrificando il Sud e le regioni più povere, e in politica estera ripercorre le orme espansioniste, egemoniche e colonialiste di Mussolini. Non ha a disposizione le squadracce di camicie nere, ma a chiunque tenta di opporsi risponde efficacemente lo stesso col manganello di Piantedosi, le querele, le censure, i provvedimenti disciplinari, il linciaggio mediatico: va buttata giù prima possibile con la lotta di piazza, prima che faccia altri e più gravi danni all'Italia.

Ipocrisia istituzionale e furberia meloniana
Anche la commemorazione istituzionale di Matteotti, tenuta il 30 maggio scorso alla Camera alla presenza di Mattarella e Meloni, dei presidenti di Camera e Senato, Fontana e La Russa, nonché degli ex presidenti della Camera Violante, Fini, Casini, Bertinotti e Fico, lungi dal rappresentare un passaggio imbarazzante per la premier neofascista e il suo camerata col busto di Mussolini in casa, è servita paradossalmente a camuffare ancor meglio il ritorno del fascismo al governo a cent'anni dal sacrificio del martire antifascista. Infatti la furba ducessa ha colto l'occasione per spacciare la sua versione della storia di quel delitto con una nota, emessa dopo la commemorazione, in cui definiva Matteotti “un uomo libero e coraggioso ucciso da squadristi fascisti per le sue idee”, omettendo di proposito ogni riferimento al mandante Mussolini. Cioè la stessa tesi di comodo concordata tra il carnefice Dumini e il mandante Mussolini secondo cui Matteotti sarebbe stato ucciso per iniziativa spontanea di alcune “teste calde” fasciste.
Non solo, ma Violante, oggi suo consigliere per gli affari giuridici e istituzionali - fra l'altro paragonando vigliaccamente Lenin a Hitler e Mussolini, in quanto tutti ugualmente nemici del parlamento, ed esaltando il defunto fascista Tatarella come propugnatore della “pacificazione” tra fascisti e antifascisti - ha letto uno sporco discorso preparato ad hoc per lei in cui ha strumentalizzato la figura di Matteotti per esaltare il suo progetto di premierato, perché a suo dire anche il deputato antifascista lottava per una “democrazia decidente”: “Proprio la sua tragica storia, che oggi ricordiamo, ci insegna che le democrazie incapaci di decidere aprono i cancelli dell’autoritarismo”, ha detto infatti questo rinnegato del “comunismo” rigirando la frittata della storia a beneficio della premier neofascista, la quale non a caso è andata a congratularsi con lui al termine della cerimonia.
A conferma della sua ipocrita e farsesca attestazione di antifascismo, quattro giorni dopo arrivava la notizia, stigmatizzata anche come una vergogna e un affronto dall'Anpi nazionale, che insieme al francobollo commemorativo di Matteotti il suo governo aveva approvato anche l'emissione di un francobollo in onore dei 140 anni dalla nascita di Italo Foschi, fondatore nel 1927 della associazione calcistica della Roma. Naturalmente è un puro caso che costui, negli anni del delitto Matteotti, fosse stato uno squadrista sodale di Dumini e autore di assalti a giornali antifascisti e pestaggi a parlamentari dell'opposizione. E che in veste di federale romano del fascismo scrivesse al sicario del duce mentre era a processo a Chieti: “Ho parlato di te molto in alto e ti assicuro che il tuo contegno è apprezzato moltissimo. Caro Dumini, sei un vero eroe, degno di tutta la nostra ammirazione!”.
L'ignavia e l'opportunismo dei socialriformisti e dei revisionisti di ieri rivivono nella “sinistra” borghese di oggi. “È evidente – ha scritto il compagno Giovanni Scuderi nel messaggio Messaggio inviato alla Delegazione del PMLI presente in piazza a a Milano il 25 Aprile scorso - che la "sinistra" borghese, in tutte le sue ramificazioni, non può dire che l’attuale governo è la riedizione del governo di Mussolini perché allora sarebbe costretta a mobilitare le masse per abbatterlo con la violenza antifascista della piazza.
Spetta quindi al nostro Partito convincere il proletariato, le masse e le forze politiche e sociali antifasciste a cacciare il governo neofascista Meloni attraverso la lotta di piazza. È un nostro dovere antifascista imprescindibile, ma anche di tutti coloro che si rifanno al 25 Aprile.

12 giugno 2024